cinema

martedì 31 maggio 2011

NANNI MORETTI

PALOMBELLA ROSSA
NANNI MORETTI - 1989

Il film più importante di Nanni Moretti, quello più complesso, pensato, sovraccarico. Snodo della produzione morettina, Palombella rossa darà un respiro più internazionale al regista romano che diventerà l’autore di riferimento della cinematografia italiana da festival. Il film è un prisma che riflette molteplici e frammentati temi, più che un prisma è un mirrorball che rimanda senza una logica precisa idee-luci sulle pareti di uno spazio chiuso.



Gli spazi chiusi in questo caso sono l’Io del protagonista e il quadrato circoscritto della piscina con i relativi spalti. Chiusa a cerchio entro due incidenti anche la durata filmica il cui svolgimento non è però lineare ma va a costruire un tempo che dall’infanzia di Apicella/Moretti giunge al presente e trova quasi perfetta sovrapposizione con il tempo dilatato della partita di pallanuoto, vero palinsesto su cui si innestano altri testi o spunti narrativi.


E gli spunti narrativi, proposti con il solito irritante modo apodittico e sentenzioso, sono davvero molti e presi singolarmente hanno spesso anche indiscusso valore e originalità ma che nel loro insieme non riescono a tradursi in un’ opera organica, coerente, leggera, usando quest’ultimo termine nell’accezione usata da Calvino nelle Lezioni americane. Infatti Palombella rossa è soprattutto un film pesante, pesantissimo che nonostante gli sketch divertenti va a fondo come piombo nella piscina di Acireale.


Messo subito in chiaro il principale difetto del film, esso presenta comunque molti pregi, che ne fanno, come si diceva all’inizio, uno dei film più importanti della cinematografia italiana degli ultimi decenni.


Innanzi tutto, aspetto principale del film è il tentativo di fare una riflessione sul linguaggio. Palombella rossa, oltre che ad essere la solita testimonianza di narcisismo egocentrico da parte di Moretti, è un film sul linguaggio ma le conclusioni restano superficiali, da comicità televisiva, capaci solo di proporre qualche affermazione banalmente saggia: Chi parla male, pensa male e vive male; Le parole sono importanti; La vita di un uomo viene sporcata per sempre se qualcuno ne parla su un settimanale; Guarda, non bisogna leggere, ma non bisogna nemmeno scrivere perché un concetto, appena viene scritto, ecco subito che diventa menzogna.


Va comunque detto che l’accostamento di codici linguistici diversi è una bella trovata. Come la ripresa televisiva e gli stilemi del giornalismo, il super 8 amatoriale e la superproduzione cinematografica, i tecnicismi sportivi e il politichese.


Vi sono poi le considerazioni sul comunismo, diventate, in Italia, la cifra che ha segnato il dibattito sul film e che tracciano l’aspetto più legato alla situazione nazionale, limite che però ha dato voce ai turbamenti della sinistra specie nell’anno che si era aperto con la repressione di Piazza Tienanmen e le proteste di Vilnius, ma di questo nel film non c’è traccia e la crisi di identità della sinistra si riduce a dibattito da festa dell’Unità di provincia. Moretti riduce tutto in macchietta, con il solito uso di quelle espressioni codificate contro le quali Michele si scaglia (Noi siamo una forza come le altre: siamo uguali, anche se siamo diversi)


Altro tema è quello della memoria. Memoria individuale e collettiva, perduta e ritrovata, con l’urlo liberatorio dell’invocazione disperata al tempo perduto: le merendine, i pomeriggi di maggio, il brodo di pollo!. E proprio questo assieme all’incitamento di fronte al finale di Zivago e alla tribuna elettorale che diventa E ti vengo a cercare restano i momenti migliori del film.


Ma Palombella rossa è molto altro ancora. È un film cattivo e violento, in cui tutti parlano e vomitano le proprie verità e nessuno ascolta, che evidenzia la contrapposizione tra individuo e gruppo.


È infine un film che annovera elementi fortemente nazional-popolari: padri, madri, figli, lo sport, lo spirito di squadra, i cori, il PCI e la Chiesa, il tema di Lara e Piovani…


Sì, c’è troppo, troppe parole, troppo Moretti.

lunedì 30 maggio 2011

STRONCATURE MUSICALI

BILANCIO - negativo - PROVVISORIO 2011


Elbow, supponenti

Diamo un’occhiata o meglio un’ascoltata ad alcune uscite di questa prima parte dell’anno, tutte nel segno della delusione, della conferma negativa, dell’inutilità. A quest’ultima categoria, quella dell’inutilità, appartengono molti album. Per esempio The king is dead dei Decemberists. Gruppo cresciuto come clone di una band alla frutta e sempre troppo considerata come i REM, erano riusciti a comporre qualche bella canzoncina, ma la voce non ci aveva mai convinto. Con questo disco si può definitivamente cancellare il gruppo di Colin Meloy dalla lista dei ‘da seguire’. Oltre ai già citati REM, il cui Collapse into now è un vero e proprio collasso, quindi una conferma negativa, gli Elbow, con Build a rocker boys, sono addirittura patetici. Tanto vale ascoltare direttamente Peter Gabriel. Sovraccarico, seriorissimo, palloso. Letteralmente inascoltabile, direttamente nel cestino senza passare dal via. Non si capisce come gente che dovrebbe capirci qualcosa possa apprezzarlo. Già morti e sepolti anche i Fleet Foxes. Peccato perché qualcosa di interessante c’è nel loro Helpless blues. Si impegnano molto, certe atmosfere pop folk anni sessanta con strizzatine d’occhio a Brian Wilson sono carine ma l’album è troppo fragile, troppo pesante il fardello delle aspettative dopo il celebrato debutto.



Grande delusione da Bill Callahan. Poteva essere l’atteso capolavoro a coronare tante prove convincenti ma mai capaci di elevarsi oltre i livelli standardizzati di un sincero cantautorato ma eccetto la promettente canzone d’apertura Apocalypso si rivela di una noia mortale. Altro cantautore, italiano stavolta e altro disco che finisce diritto nel cestino: Vinicio Capossela. L’ultimo album è esageratamente pretenzioso. I pochi momenti che si salvano sono copie sbiadite del suo disco migliore, Ovunque proteggi. Troppi elogi, il simpatico Vinicio non li ha saputi gestire ed è andato oltre, precipitando in un abisso profondo. Torniamo all’estero, ecco un disco molto acclamato che, preso atto dell’atmosfera di rock genuino ma poco originale, resta ben sotto le aspettative. Si tratta dei Low. Eppure anche per C’mon critici entusiasti. Un discorso a parte merita Danger Mouse. Dopo Crazy da lui ci si aspetterebbero solo capolavori, invece, nonostante qualche buona intuizione, le sue ultime uscite deludono. La presenza di David Lynch in Dark night of the soul non ha portato nient’altro oltre la curiosità per un disco incolore e troppo eterogeneo e il recentissimo Rome è lodevole per il tentativo intelligente di recuperare quel grande patrimonio che è la musica da film italiana ma il risultato dopo un iniziale ‘ma che bravo’ è di abbandonare l’ascolto perché il disco non coinvolge.


E questo basti per lavori accolti con critiche generalmente positive.


Vinicio, megalomane

mercoledì 25 maggio 2011

HAROLD RAMIS / BILL MURRAY

GROUNDHOG DAY
IL GIORNO DELLA MARMOTTA - 1993


Il giro è quello del Saturday Night Life, il genere frequentato quello della commedia comico-brillante con risvolti tra la favoletta romantica e la fantascienza.

Harold Ramis non è un regista da festival; non è un regista cult; non è un regista da recuperare per citazioni snob. È un autore che ha delle buone idee e le mette in atto con la professionalità generalista che serve a far girare il grande showbiz americano. Due suoi script, Animal House e Ghostbusters, bastano a definire una carriera.

Groundhog Day è un piccolo capolavoro. La storia è un classico: il corso del tempo si inceppa e il futuro diventa alterabile a proprio piacimento.

L’ordinario weatherman Bill Murray si trova esattamente in questa condizione, che, dopo qualche problema di adattamento con le inevitabili situazioni comiche di riferimento, gli permetterà di gestire a suo vantaggio la straordinaria occasione capitatagli.

Murray è come al solito bravissimo, qui impegnato a conquistare una poco invitante Andie McDowell e capace di sfoderare il suo umorismo controllato che sconfina quasi in quel cinismo indolente che è diventato la sua caratteristica.

In quanto alla pura e semplice regia Ramis fa il suo mestiere di ‘direttore delle riprese’ e niente altro, seguendo una sceneggiatura ad alto rischio. Ad un certo punto, e abbastanza presto, siamo presi del panico pensando a come riuscirà a riempire la durata del film, una volta che  il meccanismo che fa la storia è svelato. Ed è qui che si rivelano la bravura e il mestiere di Ramis-autore. Il film va avanti nella ripetizione e grazie ad un cambiamento di genere in piena corsa prende una strada che lo porta dritto dritto al sospirato e invocato finale.

Ovviamente tutto si regge sulle spalle del carattere principale, per il quale era stato scelto inizialmente Tom Hanks, poi scartato perché “too nice”. Mai scelta si rivelò più azzeccata dal produttore, che guarda caso è proprio Ramis, il quale dirige, scrive la sceneggiatura, è autore delle canzoni della colonna sonora. Ripeto, un vero professionista dell’industria cinematografica con letture insospettabili, però. L’ispirazione di Groundhog Day deriva da Friederich  Nietzsche e dalla sua Gaia scienza e non da un testo di Ouspenski, tiene a precisare Ramis.

E già, l’eterno ritorno…


venerdì 20 maggio 2011

ANDREA ZANZOTTO / ENNIO MORLOTTI

DENTRO E DIETRO IL PAESAGGIO

Paesaggio sull'Adda, 1953

Senza alcun dubbio Andrea Zanzotto è il più grande poeta italiano vivente e quando si ridefinirà il canone del Novecento molti poeti laureati verranno ridimensionati mentre la voce di Pieve di Soligo manterrà una posizione di preminenza. Eppure parlare oggi di Zanzotto resta argomento per pochi, troppo pochi, appassionati di poesia, quindi l’ambito di circolazione dei suoi testi poetici è davvero limitato. Poi magari quando Fellini doveva inserire versi originali in film quali Il Casanova e La nave va e aveva bisogno di un poeta di qualità era proprio a Zanzotto che si rivolgeva. Come da ricordare, per rimanere in un contesto cinematografico, le frequentazioni ricche di suggestioni tra il poeta e l’ultimo vero maestro del cinema italiano, Ermanno Olmi.


La raccolta di esordio è Dietro il paesaggio, del 1951. L’atmosfera generale è ancora acerba, sotto il segno di classici quali Dante, Petrarca, Hölderlin, Mallarmé fino ai contemporanei Lorca e Montale. Ma sono già presenti temi che troveranno compiuto sviluppo nelle raccolte successive. Tra questi, dominante è il rapporto tra Io e Paesaggio, in cui i due poli del rapporto tendono a fondersi in un unico ente proteiforme che è voce lirica ed interlocutore.


Collina a Imbersago 1956

 Degli anni Cinquanta sono anche i primi paesaggi ‘maturi’ di Ennio Morlotti, soggetto che accompagnerà tutta la produzione del pittore lombardo, dalle rive dell’Adda agli ulivi e ai cactus del Ponente ligure.


Paesaggio, 1964




ORMAI
Ormai la primula e il calore
ai piedi e il verde acume del mondo


I tappeti scoperti
le logge vibrate dal vento ed il sole
tranquillo baco di spinosi boschi;
il mio male lontano, la sete distinta
come un'altra vita nel petto


Qui non resta che cingersi intorno al paesaggio
qui volgere le spalle.



Cactus, 1970

DISTANZA
Or che mi cinge tutta la tua distanza
sto inerme dentro un’unica sera


Odora il miele sulla mensa
e il tuono è nella valle,
molto affanno tra l’uno e l’altro


Io sono spazio frequentato
dal tuo sole deserto,
vieni a chiedermi dove
gridami solitudine


E questo azzurro guasto di sgomenti
e di luci di monti
per sempre m’ha appreso a memoria.




Rocce, Anni Ottanta


Poesie tratte da Dietro il paesaggio, 1951
Opere di Ennio Morlotti

lunedì 16 maggio 2011

JOHN CALE

SCORCIATOIE DISCOGRAFICHE


Nico e John Cale
 Bisognerebbe partire dalle sperimentazioni del quasi omonimo John Cage negli anni Cinquanta veicolate da George Maciunas nel network Fluxus a partire dai primi Sessanta. Nel 1963 il suonatore di viola John Cale organizza un concerto Fluxus entrando nel movimento nel quale figura di spicco era il compositore La Monte Young. Cale decide di trasferissi a New York per approfondire lo studio della musica sotto l’insegnamento di Cage. È in questo periodo che nasce il Theater of Eternal Music conosciuto anche come The Dream Syndicate, in cui Cale, La Monte Young , Tony Conrad, Jon Hassell portano avanti le idee di John Cage e di Fluxus.



L’esperienza in Dream Syndicate per il ventunenne John Cale sarà fondamentale e ricca di sviluppi, primo fra tutti la fondazione, con Lou Reed, dei Velvet Underground. È il 1965. Il mondo è in piena Beatlesmania ma la creatura di Cale e Reed può essere considerata tra gli eventi più importanti per la storia del rock. Prima dell’uscita dell’album Loaded nel 1970, John Cale lascerà i Velvet per iniziare una brillante carriera sia come solista che come produttore. In questa veste di ‘talent scout’ va segnalata la produzione del primo album di Patti Smith, il capolavoro Horses.


Siamo quindi di fronte ad un musicista che ha percorso tutto il secondo Novecento e seppur in maniera molto discreta ma decisiva, ha influenzato notevolmente lo sviluppo della scena rock.


La prima tappa di questa scorciatoia discografica è Paris 1919, uscito nel 1973. Si tratta di una raccolta di composizioni che assumono la forma di brevi racconti letterari musicati, in cui la musica può essere definita un pop-rock orchestrale. La cultura, sia letteraria che musicale, infatti, è l’elemento che segna l’album. I testi delle canzoni spaziano da Shakespeare a Graham Greene, dalla guerra di Crimea alla I Guerra Mondiale, dall’Andalusia al Transvaal mentre le partiture percorrono un compendio pop-rock che include filastrocche alla Beatles, rock’n’roll sporchi, lied classici, brani sussurrati su melodie minimaliste, sontuosi accompagnamenti orchestrali o di archi. Ascoltare Paris 1919 è un piacere e un divertimento.


Del 1982 è Music for a New Society. Disco complesso, difficile, bellissimo, nel quale trovano un perfetto equilibrio la vena avanguardistica e sperimentale e l’anima più accessibile e ‘popolare’ della musica di Cale. Quasi un’unica suite sonora dalla quale emergono frammenti melodici che in qualche occasione si strutturano in forma-canzone come in Close Watch o nelle sublimi Chinese Envoy e Thoughtless Kind, vertici della musica contemporanea.


All’inizio degli anni Novanta, a cinquanta anni, un John Cale in splendida forma si concede un live, ed uno dei migliori live mai incisi. Semplicemente la voce, sempre intensa e in alternanza, accompagnamento di tastiere, viola o chitarra, suonate dallo stesso musicista gallese. Fragments of a rainy season è un disco che contiene venti canzoni, tra le quali alcune poesie di Dylan Thomas musicate da Cale, Style It Takes, composta con Lou Reed in ricordo di Andy Warhol, e due cover straordinarie, Heartbreak Hotel di Elvis Preasly e Hallelujah di Leonard Cohen.


Dopo il Duemila, c’è ancora la forza e l’ispirazione per realizzare un altro gran bel disco: con Hobo Sapiens c’è un ritorno ai tempi di Paris 1919. Raccolta di canzoni dalla struttura tradizionale ma aggiornate alle sonorità correnti. Non c’è la rottura o l’innovazione dei suoi migliori lavori ma la classe che si unisce all’intelligenza fanno di Hobo Sapiens un album ricco di momenti gradevoli e mai banali, nei quali basta una frase di viola, un basso quasi dub, un accenno di melodia orientale al sinth, a caratterizzare una canzone.


“L’hobo sapiens è un nomade: quando è in un posto pensa già al posto dove andrà domani. È il futuro…Conta solo ciò che farò domani.”

mercoledì 11 maggio 2011

URI CAINE

CONVERSAZIONI MUSICALI

Gustav Mahler in Toblach - 1999              The Goldberg Variations - 2000



A. Sto ascoltando Uri Caine, in questi giorni è in Italia per alcuni concerti e avevo pensato di andare a sentirlo, magari a Casale Monferrato

 

B. Caine è spesso in Italia, se non è questa primavera ci saranno altre occasioni. A Casale credo che proponga il suo ultimo lavoro o forse è un concerto per piano solo

 

A. Nell’ultimo suo cd , Twelve caprices , ci sono 12 composizioni per piano e quartetto d’archi. Ora sto ascoltando le sue riletture di Mahler.

 

B. Eccezionali. Pensa che una decina di anni fa, quando uscì Kid A dei Radio, alternavo Kid A alle sinfonie di Mahler, in particolare l’ottava diretta da Claudio Abbado. Pur nella assoluta distanza che separa questi due capolavori, in quel periodo era quella la musica che mi dava le sensazioni più forti, e se ripenso alla primavera del 2001, i piacevoli ricordi di quei giorni sono legati proprio a Kid A e all’ottava. Uri Caine è il tratto di congiunzione che collega Mahler ai Radiohead.

 

A. Accidenti che affermazione. Poi magari approfondiamo, ma come definiresti la musica di Caine?

 

B. Caine è un musicista assoluto. Pensa che ha una cultura musicale eccezionale. Non ha frequentato il conservatorio ma aveva un insegnante privato di piano e di composizione. Anni di duro lavoro con test massacranti che però Caine ricorda con piacere. L’allievo doveva riconoscere dopo alcuni secondi di ascolto il brano tratto da un qualsiasi compositore dal Rinascimento al jazz contemporaneo. Ed è proprio questo che impressiona quando si ascolta Caine, la sua sterminata conoscenza della storia della musica.

 

A. Effettivamente in Mahler in Toblach la partitura della quinta sinfonia viene riletta in chiave jazz ma non solo. Io ci sento anche la musica popolare e anche il campo jazzistico in cui scorrazza è praticamente quello dell’intero Novecento, con puntate notevoli in America Latina e nell’Europa dell’Est.

 

B. Sì, e questo è evidente soprattutto nelle Variazioni Goldberg di Bach. Ecco, le Variazioni di Caine sono un esempio perfetto di musica totale, dal barocco alla urban dei dj americani. E a proposito delle influenze popolari e dell’Est Europa di cui parlavi prima, Uri è ebreo e ci tiene molto a ricordarlo, e del resto la musica kletzmer è una componente essenziale delle sue composizioni.

 

A. Mi sembra che questo sia evidentissimo nella quarta traccia di Mahler in Toblach, con quel canto gitano che sfocia in una travolgente improvvisazione jazzistica dalla quale emerge il tipico violino kletzmer. E ora che ci ripenso, certe cose di Kid A, come, che so, National Anthem, potrebbero derivare proprio da Caine.

 

B. Sì, così ristabiliamo la linea Gustav Mahler - Uri Caine - Radiohead. Beh, anche oggi l’abbiamo sparata grossa!!!

 


domenica 8 maggio 2011

ERIC AMBLER

LA MASCHERA DI DIMITRIOS
ERIC AMBLER - 1939

Il plot si snoda lungo i suggestivi itinerari dell’Europa levantina: Istambul, Smirne, Atene, Sofia, Belgrado fino a Parigi, con puntate in Svizzera e a Roma. Quasi un ritorno dell’Orient Express. E proprio le atmosfere ‘Orient Express’ con immancabili omicidi, spie, trafficanti di droga, rendono godibilissimo questo classico del genere spy-thriller con agnizione finale.



Eric Ambler sa scrivere libri da ‘Giallo Mondadori’ o ‘Segretissimo’, la lettura è avvincente e poco impegnativa, mescola l’esotico geograficamente più prossimo ai topoi consolidati della spy-story, permettendosi di apportare innovazioni che, come ne La maschera di Dimitrios, ne fanno un autore in grado di emergere dalla selva dei romanzieri di genere. Ambler non è Simenon, va detto subito, e forse neanche Graham Greene ma è da considerarsi il precursore di Ian Fleming, rispetto al quale dimostra una più consapevole ironia letteraria, come nel finalino post-scioglimento dell’intreccio.


In questo celebre romanzo del 1939 storia e geografia sono la scacchiera fondamentale sulla quale l’autore muove le sue pedine. E di pedine letteralmente si tratta. I personaggi sono caratteri senza profondità che assumono identità in base alla funzione che svolgono nel racconto. Nel definire questi personaggi-funzione Ambler si concede qualche sfizio anticonformista. Qui il ruolo di detective-motore dell’azione è assegnato ad uno scrittore di gialli inglese che senza altre intenzioni rispetto alla semplice curiosità o all’ispirazione per un eventuale romanzo, si ritrova trascinato dietro alla soluzione di un enigma che lo porterà in giro per mezza Europa. A lui si affiancherà un altro carattere il cui ruolo è di dare spinta ad uno sviluppo della trama che affidato al solo scrittore inglese avrebbe rischiato di incepparsi. I due protagonisti formano una coppia di detective sui generis. Completamente in balia delle situazioni, incapace di prendere decisioni tranne che di seguire il flusso delle vicende per propulsione da parte di altri, lo scrittore Latimer non fa che commettere errori di ogni tipo dimostrandosi completamente imbranato, un imbranato che però riconosce, con rammarico e senso del ridicolo, i suoi comportamenti sbagliati. Peters, l’altro ‘detective’ nella sua ricerca-quest è mosso da ragioni ben più sostanziali: vendetta, denaro, affermazione della propria pretesa superiorità intellettiva.


Vi è poi il terzo protagonista, che è l’espediente narrativo del romanzo, l’assente-presente Dimitrios il quale apparirà solo nel finale dove tutti e tre i caratteri si ritroveranno per la resa dei conti risolutiva.


Corollari delle tre funzioni principali, compaiono le più svariate comparse le quali vengono mosse dall’autore negli ambienti più diversi, a dipingere quella varietà che segna uno dei pregi del romanzo. Ecco allora alti funzionari turchi, tenutarie di postriboli, agenti segreti polacchi, uomini politici bulgari, contesse edoniste, spacciatori e consumatori di droghe, alta e bassa società cosmopolita.
Notevole la descrizione degli effetti della droga sul tossicodipendente, anche pensando che La maschera di Dimitrios è uscito prima della II Guerra Mondiale.


Locandina del film di Jean Negulesco del 1944





Copertina della prima traduzione italiana nel 1949



La recente edizione ne gli Adelphi



venerdì 6 maggio 2011

JEAN DUBUFFET

JEAN DUBUFFET E L'ITALIA
LUCCA - Lu.C.C.A.


In una lettera a Enrico Crispolti del 1959 Dubuffet così scriveva: «Non comprendo il senso preciso di questo termine: 'Arte informale'. Temo che tale termine non si applichi a qualcosa che possa veramente essere definita e circoscritta. I miei lavori dipendono, o meglio alcuni di essi forse dipendono da ciò che alcuni hanno in vista quando enunciano questo termine? Non ne so nulla. Sono comunque persuaso che ogni arte che procede da formule o da sistemi è brutta, e non voglio per quanto mi concerne obbligarmi a nulla del genere. Se certi miei lavori possono forse soddisfare le condizioni richieste per la formula dell'Arte informale, è fuor di dubbio che altre mie opere, anch'esse molto numerose, siano in opposizione totale con questa formula. Quindi non vedo con chiarezza cosa io abbia a che fare con l'arte informale. Aggiungerei che io non amo affatto questo termine».

"L'arte deve nascere dal materiale e dallo strumento e deve mantenere la traccia dello strumento e la lotta di questo con la materia. L'artista deve esprimersi, ma anche lo strumento, anche il materiale. Ogni materiale ha il proprio linguaggio", da Prospectus, 1946 (brani estratti da freniszero).


La mostra di Lucca offre una doppia occasione: entrare in contatto con l’opera di Dubuffet attraverso una mostra che copre tutto il percorso espressivo dell’artista francese, con il giusto numero di opere (non troppe, non poche), tutte significative, volte a sottolineare i legami stretti con l’arte italiana del Novecento; apprezzare il nuovo spazio lucchese per l’arte contemporanea, dotato di bar e bookshop e di spazi per la comoda fruizione delle opere in mostra.


‘Jean Dubuffet e l’Italia’ sottolinea i legami dell’artista con il nostro paese, che lo ha scoperto e lanciato ma che lo ha soprattutto ispirato. Nella sua opera si colgono influssi che vanno da Savinio e De chirico per la primissima produzione giovanile, a Fontana, Burri, Capogrossi fino al Morlotti paesaggista informale tra gli anni Quaranta-Sessanta. L’«informe» (termine preferito dallo stesso Dubuffet all’ufficiale «informale») diventa formale con le realizzazioni degli anni Settanta, che definiscono anche il profilo più conosciuto a livello internazionale dell’artista. Il fortissimo legame con l’Italia resta però pressoché ignorato dalla critica francese, impegnata a mantenere l’artista entro l’esperienza dell’arte ‘nazionale’ con le radici ben piantate nelle avanguardie del primo dopoguerra, tra Breton e Michel Tapié.


La mostra consente di valutare a pieno Dubuffet, in particolare l’importanza di certe sue invenzioni che sembrano quasi anticipare artisti di grande ‘diffusione commerciale’ come Keith Haring o di grande impatto emotivo come Anselm Kiefer.


Concludendo, va segnalata la vicinanza che si coglie tra Dubuffet e un altro grande artista francese. Molto simile è l’approccio completamente antiretorico e dissacrante a quelli che sono i canoni tradizionali dell’espressività, in qualsiasi forma o genere si incarni. Mi riferisco a Louis Ferdinand Céline, vicinanza sottolineata anche dallo storico dell’arte Crispolti in un saggio sulla mostra di Dubuffet a Modena del 2006.

Lucio Fontana, Concetto spaziale - 1955

Jean Dubuffet, Le physique du sol, 1958

Anselm Kiefer, Johannisnacht - 1980



Dubuffet & Haring