cinema

mercoledì 26 novembre 2014

DINO CAMPANA

CANTI ORFICI - 1914





Un secolo fa il tipografo Bruno Ravagli in Marradi dava alle stampe il volumetto di prose e versi Canti orfici del compaesano Dino Campana. L’allucinato poeta della Romagna toscana era reduce da una sfortunata missione a Firenze dove aveva cercato di contattare gli artefici di Lacerba, Papini e Soffici.

A tal proposito c’è la testimonianza di Soffici sul primo incontro con il poeta. I due illustri fiorentini si trovavano presso la tipografia Vallecchi quando si imbatterono in un giovane. “Ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, averne il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista.[..] Campana tirò allora fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compere e vendite, e lo consegnò a Papini". Il racconto di Soffici continua. “Il nostro nuovo amico tremava come una foglia e si soffiava nelle mani, ridendo nervosamente tra una soffiata e l’altra. All’improvviso ci salutò e sparì di passo lesto”.

C’è da notare una certa sufficienza nel racconto del pittore-poeta nei confronti del giovane sconosciuto. Sufficienza che si sarebbe manifestata nello ‘smarrimento’ del vecchio taccuino da sensale che Campana gli aveva lasciato. Fatto sta che qualche mese dopo, il poeta di Marradi chiede a Soffici la restituzione del manoscritto, di cui non aveva altra copia. Soffici risponde di non trovare più il taccuino e molto candidamente dichiara: ”in un trasloco il libriccino era andato confuso nel gran sottosopra. [..] Pensavo del resto che la cosa non fosse di grandissima urgenza”.

Dino Campana scrive per il manoscritto anche a Papini, che a sua volta ha qualcosa da raccontare: “Gli risposi che non avevo nulla di suo. Mi riscrisse, allora, una lettera furibonda nella quale mi annunciava che sarebbe disceso a Firenze ‘con acuminato coltello’ per riavere, con le buone o con le cattive quei suoi preziosi scritti”. Dopo l’infausta vicenda fiorentina del dicembre del 1913, Dino Campana riscrisse a memoria i Canti orfici per farli pubblicare nella sua Marradi nella primavera del 1914. Va ricordato che il taccuino originale rispuntò miracolosamente nel 1971, trovato dalla vedova di Soffici, proprio tra le sue carte…

Ho riletto i Canti orfici parecchi anni dopo una prima lettura giovanile che mi aveva molto impressionato. La delusione è stata cocente. I versi  sono una serie di visioni dove la presenza dell’io lirico è ossessiva e delirante. Vi è il ricorso ad una eccessiva aggettivazione cromatica. Si sprecano i bianco, rosso, blu, viola con i relativi rafforzativi o attenuativi tra i quali spicca per ricorrenza ‘pallido’. Altre frequenti parole-chiave sono ‘sogno’, ‘ricordo’, ‘feroce’, ‘barbaro’. Il tutto condito da un estetismo decadente e simbolista in cui si evidenziano le influenze di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, tra gli italiani e di Baudelaire e Nietzsche tra gli stranieri. D’accordo, c’e l’impressionismo del verso libero, c’è la rottura rispetto alle forme chiuse, ci sono i richiami espliciti alle prostitute e alla Bohéme maledetta ma il risultato poetico è piuttosto esile e ripetitivo.

Nonostante l’atteggiamento a dir poco fastidioso di un Papini, il critico aveva letto giusto quando, a proposito dei Canti orfici, asseriva: “Alla fortuna dell’opera di Campana hanno contribuito, anche, ragioni esteriori: il ricordo della sua vita errabonda e misteriosa; il suo finale inabissamento nella follia”.

Di questa rilettura di Campana ho comunque apprezzato alcuni aspetti. Il parentetico sottotitolo in tedesco “Die Tragoedie des letzten Germanen in Italien” con la dedica a Guglielmo II imperatore dei germani. L’epigrafe in chiusura di raccolta con alcuni versi di Walt Whitman. E, in modo particolare, la citazione, dal romanzo del 1902 Gli dei risorti, dello scrittore russo D. S. Merežkovskij. A tal proposito, guarda il caso, in questi stessi giorni sto leggendo un saggio su Pavel Florenskij in cui si fa riferimento allo stesso scrittore citato da Campana, attivo nei circoli simbolisti russi di inizio Novecento.


I virgolettati sono tratti da A. Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Vallecchi 1931 e G. Papini, Autoritratti e ritratti, Mondadori, 1962


Ardengo Soffici, I giocatori - 1909



Frutta e liquori - 1915

martedì 18 novembre 2014

GODDARD&RUNDELL

THE 2 BEARS
THE NIGHT IS YOUNG - 2014



Joe Goddard&Raf Rundell, in arte The 2 Bears, vogliono divertirsi. Vanno sul palco travestiti da orsi e producono musica che diverte. Comporre canzoni per i club danzerecci di Londra non significa automaticamente fare della musica dozzinale, ripetitiva e martellante. Già con il primo albun, Be Strong, il duo ci aveva deliziato con pezzi orecchiabili, ballabili, dai testi con sfumature leftist ma anche provocatoriamente banali. Il risultato era un album riuscito a metà, forse realizzato in fretta con dell’inutile materiale di riempimento.

Sono trascorsi più di due anni e i due hanno lavorato per fare le cose in maniera più professionale ma sempre mantenendo come obiettivo quello di divertire in modo intelligente e, a loro modo, impegnato. Alla Matt Johnson The The o alla Mattafix. Si potrebbe dire che ci stanno prendendo gusto e quella che poteva essere una goliardata con questo secondo The Night Is Young diventa una cosa seria. 

Goddard&Rundell continuano a fare electrodance ma il genere va ormai decisamente stretto a definire le tredici nuove tracce, per oltre un’ora di musica. Con tanto materiale facile cadere di livello invece il disco tiene, tranne per un solo episodio. Sorprende, ma non più di tanto, la virata ‘world’, già percepita in qualche episodio di Be Strong. Il disco è in parte registrato in Sudafrica e si sente. Sapori africani sono presenti in molte delle canzoni, basta citare la bellissima title-track o Son Of The Sun. Ma c’è anche l’urban reggae di Money Man o Run Run Run con le percussioni quasi tribali. Intendiamoci, The 2 Bears non fanno misica avant-guard o sperimentale, fanno dance che pesca dai Tavares alle produzioni di Curtis Mayfield dei ’70 o dalla Detroit Techno degli anni Novanta che suona però inconfondibilmente contemporanea. L’esatto opposto del copia-incolla dei Daft Punk.


Insomma, The Night Is Young è un disco che mette di buon umore. È il mio disco dell’anno.

Joe e Raf

mercoledì 12 novembre 2014

BÉLA BARTÓK

MUSICA PER ARCHI, PERCUSSIONI E CELESTA - 1936

Bartok con la figlia - 1916

Circa venti anni fa l’amico Guido mi regalò i sei quartetti per archi di Béla Bartók. Li ascoltavo nella vecchia casa di famiglia, di fronte ad una finestra rivolta a nord est che dava sui tetti delle case vicine e, sullo sfondo, su una porzione di ripide colline verdi di pini e di ontani. Oppure mi accompagnavano nei tragitti in macchina per andare al lavoro. A quel tempo facevo quasi tre ore di viaggio, tra andata e ritorno, attraverso paesaggi incantati. Quei viaggi durarono per oltre sei mesi e i quartetti di Bartók erano tra gli ascolti più frequenti. Inevitabilmente il compositore ungherese è legato a Guido, che già da molto tempo non c’è più, alle colline viste dalla finestra e ai lunghi tragitti solitari. Da allora, se non occasionalmente, non ho più ascoltato Bartók. E ancora per caso, mi sono imbattuto, mentre stavo lavando i piatti, in una trasmissione radiofonica dove un competente ed appassionato conduttore guidava all’ascolto della Musica per archi, percussioni e celesta composta da Bartók nel 1936. È stata una folgorazione.

Definire questa musica onirica è fin troppo banale ma l’ascolto equivale ad una discesa, quasi ad una caduta, nell’immaterialità di costruzioni mentali angosciose. Questa è la sensazione che si prova al primo ascolto, dove colpiscono soprattutto il crescendo e la successiva improvvisa serie di salti discendenti del primo movimento; il piano usato come percussione e i pizzicati nel secondo movimento; lo xilofono e gli archi strazianti del terzo movimento. Tre movimenti che contribuiscono alla costruzione di un’atmosfera notturna da incubo,  che si scioglie con lo sfrenato, liberatorio, quarto movimento.

Grazie alla guida del compositore Luca Mosca, si entra facilmente nella complessa struttura dell’opera. Si riesce così a comprendere quanto essa sia giocata su un numero limitato e ripetitivo di cluster formati da frasi semplici che ritornano in fugati, a canone, eseguiti al contrario in una successione di simmetrie e variazioni che attraversano tutti i quattro movimenti, spesso seguendo schemi a chiasmo o esecuzioni per intervalli rovesciati. Questo andamento a ritroso, queste alternanze recto/verso mi hanno fatto pensare alle teorie di Pavel Florenskij sul tempo rovesciato nel sogno.


Dopo l’ausilio della guida, gustare la Musica per archi, percussioni e celesta si sta rivelando un’esperienza emozionante. Sono riuscito ad ascoltare le interpretazioni di Karajan, Boulez e Bernstein. Forse quest’ultima è quella che preferisco.