cinema

martedì 30 novembre 2010

DARIO FO / NICCOLO’ MACHIAVELLI

VIENIVIACONME

29 NOVEMBRE 2010



“Sia chiaro: i consigli che il Segretario della Repubblica di Firenze dedicava al Principe in verità non sono a lui rivolti ma alla popolazione intiera del proprio regno. In poche parole si tratta di un vero e proprio machiavello col quale, fingendo di parlare al signore, si vuol dar l’avvisata ad ogni cittadino di come si articola e con quali trucchi si muove la macchina del potere”.


Questa l’introduzione di un Dario Fo in grande forma all’elenco di consigli ‘machiavellici’ proposto a vieniviaconme. Intanto un finalmente! Machiavelli in prima serata è qualcosa di eccezionale e graditissimo. Poi, non è il solito Machiavelli additato come esempio di cinismo diabolico e quindi contrario al buonismo immacolato dei benpensanti. Fo lo dice chiaramente, il pensiero del Segretario, specie quello dei Discorsi e degli Orti Oricellari ha sempre guardato alla repubblica e ad una certa libertà (libertà relativa a quei tempi, si capisce). Era soprattutto il popolo che gli stava a cuore, e anche qui per popolo s’intende sempre una élite. Sono state le tristi vicende della vita a fargli scrivere il Principe, lucido e disperato tentativo per rientrare in gioco, dopo i rovesci di fortuna, la galera e la tortura e l’esilio all’Albergaccio. Troppo compromesso Niccolò. Tutti sapevano della sua grandezza ma anche della sua testardaggine poco incline alla sottile scaltrezza curiale che gioverà tanto al ‘democristiano’ Guicciardini. Ma anche questa volta Machiavelli risulta un po’ tradito dal comunque bel monologo di Fo. Sì perché i consigli non sono Machiavelli ma ancora una volta machiavellismo. Come per l’arcinoto ‘il fine giustifica i mezzi’, anche i cinque consigli enunciati in trasmissione non si trovano nelle pagine del Principe. Sono una rielaborazione, una sintesi machiavelliana non testuale ma va bene ugualmente. Il senso è arrivato.


In conclusione. Pare che il Principe sia uno dei libri preferiti da Silvio Berlusconi, uno di quelli che si tengono sul comodino. È un libro immenso e mai come oggi rileggerlo fa comprendere i meccanismi del potere. È un libriccino però da leggere non per raggiungere e mantenere il potere da parte di un signore ma, come ben dice Fo, per metterlo a nudo. Niente da dire, nonostante gli stenti, la sfortuna e le umiliazioni subite dopo i fattacci di Prato del 1512, Machiavelli aveva compreso tutto ma a lui servì a poco.

lunedì 29 novembre 2010

ANISH KAPOOR

STAZIONE METRO

MONTE SANT’ANGELO – NAPOLI




Ottobre 1999 – Il Ministero dei Trasporti approva l’esecuzione della tratta Soccavo-Monte Sant’Angelo della metropolitana di Napoli



Maggio 2000 – Aggiudicato l’appalto dei lavori alla Giustino costruzioni Spa che apre subito i cantieri. Dal sito Giustino Gruppo risultano eseguiti lavori per 93 milioni di euro, dato più recente


Novembre 2004 – Anish Kapoor firma il contratto per la realizzazione della stazione di Monte Sant’Angelo. Progettazione e ultimazione delle due sculture previste dall’artista anglo-indiano: 10 milioni di euro


Luglio 2005 – Anish Kapoor consegna il progetto. E’ necessaria l’ingegnerizzazione dell’ ideazione artistica perché i lavori, iniziati nel 2000, sono già ad un buon punto d’implementazione. Termine dei lavori previsto per il 2008.


Dicembre 2006 – Sospensione dei lavori per l’adeguamento del sistema di trasporto nelle zone interessate dal fenomeno del bradisismo, come previsto dalle norme vigenti


Marzo 2007 – Superati gli ultimi ostacoli burocratici si può passare alla fase di esecuzione delle due opere ma ci si rende conto che non ci sono cantieri in grado di realizzare le opere come da progetto. Bisogna procedere a nuovi calcoli matematici


Maggio 2009 – L’assessore regionale ai trasporti Regione Campania Ennio Cascetta dichiara: Se avessi sa¬puto che avere il più grande scultore del mondo ci avrebbe comportato un ritardo di tre anni non lo avrei fatto. Detto questo l’anno prossimo è pronta. Ribatte l’assessore all’edilizia del Comune di Napoli Pasquale Belfiore: Sono dalla parte di chi ritiene che la stazione di Kapoor si possa evitare. Si tratta di stabilire se si vuole una stazione con valenza artistica oppure un’opera d'arte che contiene una stazione. La macroscultura è bellissima. Ma non mi convince l’abbinamento con la funzione.


Ottobre 2010 – L’architetto britannico Amanda Levete dichiara: in Italia, lo scontro con la burocrazia mi fa letteralmente andare fuori di testa. Mi avvilisce. Amo gli italiani, ma tutti questi intoppi che si mettono fra me e il mio lavoro qui sono frustranti. Stiamo lavorando a Monte Sant’Angelo da sette anni e credo che l’opera sarà ultimata alla fine del prossimo anno. E’ un ingegnoso incontro tra arte ed architettura. Sono esaltata dal fatto di collaborare con Anish. E’ un’opera gigantesca, brutale, selvaggia dove forma e funzione si incontrano e danno luogo ad un gioco di contrasti.


Informazioni e interviste tratte da vari articoli del Corriere del Mezzogiorno



giovedì 25 novembre 2010

IGOR MARKEVIC / VLADIMIR NABOKOV

VITE PARALLELE
Igor Markevic e Vladimir Nabokov, 1961.
Da 'Il misterioso intermediario' di Giuseppe Fasanella 
 
Igor Markevic e Vladimir Nabokov, di cosa avranno parlato, in Svizzera o in posto qualsiasi, lontano dalla Russia, negli ambienti cosmopoliti delle élites illuminate? Nobiltà di sangue e nobiltà d’intelletto. Scendere al Saint James di Parigi o nella falsa Bisanzio di un albergo veneziano.

Nella foschia sull’acqua
scivola il rimorchiatore
dalle brume
le alberature, le ancore, sirene
il fischio giallo del cantiere

Esuli russi in odor di dissidenza
lasciano il Baltico
ad attenderli altre Russie oltre il tramonto
piccole, chiuse, disperate

Monsieur Vladimir
nella suite dorata di Montreux
ha perso ogni speranza di riveder la Neva
“o cielo, o cielo, ti rivedrò nei sogni”.

 

Markevic ha attraversato un secolo. Esule russo, negli anni Venti è a Parigi ed incontra tutti. Da Picasso a Coco Chanel, da Bunuel a Cocteau, di cui diviene il giovane protégé e Nijinski, di cui sposa la figlia Kyra e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Nabokov ha attraversato un secolo. Esule russo, negli anni Venti è a Berlino dove frequenta il piccolo mondo degli émigrés antibolscevichi. Nei racconti del periodo parlerà di una città “swarming with ragamuffins and here and there an urban vagabond with an early evening thirst".

Negli anni Trenta Igor e Vladimir s’incrociano in Costa Azzurra, ospiti di nobili, di artisti, di diplomatici ma con l’avvicinarsi della guerra le strade tornano a divergere. Markevic passa in Italia, a Firenze, presso Bernard Berenson e diventa figura di contatto e di intermediazione tra nazisti, alleati e partigiani. Nabokov approda invece oltre oceano. Entra nel mondo universitario e se ne va in giro per gli Usa a caccia di farfalle. La moglie salverà il manoscritto di Lolita, pronto per finire tra le fiamme.

Dopo la guerra Igor dirige orchestre in giro per il mondo, in particolare ha rapporti con l’intelligence britannico e con il Mossad. In seconde nozze sposa una nobile romana e riallaccia i rapporti con i sovietici. Assume l’incarico della direzione dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Sta perdendo l’udito e si dichiara pubblicamente filosovietico e vicino al Partito Comunista. Il figlio Oleg, che assumerà il cognome della madre Donna Topazia Caetani, studia composizione e direzione d’orchestra a Roma e a Leningrado.

Negli anni Sessanta Nabokov torna in Europa ricco e famoso. Sceglie di vivere stabilmente al Montreux Palace Hotel, sul lago Lemano e viaggia in Svizzera, Francia e Italia a caccia di farfalle. Si acuiscono i disturbi di sinestesia. Il figlio studia canto e debutta assieme a Luciano Pavarotti in La Boheme a Reggio Emilia il 29 aprile 1961.

Di nuovo ci sono occasioni per frequentarsi tra Svizzera francofona, Costa Azzurra e Italia.

Nel 1977 Vladimir muore nella sua suite sul lago, per Igor invece si apre un nuovo capitolo. Nel pieno degli anni di piombo Markevic si ritova al centro di un’altra importante vicenda, quella del caso Moro e della trattativa tra Servizi Americani, KGB, Mossad e Brigate Rosse, con probabili addentellati con la Scuola Hyperion di Parigi dove sembra tramasse il leggendario Grande Vecchio. Igor muore misteriosamente nel 1983 nel suo ritiro in Costa Azzurra.

Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade,
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour.
Bin gar keine Russin, stamm' aus Litauen, echt deutsch.
And when we were children, staying at the archduke's,
My cousin's, he took me out on a sled,
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went.
In the mountains, there you feel free.
I read, much of the night, and go south in the winter.

 

martedì 23 novembre 2010

OLIVER STONE

WALL STREET – IL DENARO NON DORME MAI

OLIVER  STONE – 2010



Non proprio un instant movie ma quasi. Oliver Stone coglie la palla al balzo dopo il 15 settembre del 2008 e il seguente credit crunch e rispolvera il film di oltre venti anni fa aggiornandolo ai correnti tempi della Grande Recessione. Anche la colonna sonora è un sequel. Dopo vari lustri dallo storico My life in the bush of ghost Eno&Byrne tornano ad incidere canzoncine che deliziano e si intrecciano alle storie delle anime ciniche, belle, ciniche e belle della favola comunista di Stone.
Il film ha struttura ciclica, forse a spirale, dai canyon a filo d’Hudson su su fino agli attici di Manhattan e ancora più su nel cielo blu con le bolle di sapone e l’incantevole This must be the place, dove i Talking cantano ‘never for money, only for love’! Sì, questo deve essere il posto che si lascia alle spalle lo sporco denaro, la viltà di tradimenti e vendette per l’innocenza verde e pulita della nuova vita.
Ah, che meraviglia la favola bella di Stone. Il film si fa amare proprio perché è una favola e così deve essere visto, ché se ci si ferma a riflettere si rompe il fragile meccanismo/incantesimo e tutto cola a picco. E allora lasciamoci andare, seguendo le riprese alla Harry Potter tra jungle d’uffici e selve di grattacieli dove si incontrano cattivi che alla fine pagheranno mentre altri cattivi fischiettano come uccellini tra le nuvole (grande Wallach!) e scienziati pazzi illuminati e incompresi. Favola dove i padri mangiano i figli ma i figli-buoni-come-angeli poi perdonano e concedono sempre un’altra possibilità salvando così padri e madri. Tra frasi di Bob Dylan (Steal a little and they throw you in jail, Steal a lot and they make you king), feti pulsanti che sullo sfondo dei pc sostituiscono freddi bilanci aziendali, piccoli siti idealistici che sconfiggono plutocrati giganti. Non manca un omaggio a Morricone e, come nei vecchi cartoni, lo schermo che nero si chiude ‘a cannocchiale’ sullo skyline di NYC, uno dei molti ammiccamenti ironici allo spettatore. Due ore di spassoso divertimento.

domenica 21 novembre 2010

ROBERT WYATT


SCORCIATOIE DISCOGRAFICHE
1974 – 1985 – 2007



1974 - A prescindere da ciò che è successo prima. Le vette musicali dei Soft Machine, è chiaro, con quel momento rivelatore di Moon in June, magari nella versione eseguita per il rimpianto John Peel; il pasticciaccio della sbornia –meno male– e della caduta. Ma forse non si può non prescindere dal fatto che tutto porta al capolavoro, all’epifania, complice non solo Canterbury ma anche Venezia. E l’amore coniugale, si sopravvive a tutto, si distrugge il distrutto per ricostruire a intarsi la copia fedele dell’innamorarsi. Ed è Rock bottom. Un miracolo. Rock bottom è il monumento, la vera opera rock ‘progressivamente’ intesa. È il compimento, l’arrivo dei dieci anni che sconvolsero il mondo. La fusione perfetta di musica colta bianca e nera pronta per un pubblico molto più vasto rispetto a sperimentazioni ‘alte’ e quindi non ‘pop’ ma d’élite.
Con Rock bottom, l’abisso, il fondo toccati sono un vertice, il perfetto approdo, lo snodo che chiude un’epoca. Dopo di esso si aprirà un’altra fase e Robert sarà ancora lì, a dire la sua con quella voce improbabile ma irrinunciabile.

1985 - Old rottenhat è la proiezione speculare di Rock bottom. Nel periodo che separa i due dischi, musicalmente parlando, non c’è molto da segnalare. Altri i fatti importanti: incontri, collaborazioni, soprattutto l’impegno politico e il consolidarsi di un’aura che fanno di Robert una figura di riferimento per le menti migliori della nuova generazione. Le illusioni sono crollate e i Settanta si chiudono con la lady di ferro al potere. È l’inizio ufficiale del neoliberismo. Robert tra sconforto ed alcol, tra comunismo e new wave coglie nuovamente lo spirito dei tempi. Prosciuga la vena gonfia di rabbia e carica vitale che aveva portato a Rock bottom e fa uscire un album minimalista, l’esatto obbosto del capolavoro del 74. Voce e testi in primo piano. Tastiere congelate e drum machine, linee melodiche modulate per impercettibili variazioni che però catturano e colgono nel segno. Come è un segno che il disco scivoli via, quasi inosservato, ma Robert è lì, attento a fiutare quello che gira intorno. E il tempo gli darà ragione, come sempre.


2007 - Nel frattempo è successo di tutto. La globalizzazione per Robert si declina in internazionalismo localista. Il suo sguardo – e orecchio – è pronto a riconoscere i sussulti di resistenza che provengono da luoghi desueti per la cultura rock generalmente intesa. In particolare è il mondo latino ad interessarlo, anche per l’amore per la Spagna,frequentata fin dall’infanzia, con quel carico di passioni che la guerra civile e la lirica spagnola hanno lasciato negli intellettuali inglesi del Novecento. L’Operacomica è, ancora una volta, il frutto bello e maturo di stagione. Anche se Comicopera ha ben poco di comico. Si respira la polvere della guerra, perché dal 2001 siamo in guerra e tre sono i filoni che il disco segue. Uno è quello della guerra appunto. Ci sono conflitti, bombe, brandelli di corpi che inevitabilmente portano a cercare conforto negli affetti familiari che costituiscono l’altro filone seguito. Vi è poi lo spazio per la speranza utopica e un po’ rassegnata del guardare a momenti passati di rivoluzione. I tre atti di Comicopera lasciano ancora una volta una traccia profonda e piacevole da seguire.

venerdì 19 novembre 2010

ALDO MORO / SERGIO FLAMIGNI

CONVERGENZE PARALLELE
SERGIO FLAMIGNI – 1998
 
Autodidatta, partigiano, senatore PCI, Flamigni fa parte delle Commissioni Parlamentari più delicate della I Repubblica. Dal suo osservatorio privilegiato compie un’azione civile e di pubblica utilità mettendo a disposizione le conoscenze acquisite in anni di indagine appassionata. (http://www.archivioflamigni.org/)
In questo Convergenze parallele viene esaminato il Caso Moro con puntigliosità archivistica. Il clima nazionale e internazionale che fa da cornice al sequestro, dagli anni Sessanta alle vicende più recenti del pentitismo brigatista è analizzato attraverso le fonti, puntualmente citate in nota. Dal voluminoso materiale studiato da Flamigni emerge un quadro inquietante e incredibile entro il quale si è andata svolgendo la storia repubblicana italiana. Nello specifico, oltre a Moro, in questa coinvolgente inchiesta, si delineano le figure di Moretti, Cossiga, Pecorelli, le verità dei qual resteranno probabilmente nascoste ancora a lungo.
Il cuore del libro, che è anche la tesi sostenuta dal senatore Flamigni, è ben riassunto in questo brano a pagina 178 dell’edizione Kaos, casa editrice coraggiosa e troppo poco conosciuta:
“Viene colpito Moro per stroncare la politica del compromesso storico e la politica morotea di apertura al PCI, strenuamente avversata dalla amministrazione americana, dalla nomenclatura sovietica, dagli ambienti Nato, dai governi tedesco, francese e israeliano, e in Italia dalla massoneria piduista e dalla destra DC.”
Un’unica critica al libro è che si tratta di una visione, anche se ben argomentata, inevitabilmente di parte. Flamigni assolve il PCI e il ruolo da esso avuto nel supportare la DC nella ‘fermezza’ dimostrandosi più realista del re, quando invece Craxi e altre personalità cattoliche portavano avanti l’ipotesi della trattativa.
Ma il libro è comunque un macigno scagliato contro un’intera classe politica che non ha minimamente pagato delle responsabilità avute tanto che Cossiga ha potuto portare a compimento il suo cursus honorum fino alla carica più alta, quella di Presidente della Repubblica e se ci sono alla fine di questa storia altri vincitori, la P2 è senz’altro tra di essi.

giovedì 18 novembre 2010

TOMMASO LANDOLFI

TRE RACCONTI

TOMMASO LANDOLFI – 1963

1963, Tommaso Landolfi si trova con la famiglia nel Ponente ligure e aderendo alla cornice autobiografica compone questi tre racconti “sanremesi”. Tre variazioni sull’amore che costituiscono uno dei punti più alti della letteratura italiana del Novecento.
Qui Landolfi raggiunge, nel formato del racconto, un equilibrio perfetto tra forma e contenuto, tra profondità argomentativa e stile espressivo.
Il tema è come si è detto l’amore. Un amore declinato in un anticlimax provocatorio secondo le tipologie della follia, della passione e dell’indifferenza.
Anche la voce narrante si modula secondo una variazione dal primo all’ultimo dei tre “movimenti”. L’io narrante maschile del racconto iniziale “La muta” non ha un interlocutore. Nel successivo “Mano rubata” c’è invece un dialogo tra il narratore e la protagonista femminile. Nel conclusivo “Gli sguardi” ci sono invece due narratori nella forma di pagine parallele di diario, cosicché abbiamo due punti di vista interni contrapposti, completando un gioco di voci mirabilmente differenziato.
Le suggestioni sono molteplici. Landolfi e la sua misoginia antidemocratica sfoggiano una concisione tagliente e allucinata, di un allucinato come sempre, sprezzante e lucidissimo. Esemplare al riguardo il seguente brano: “Le responsabilità sono di chi se le prende, di chi le sente come tali, laddove io non ho mai sentito niente di simile nei confronti della famiglia, degli altri in generale e in ultima analisi di me stesso. Per la via della responsabilità si arriverebbe al famigerato rispetto per se medesimi e, chissà, forse anche della democrazia: ci mancherebbe altro!”.
Si respira aria di grande letteratura, da Dostoevskij a Poe, da Nabokov a lumeggiature della Dolce vita più acre, quella di Ennio Flaiano.


Edizione BUR fuori catalogo con una acuta introduzione di Carlo Bo, finissimo lettore delle opere di Landolfi. I ‘Tre racconti’, dopo la iniziale edizione Vallecchi del 1964, sono stati riproposti nella PB Adelphi con l’utile nota al testo di Idolina Landolfi.

BILLY WILDER

THE LOST WEEKEND
BILLY WILDER - 1945


Skyline di New York. La macchina da presa ruota da sinistra verso destra, inquadra la finestra aperta di un palazzo. Fuori,  appesa ad un filo penzola una bottiglia, dentro si vede un uomo che prepara una valigia. In un’inquadratura si concentrano i tre nuclei attorno ai quali ruota il dramma: Don Birnam,  l’alcol e la città. Dramma sociale, quindi, che narra la disperata discesa agli inferi del protagonista e la sua risalita in superficie dopo aver superato un climax di esperienze che vanno dall’umiliazione all’orrore del delirio tremens, dall’annullamento degli affetti fino alla prospettiva del suicidio. Risalita in superficie, lieto fine dunque, con l’ultima sequenza che ribalta la prima: la macchina da presa inquadra dall’esterno il solito interno con Don e la sua donna-salvatrice, rotazione  da destra verso sinistra a fermarsi sui grattacieli della città. Il dramma si chiude circolarmente da dove era iniziato, lasciando supporre uno sviluppo fuori quadro di vita coniugale e lavorativa. Lo scrittore infatti porterà a termine il libro che descriverà la sua esperienza di alcolista alla quale abbiamo appena assistito.
Il film si svolge  durante un weekend che Don e suo fratello avrebbero dovuto trascorrere in campagna per iniziare un periodo di disintossicazione. La ricaduta di Don  fa saltare il programma e attraverso una serie di flash back viene ricostruito tutto il percorso della dipendenza. Si intrecciano così due tempi, il tempo della esperienza passata che è ricordo e racconto,(è Don che narra la sua storia al barista) e il tempo effettivo, il weekend dalla mancata partenza al ritorno alla vita. L’arco di tempo complessivo è di circa tre anni, e l’inizio coincide con l’incontro con Helen. I due personaggi sono antitetici e rappresentano un dicotomia che ha un ruolo fondamentale nel film. Se Helen viene da una cittadina dell’Ohio, è di buona famiglia borghese, lavora al Time e crede nei valori forti dalla società americana, Don vive a New York, la grande città dalla quale bisogna allontanarsi per poter guarire, non lavora, non ha denaro ed è fondamentalmente un solitario. Gli unici contatti possono essere il barista e la prostituta, con i quali vige il rapporto economico di scambio, anche se questo sembra valere solo per Don: il barista infatti porterà la macchina da scrivere che gli  permetterà  di scrivere e di redimersi; Gloria dà del denaro a Don, ribaltando la direzionalità dello scambio cliente-prostituta.  L’antagonismo dei due caratteri principali si riflette nella contrapposizione tra città, luogo di tentazioni,  e campagna, dove sarà possibile la salvezza. Don, solo, si perde nella città e durante questo perdersi torna il Wilder realista di Menschen am sontag. Girate in esterni, le scene ci conducono con il protagonista in una New York lontana dagli stereotipi, fatta di sopraelevate, di quartieri anonimi e di banchi dei pegni, inesorabilmente chiusi per la festività dello Yom Kippur. Realismo, anche di contesto, ma Wilder inserisce un’altra matrice culturale, fondamentale per lui ebreo tedesco: l’espressionismo, sia leggero, da commedia, che nero, da dramma. Uniti essi si trovano nella lunga sequenza del teatro, con il contrasto fatto di campi alternati tra la rappresentazione gioiosa sul palco e l’angoscia dello spettatore, che giunge ad avere una visione di impermeabili vuoti che ballano con in bella evidenza la bottiglia nella tasca. Altra visione, non suscitata dal desiderio ma che porta al culmine della sofferenza è il delirio allucinatorio della lotta tra topolino e pipistrello. Climax visionario con accompagnamento  sonoro avente funzione psicologica, la scena del delirium tremens è la conclusione di un crescendo che aveva già avuto un momento topico nella clinica per alcolisti. Ma si potrebbero citare altri episodi, in quanto il film è costruito come un accumulo di nodi esperienziali successivi.  Due particolari, tra i tanti,  che testimoniano la grande finezza e maestria di Wilder: il tocco che ripetutamente fa Gloria sul collo di Don e il cerchio che lascia il bicchiere sul bancone;  la profondità di campo con la quale si colgono contemporaneamente in messa a fuoco multipla Don nella cabina telefonica in primo piano, i genitori di Helen in campo medio e all’estremità del campo Helen che parla al telefono con Don. Geniale

domenica 7 novembre 2010

FRANÇOIS OZON

IL RIFUGIO
FRANÇOIS OZON - 2009

Tossici che non trovano la vena e si bucano nel collo (ago che buca la pelle). Morte per overdose e corpo riverso a terra con bava alla bocca. Aborto consigliato, bambino tenuto. Metadone in gravidanza. Relazioni asimmetriche, rapporti occasionali non convenzionali. Bambini adottati che diventano padri di bambini abbandonati. Padri assenti, madri gelidamente arroccate, madri incoscienti, paternità omosessuale. Cimiteri, chiese, ospedali, ville patrizie e case di campagna vista mare. Ambienti per borghesia francese bianca. Nuove modalità per l’istituzione-famiglia in crisi di identità. Nel film Il rifugio ci sono tutte queste pesantezze. Effettivamente sono un po’ troppe ma, miracolo, il film non è pesante.
Ozon segue un ciclo vitale, nove mesi, dall’inverno freddo della morte all’estate luminosa della vita. Tutto accade sulla pelle della bella e brava protagonista, una Isabelle Carré realmente incinta durante le riprese: tempo narrativo e tempo extranarrativo devono coincidere ed infatti scandiscono il ritmo del film.
Qualche lieve citazione cinéphile, l’inizio con il viadotto di Passy dell’Ultimo tango, il Truffaut alle prese con l’attrice incinta in Effetto notte e soprattutto Rohmer grazie e non solo alla fugace presenza di Marie Rivière che torna sui luoghi del Raggio verde. E proprio Rohmer sembra essere il nume tutelare di Ozon ma al giovane e talentuoso regista manca la brillantezza dei dialoghi dell’insuperabile maestro. Inoltre, si ha l’impressione di un intento didascalico che afferisce ad un cattolicesimo, senz’altro sui generis, moderno, aperto, illuminista, ‘francese’ quanto si vuole ma che lascia una senso di costruito che nuoce ad un film comunque apprezzabile.

martedì 2 novembre 2010

VIDEO / NEUROSONICS AUDIOMEDICAL LABS INC.

NEUROSONICS AUDIOMEDICAL LABS INC.