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giovedì 7 maggio 2015

LIBANO - SIRIA

OFFENSIVA HEZBOLLAH  
5 MAGGIO 2015



Tfail è un villaggio libanese che si trova in una lingua di territorio incuneata all’interno della Siria. Il confine, segnato solo sulle mappe, è a qualche centinaio di metri dalle case del villaggio. Zona grigia, enclave e terra di nessuno, con la guerra civile siriana quest’area ha visto intensificarsi scontri tra le varie fazioni in lotta e continui attraversamenti di confine. Soprattutto di milizie sciite che dal Libano portano attacchi ai rivali di Assad. 

In questa provincia occidentale della Siria sono attivi gli islamisti di Al Nusra, affiliati ad Al Qaeda. Si ripropone, per tanto, il solito scontro tra sciiti e alawiti da una parte e i sunniti dall’altra. Nel mezzo i circa duemila abitanti di Tfail. Isolati per diversi mesi, nell’ottobre del 2014 sono stati raggiunti da un convoglio della Croce Rossa libanese, dopo trattative che hanno coinvolto Hezbollah, leader sunniti, forze governative di Beirut e Damasco. Ma subito dopo l’intervento, gli scontri sono ripresi e hanno lasciato sul campo diverse vittime. 

L’ultimo di questi scontri porta la firma di Hezbollah. Due giorni fa, sono caduti, in un’imboscata, almeno una quindicina di miliziani di Al Nusra. Gli sciiti libanesi, secondo fonti della sicurezza di Beirut, riportate dal quotidiano The Daily Star, raggiunto Tfail hanno poi compiuto un’incursione in territorio siriano, nella provincia di Qalamoun, distruggendo una postazione qaedista. 

Lo stesso giorno varie unità di islamisti operanti nella stessa area siriana hanno annunciato, via Twitter, la formazione di una cellula dell’Esercito della Conquista,  gruppo nato da pochi mesi e in espansione nella galassia del terrorismo anti Assad.


 “By the grace of god, the Army of Conquest of Qalamoun has been established from the loyal and truthful members of most factions in Qalamoun,” il twit. La situazione siriana è sempre più complicata.

Milizie Hezbollah

martedì 20 gennaio 2015

Il JIHAD IN CLASSE

DOPO PARIGI - GENNAIO 2015


Sono anni che nelle mie classi affronto temi quali l’Islam, il Medio Oriente, il terrorismo islamista, l’islamofobia, la questione israelo-palestinese. I fatti di Parigi e la forte copertura mediatica ad essi dedicata  hanno scosso molto i ragazzi, i quali hanno manifestato l’esigenza di conoscenza. Il forte impatto iconico di alcuni momenti della cronaca degli ultimi mesi, quali le decapitazioni dell’ISIS, il Nobel per la pace a Malala, l’esecuzione sul marciapiede di Parigi, lo slogan virale je suis Charlie,  ha suscitato interesse e voglia di approfondimento in alunni altre volte passivi e annoiati.
In questi giorni ho affrontato l’argomento partendo dalla lettura ed analisi di un articolo di Tahar Ben Jelloun, il quale, secondo me, già dal titolo, possiede una carica dirompente in quanto rovescia l’idea corrente e fa degli islamici le prime vittime della violenza jihadista. Infatti, subito alla lettura del titolo, si sono alzate le mani per intervenire. 

Ecco l’articolo come è stato presentato in classe su grande schermo.



mercoledì 20 agosto 2014

IL SOGNO E LA DECAPITAZIONE

INTERSEZIONI 


Jacopo Ligozzi, La scala di Giacobbe - 1593


Una serie di sovrapposizioni e interferenze. Tutto parte da una bella mostra vista a Firenze lo scorso anno, Il Sogno nel Rinascimento. In esposizione opere di alcuni tra i miei artisti più amati quali Dosso Dossi e Lorenzo Lotto, oltre al noto Il sogno del cavaliere di Raffaello della National di Londra.

Seguendo l’affascinante percorso espositivo  quattro  quadri con un soggetto insolito hanno suscitato la mia curiosità. Il soggetto è il sogno di Giacobbe, reso celebre da Raffaello, nel quale appare una scala che sale verso il cielo. I quadri in mostra erano: due disegni di Giovan Francesco Penni e del Cigoli; due oli su tela di Jacopo Ligozzi e ancora del Cigoli. Nelle opere Giacobbe dormiente è in primo piano mentre sullo sfondo appare la scala che sale al cielo. Ma nel quadro del Ligozzi, dalle anomale misure di 145x67 cm, quindi stretto e sviluppato in altezza, è la scala ad occupare quasi tutto il campo. E con essa due angeli in figura intera e le gambe di un terzo angelo in equilibrio sull’ultimo piolo visibile. In lontananza i primi chiarori dell’aurora illuminano la tenebra notturna ma creano al tempo stesso ombre profonde.

I soggetti della scala che unisce terra e cielo e dell’angelo sono presenti anche in molte opere di Anselm Kiefer, sul quale ho recentemente visto un bellissimo documentario di Sophia Fiennes. L’artista tedesco ha cercato di visualizzare le tematiche presenti nella poesia di Paul Celan in composizioni di forte impatto emozionale. Interferenze e sovrapposizioni.

Ma la scala di Giacobbe, Jacob’s Ladder,  è anche il film di Lyne che ho trovato citato in un saggio su Cartesio letto la primavera scorsa. Era quindi doveroso cercare di vedere il film, appena postato negli orti. Ma guarda il caso, la citazione di Meister Eckhart viene inserita e cantata da Thom Yorke, dal grande Yorke, nel brano Rabbits in Your Headlights degli Unkle. Eccellente il video del brano girato da Jonathan Glazer.

E di Jonathan Glazer è uno dei migliori film visti quest’anno, Under the Skin, con protagonista l’aliena Scarlett Johansson. Bella catena di rimandi, che non finiscono qui. Del film Jacob’s Ladder è stato previsto un remake. Si è interessato del progetto il regista James Foley che ha diretto diversi episodi della celebrata serie TV House of Cards.

James Foley, giornalista americano, è stato decapitato oggi 19 agosto, dai terroristi dell’ISIS.


Anselm Kiefer, Seraphim, da Paul Celan - 1983


Jacopo Ligozzi e Adrian Lyne (Jacob's Ladder)

La decapitazione di James Foley da parte dell'ISIS. Ansa.it 



lunedì 30 giugno 2014

STATO ISLAMICO DELL'IRAQ E DEL LEVANTE

CALIFFATO DI DĀ’ISH - GIUGNO 2014

Milizie dell'ISIS dalla Siria verso l'Iraq, gennaio 2014 - foto AP/dpa bild.de


È stato proclamato il Califfato  dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis, in arabo Dāʻish). Da mesi la frontiera tra Iraq e Siria era di fatto inesistente. Da mesi i gruppi sunniti in lotta con Assad acquartierati nella città siriana di ar-Raqqah  operavano insieme ai qaedisti iracheni. Ad inizio 2014 insieme hanno dato vita alla reconquista dell’Iraq, culminata con l’espugnazione di Mossul. I kurdi confinati a nord nel territorio di Kirkuk, gli sciiti arroccati sulla linea di Baghdad, gli islamisti hanno avuto vita facile. 
Sul loro cammino hanno razziato e sparso sangue con furore medievale, intanto continuavano ad arrivare finanziamenti dal Golfo in funzione anti Teheran.  Obama ha riallacciato i rapporti con gli Ayatollah ed ha ufficialmente inviato qualche centinaia di Advisors assieme al segretario di Stato John Kerry. Tony Blair ha fatto discutere con una presa di posizione coraggiosa che rivendicava l’opportunità della guerra contro Saddam e l’inopportunità della politiche di Obama in Iraq. La totale assenza dell’Occidente ha portato ad un nuovo disastro e questa volta le conseguenze sono effettive. Proviamo a schematizzare:

per la prima volta da quando nel 1967 Israele ha ridefinito i confini del proprio stato, sono saltate le frontiere tra due stati sovrani stabilite dalla comunità internazionale;

il jihadismo sovranazionale ha una base territoriale ampia e pienamente controllata;

il territorio  del Califfato è ricco di enormi riserve di idrocarburi e controlla le rotte del petrolio via terra che vanno dal Golfo al Mediterraneo e alla Turchia;

il Califfato si presenta come un detonatore pronto ad innescare reazioni a catena in Libano, Giordania, Palestina;

migliaia di jihadisti da tutto il mondo sunnita stanno accorrendo verso il Califfato per sostenere la causa islamista e ciò creerà una nuova fratellanza nel nome del terrore come già accaduto nell’Afghanistan ‘sovietico’;

l’Isis ha allargato la frattura interislamica.

Questo per restare entro i limiti del perimetro geopolitico della questione, aggiungendo soltanto che esiste anche l’angoscioso fatto delle migliaia di morti e dei milioni di profughi.

Nella sua analisi Blair faceva notare come nei confronti del Medio Oriente l’Occidente non abbia avuto una linea chiara e univoca:

Iraq: abbattimento del regime con invio si truppe sul suolo e tentativo di ricostruzione politico-istituzionale del paese (con prematuro ritiro della presenza di truppe americane e appoggio di un governo settario come quello di al-Maliki).

Libia: abbattimento del regime senza la presenza di eserciti stranieri nel paese e nessun tentativo di regime-change ( il risultato è stata l’instabilità politica interna e l’esportazione dell’instabilità oltre confine, vedi Mali).

Siria: nessuna azione da parte dell’Occidente, guerra civile permanente e nascita dell’Isis con tutte le conseguenze citate.


Non c’è da stare tranquilli.

Carta da The Economist, giugno 2014

giovedì 22 maggio 2014

ISLAM E DEMOCRAZIA

LIBIA, 19 MAGGIO 2014

Tripoli, 19 maggio 2014. Truppe armate nei pressi del Parlamento. Foto AP

La questione è di quelle che fanno tremare vene e polsi. La democrazia è un bene in assoluto, anche per comunità che nella loro storia non l’hanno mai conosciuta? La domanda è tornata ad imporsi dopo i recenti fatti di Libia ma essa si ripresenta regolarmente in riferimento al mondo islamico a partire dai fatti algerini del 1991.

In quell’anno infatti vennero indette, per la prima volta dall’indipendenza, libere elezioni. Fatto eccezionale in un paese arabo-islamico. L’Algeria aveva un passato recente di stato socialista, militare e laico e in quei giorni la rinascita islamista sembrava dovesse essere circoscritta molto più ad oriente che non lungo le coste del Mediterraneo. Focolai mascherati da resistenza anti sovietica si stavano consolidando in Afghanistan, di fatto ignorati, se non alimentati, dall’Occidente. Il pericolo dichiarato era l’Iran Khomeinista, contro il quale si confidava nell’alleato Saddam Hussein per alzare un firewall che impedisse un’eventuale esondazione islamista verso ovest. In Egitto la fratellanza musulmana era tenuta sotto le sabbie del deserto dai militari, quindi l’Islam integralista era del tutto ignorato. Destava semmai più preoccupazione l’Islam marxista, libico o palestinese che fosse. Quindi grande chance per la democrazia in Algeria ma la vittoria al primo turno delle elezioni nel dicembre del 1991 del Fronte Islamico di Salvezza coincise con la reazione dei militari e con l’inizio della guerra civile.

Da allora la democrazia non ha fatto alcun passo avanti nel mondo arabo-islamico mentre diventava questione all’ordine del giorno l’irresistibile ascesa dell’islamismo e della conseguente minaccia terroristica. Dopo l’11 settembre venne costruita la strategia mediatica dell’Asse del male formato dagli stati canaglia da affiancare agli attacchi all’Afghanistan prima e all’Iraq poi. Strategia che venne successivamente declinata verso il ‘nation building’, una sorta di esportazione della democrazia da parte dei buoni e giusti che non solo non è riuscita ancora a mettere salde radici nei paesi coinvolti ma ha accentuato la contrapposizione tra civiltà.
Si giunge così alla fine del 2010 e allo scoppio della Primavera araba, salutata come l’affermazione della libertà contro i regimi autoritari e come la rivoluzione dei giovani digitali contro le gerontocrazie militari. I risultati di quella ‘emancipazione popolare’ sono davanti agli occhi. Dove ci sono state elezioni, si sono affermati i partiti islamici: Partito Libertà e Giustizia (Fratelli Musulmani) in Egitto, Enneahad in Tunisia. Nello Yemen, dopo la caduta del presidente Saleh nel 2012,  non sono state ancora indette elezioni ma è sempre più forte il partito islamista AQAP.

Per la Libia il discorso è diverso e i fatti degli ultimi giorni sono emblematici. Decapitato il regime di Gheddafi grazie all’intervento armato esterno, il paese nordafricano ha assunto quasi lo status di protettorato nel quale dovevano essere garantiti gli interessi derivati dallo sfruttamento degli idrocarburi. Una democrazia fittizia, retta più che da un partito da un comitato d’affari, l’Alleanza di Forze Nazionali, con la fratellanza musulmana libica in forte crescita. Proprio per contrastare l’ascesa del Partito islamico il 19 maggio scorso si è svolto un film già visto. I militari sono intervenuti prima a Bengasi con un blitz armato contro gli islamisti poi a Tripoli dove il colonnello Fernana ha annunciato in tv la sospensione dei lavori parlamentari.

Per chiudere il cerchio, gli islamisti probabilmente vincerebbero anche in Siria una volta eliminato Assad mentre il caso di Gaza è sotto gli occhi di tutti e West Bank si mantiene relativamente moderata grazie al sostegno economico occidentale.

Per tornare alla domanda iniziale, il problema è che il concetto di stato laico è estraneo alle masse popolari arabo-islamiche anche se per anni è stato travisato dai militari al potere  in un contesto di bipolarismo USA-URSS. Oggi le popolazioni arabo-islamiche sono sempre più lontane da una cultura democratica di tipo occidentale, cosa che noi occidentali non vogliamo capire e che continuiamo ad auspicare persistendo ad interpretare tutto secondo un paradigma eurocentrico. Va da sé che in una condizione di possibilità di esprimere liberamente il proprio voto, in un qualsiasi paese arabo-islamico i portatori di istanze laiche e democratiche sono ineluttabilmente destinati a soccombere.

Islamisti libici. Foto Mohammad Hannon/AP



giovedì 13 marzo 2014

LIBANO

PRIMAVERA DI GUERRA?


 19 Febbraio 2014. Bomba presso centro culturale iraniano a Beirut. Reuters


La guerra civile in Siria sta trascinando nel caos anche il vicino Libano. Come altre volte nella storia recente, instabilità esterne provocano ripercussioni nel piccolo paese di monte e di mare che, nonostante tutto, trova sempre il modo per rilanciarsi. Questo grazie ad una tradizione mercantile e borghese che negli altri paesi arabi troppo spesso è stata sopraffatta da invadenti ideologie, laiche o religiose che fossero. 

All’interno del mondo arabo il Libano è infatti per molti aspetti un’eccezione. A volte considerata come il fiore all’occhiello, altre blasfemo esempio da condannare. E comunque i libanesi hanno un innegabile istinto per il business. Possiamo trovare uomini d’affari di Beirut o di Tripoli tra i finanziatori di imprese impossibili dall’America Latina all’Africa Subsahariana per citare luoghi diversi dai soliti financial hubs di Londra o Singapore. Tanto per fare qualche esempio, l’uomo più ricco del mondo, secondo Forbes, è il messicano di origine libanese Carlos Slim. Oppure i boss di Swatch, Chiquita, Nissan e Renault. Ma che paese è il Libano e perché dall’estate del 2013 sempre più attentati sconvolgono la costa dei cedri?

Intanto va chiarito che il Libano è un paese di lingua araba ma dal punto di vista etnico-religioso le cose sono un po’ più complicate tanto complicate che ci si chiede come possa esistere un’identità nazionale in una tale nazione-mosaico. Ci si chiede anche quanta differenza passi tra un druso siriano di Sweida e un druso libanese della Beqaa o, per contrasto, quanto simili siano uno sciita di Tiro e un maronita di Batroun. Ma questi sono interrogativi che solo un “esterno” può porsi.

Comunque l’anarchia siriana sta producendo un milione di profughi in libano, paese che non raggiunge i cinque milioni di abitanti tra i quali vivono ancora oggi centinaia di migliaia di palestinesi rifugiati dal post-1948.

Ed ecco che, dopo la guerra civile, l’occupazione siriana, gli interventi israeliani, gli attentati devastanti, proprio quando si sperava che i libanesi potessero tornare a godersi i caffè del lungomare e a riallacciare i loro contatti commerciali internazionali torna l’incubo del caos prezzolato. Si colpisce il quartiere sciita di Beirut, Hezbollah fa fuori personalità sunnite. Esplodono autobombe davanti all’ambasciata di Teheran, gli sciiti rispondono con gli šuhadā suicidi. E la frontiera tra Beirut e Damasco viene continuamente attraversata nei due sensi da profughi, qaedisti, consiglieri iraniani, falangisti assoldati dal Mossad. 

Perché la storica rivalità religiosa sta tornando a livelli di massimo allerta. Gli sciiti libanesi appoggiano il dittatore siriano Assad che appartiene alla setta sciita degli alawiti, mentre i ribelli siriani sono in prevalenza sunniti e ricevono aiuti dai sunniti libanesi. Dalla scorsa estate sono tornati gli attentati a Beirut, dietro ai quali, oltre alle divisioni interne, si stanno intrecciando fili che portano lontano, oltre confine: Iran, Siria, alcuni Stati del Golfo.


Da circa  un mese si è insediato un nuovo governo, a prevalenza sunnita ma con appoggio di cristiani e sciiti, il cui compito principale è quello di garantire la sicurezza nazionale, con un occhio oltre il confine est, verso Damasco.

Carta elaborata da Michael Mehrdad Izady, Columbia University


domenica 20 gennaio 2013

GUERRA IN MALI

SULL' INTERVENTO FRANCESE


Islamisti nel Nord del Mali, TheNewYorkTimes


La questione è di quelle che tendono a spaccare l’opinione pubblica: potenze straniere possono intervenire militarmente contro regimi di Paesi sovrani per scopi definiti umanitari? In anni recenti anche in Italia si è molto dibattuto sui casi della Serbia, della risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre, della Libia. Siamo quasi tutti d’accordo che giungere a soluzioni pacifiche sia l’opzione migliore in assoluto ma ciò non è sempre possibile. La risoluzione di certe emergenze è molto complessa e divisiva ma proprio perché si tratta di emergenze la comunità internazionale ha il compito di agire e se la diplomazia e la politica falliscono è necessario trovare altre soluzioni, anche se dolorose.

Due di queste situazioni si stanno svolgendo da molti mesi sullo scenario globale. Da due anni ormai la Siria sta autodistruggendosi senza che la comunità internazionale  riesca o voglia attivarsi per un’azione che ponga effettivamente fine al quotidiano massacro. 
L’altro caso al centro in questi giorni dei media mondiale è il Mali. Da quasi un anno il Paese sahariano vive una guerra civile che ha portato alla divisione dell’unità nazionale con la proclamazione di uno stato autonomo, l’Azawad, nella parte settentrionale. Islamisti associati ad al-Qaeda, bande di predoni specializzati in narcotraffico e sequestri di occidentali, mercenari e trafficanti di armi hanno trovato occasione e  appoggio nelle rivendicazioni del popolo Touareg che da decenni combatte le autorità di Bamako.
La destabilizzazione seguita alle Primavere arabe e soprattutto alla caduta del regime libico ha reso esplosivo non solo il Mali ma tutta l’Africa Nord Occidentale. Ignorato per molti mesi, il pericolo rappresentato dalla costituzione di una roccaforte jihadista tra Sahara e Sahel, ha iniziato a preoccupare, oltre che alcuni paesi africani, anche la Francia, orfana della grandeur coloniale e inquieta a causa delle conseguenze che tale focolaio possa rappresentare per l’assetto geopolitico regionale, in primis per Algeria e per l’ancora instabile Libia post-Gheddafi. E lasciando da parte ciò che sta accadendo nella Nigeria settentrionale… Di fronte alla totale assenza di dibattito internazionale sulla questione, il governo del socialista – pacifista – Hollande ha deciso di intervenire. Questo il quadro.

Alcune considerazioni.

A differenza che in Siria, la Francia non ha coinvolto altri paesi o istituzioni internazionali ed in ‘solitudine’, come ha commentato la stampa francese, ha inviato i militari. L’impressione suscitata è che la Francia consideri ancora l’Africa Nord Occidentale come questione nazionale o addirittura neocoloniale, in questo caso va rimarcata la continuità del governo Hollande con il precedente governo Sarkozy.

L’impegno al momento sembra sia stato programmato come circoscritto geograficamente, di breve durata e con un limitato numero di forze impiegate ma il sequestro dell’impianto petrolifero in Algeria ha immediatamente allargato il perimetro di guerra.

Il radicamento di un potere islamista qaedista su un territorio molto vasto con istituzione di autorità politiche e non più soltanto la presenza di cellule terroristiche più o meno clandestine e aterritoriali rappresenta una minaccia per tutto il mondo, e ciò non può ridursi a un fare i conti, per la Francia, con il proprio ruolo e con il proprio passato storico. Il problema deve essere condiviso.


Ha fatto bene il governo italiano ad appoggiare la Francia e ha fatto bene il futuro primo ministro Bersani a schierarsi con il compagno Hollande. Ancora una volta è però venuta a mancare una comunione di vedute con l’ala che fa riferimento a Vendola che subito ha condannato l’intervento francese, facendo riemergere le contraddizioni, anche in politica estera, di una coalizione che si propone agli italiani come forza di governo.

 

Truppe francesi lasciano Bamako, CNN
Ambasciata francese a Londra, CNN

giovedì 28 giugno 2012

RIMBAUD E IL JIHAD NEL DESERTO

MALI / AZAWAD - 2012

                            fonte: twitpic


 
Le frontiere azzurre tracciate sulle carte dall’uomo bianco hanno ripartito il popolo touareg tra stati diversi. Ma nel deserto, si sa, le frontiere sono mobili e nell’area compresa tra i massicci dell’Ayăr, del Tassili n'Ajjer e l'Adrar des Ifoghas pur divisa tra Algeria, Mali, Niger fino ad un breve lembo di Libia, i vari popoli si sentono parte di un’unica nazione, l’Azawad.
Il 22 marzo scorso il presidente del Mali, Amadou Toumani Touré è stato deposto a seguito di un colpo di stato ad opera di forze militari che hanno dichiarato la costituzione di un Comitato Nazionale per la Restaurazione della Democrazia e dello Stato (CNRDR).
Il 6 aprile, dopo alcuni giorni di scontri, viene dichiarata, da parte del MNLA(Movimento Nazionale Liberazione Azawad) la nascita dello Stato Indipendente dell’Azawad, corrispondente alla parte settentrionale del Mali.
Questi i crudi fatti e questi alcuni riferimenti per le fonti: Al Jazeera, The Guardian, BBC, The Economist, i documentatissimi articoli di Serge Daniel, i comunicati del MNLA.
Qualche considerazione non sistematica…
La situazione in Mali si è destabilizzata a seguito del cambio di regime in Libia. Molti tuareg costituivano parte consistente delle forze mercenarie assoldate da Gheddafi. Con la fine del colonnello centinaia di questi uomini blu carichi di armi sono fuoriusciti dalla Libia e sono tornati nei loro luoghi di origine, in particolare in Mali, transitando per l’Algeria.

In Algeria hanno sempre trovato rifugio esuli maliani che tra le gole dell’Haggar hanno intrecciato rapporti con gruppi islamisti locali, soprattutto con il principale di essi, quell’ Aqmi dello sceicco Abdelmalek Droukdel specializzato in sequestri di occidentali.
Resistenza Azawad interna, bande di mercenari rientrati dalla Libia, gruppi islamisti facenti riferimento al leader carismatico Iyad Ag Ghaly, schegge incontrollate dell’esercito maliano, tutti fattori che hanno determinato il caos nel Paese  sahariano che ha portato al colpo di stato, alla secessione del Nord, alla guerra civile.
L’iniziale alleanza tra i ‘moderati’ dell’MNLA e i fondamentalisti del gruppo Ansar al-Din di Ag Ghaly ha retto poche settimane. Ad oggi, infatti, i due principali punti di riferimento dell’Azawad hanno rotto l’accordo. La causa sembra essere stata la questione della sharia, la legge islamica che Ag Ghaly vuole imporre in Azawad e che non trova d’accordo i più laici touareg dell’MNLA.
… e qualche divagazione.
Il nome del presidente deposto, Amadou Toumani Touré è, per me, significativo. Amadou, come il cantante e musicista cieco che fa coppia con Mariam. Toumani, come l’amatissimo maestro griot Diabaté. Touré, come il rimpianto bluesman del deserto Ali Farka.
Il Mali si ritrova spaccato in due, che poi è la storica divisione etnico-culturale del Paese. Musicalmente, l’anima touareg settentrionale è incarnata dai Tinariwen. Il leader del gruppo, Ibrahim Ag Alhabib, ha condiviso le esperienze di molti touareg, ed ha vissuto, da esiliato, a cavallo di quelle frontiere al tempo stesso reali ed inconsistenti, di cui si parlava all’inizio.
Il sud è il regno della kora e dei suoi maestri, che si trasmettono l’arte dello strumento a corde da generazioni, come i Diabaté e i Sissoko.

Le frontiere azzurre sono un riferimento a Les Douaniers di Rimbaud


Soldats, marins, débris d'Empire, retraités,
Sont nuls, très nuls, devant les Soldats des Traités
Qui tailladent l'azur frontière à grands coups d'hache.



Abdelmalek Droukdel, Aqmi



 Iyad Ag Ghaly, Ansar al-Din



Mahmoud Ag Aghaly, portavoce MNLA
 

 
Amadou Toumani Touré





martedì 26 giugno 2012

LA PRIMAVERA ARABA

CONSIDERAZIONI A DISTANZA



 
16 febbraio 2011, la primavera giunge a Benghazi in anticipo e inizia la guerra delle news. In prima linea c’è l’emittente qatarina Al Jazeera che si fa portavoce dei ribelli cirenaici e manda in onda immagini di decine di cadaveri e fosse comuni opera delle forze governative, immagini che si riveleranno clamorosi falsi. Ma il mondo arabo da molto tempo stava aspettando il momento buono per un regime change nella troppo secolarizzata Libia di Gheddafi e l’Occidente anglo-francese ha subito colto l’occasione per assegnarsi un ruolo da protagonista nella gestione neocoloniale delle risorse petrolifere del Paese. Tutto sommato l’eliminazione di un tiranno come Gheddafi può far chiudere un occhio sulle sporche circostanze collaterali, è così che va il mondo. La guerra a Gheddafi era un’opzione realizzabile per il contesto geopolitico del Paese, quindi, nel giro di pochi mesi e con l’avallo dell’ONU, è stato applicato lo schema d’intervento e la Libia sta conoscendo una nuova fase storica, si spera migliore della precedente.

Situazione completamente diversa in Siria. Sotto certi aspetti il regime degli al-Assad è analogo a quello di Saddam Hussein e dello stesso Gheddafi. Poteri secolari ‘rivoluzionari’ legati al blocco sovietico durante la Guerrra Fredda, i tre regimi arabi hanno rappresentato la continuazione del nasserismo anti islamista. Il quale, se fino all’89 aveva una salda giustificazione internazionale , dopo la fine del bipolarismo e con l’ascesa del fanatismo religioso capitanato da Arabia Saudita e Iran, ha visto perdere sempre più sostegni e giustificazioni ad esistere. Il regime baathista di Saddam è stato il primo ad essere colpito, già dopo la prima Guerra del Golfo, in quell’inizio degli anni Novanta che sono stati il periodo della rinascita islamica. È in quegli anni che nel mondo islamico torna ad essere venerata la figura di Sayyd Qutb, fautore  di un ritorno al Corano,  giustiziato da Nasser nel 1966 e ispiratore dei nuovi fondamentalisti sunniti. È negli anni Novanta, indebolito il vicino-rivale Saddam Hussein, che gli Ayatollah sciiti iniziano a tessere la rete di sostegno ad Hezbollah in Libano. È negli anni Novanta che sauditi e pakistani, i primi con i petrodollari, i secondi con il supporto logistico, creano il movimento Talebano che conquisterà il potere nell’Afghanistan post-sovietico e vero campo di addestramento dell’internazionale jihadista.

La primavera araba, se da un lato ha fatto tremare i polsi tutti i regimi del Medio Oriente, sia islamisti che laici, vista oggi, ad una certa distanza, gli effetti  più profondi li sta producendo proprio nei paesi dominati da dittature secolariste, con la conquista del potere da parte dei movimenti di ispirazione islamica attraverso mezzi che possono essere definiti democratici (Libia, Tunisia, e soprattutto il recentissimo caso dell’Egitto). Di fatto Assad è rimasto isolato anche se posizione geografica, scenario geopolitico e sistema di alleanze internazionali ha finora impedito per la Siria una soluzione tipo quella adottata per la Libia. Finora.

martedì 29 marzo 2011

PRIMAVERA ARABA

GEOPOLITICA DELLE RIVOLUZIONI




Cerchiamo di fare il punto, il più sinteticamente possibile, su quanto sta accedendo in quello che George Bush definì the Broader Middle East.
Dopo l’autocombustione del giovane ambulante tunisino Bouazizi il 17 dicembre del 2010, il movimento di protesta ha investito molti paesi arabo-islamici. Generalizzando si può parlare di una richiesta di giustizia e libertà da parte di masse popolari prevalentemente giovani e alfabetizzate nei confronti di autocrazie corrotte e saldamente al potere da decenni e in gran parte restie a qualsiasi tipo di apertura al cambiamento.
Ma la situazione va declinata caso per caso in quanto le implicazioni interne e le relative relazioni di ogni singolo stato nel più ampio contesto geopolitico impediscono di affrontare l’argomento come un movimento complessivo ed omogeneo.


Tunisia


La rivolta è partita da uno stato laico, legato all’occidente (tanto che la caduta di Ben Ali ha fatto cadere il ministro degli esteri francese), per motivazioni prevalentemente economiche. L’aumento dei prezzi delle commodities associato ad un’alta disoccupazione e ad un buon livello di istruzione dei giovani con scarse prospettive di lavoro hanno scatenato la rivoluzione che rapidamente e senza causare gravi danni ha portato al primo regime change dell’area.


Egitto


Situazione più complicata per le dimensioni del paese, per la sua importanza storico-culturale, per la posizione geografica, per la rete di relazioni interislamiche di cui esso è perno ma soprattutto per essere un soggetto fondamentale del dialogo arabo-israeliano e arabo-statunitense. Da considerare anche il fatto che in Egitto la principale forza organizzata con funzione alternativa al potere burocratico-militare al comando è quella del partito islamico dei Fratelli Musulmani, con tutte le preoccupazioni che ciò comporta. Rivoluzione di piazza sostanzialmente pacifica e controllata dall’onnipotente esercito, quella egiziana sta portando il più popoloso dei paesi arabi verso una costituzione ‘popolare’ e verso elezioni che saranno senz’altro le più libere della storia dell’Egitto.


Libia


Paese con un livello di benessere superiore rispetto a quelli confinanti, qui la protesta del 17 febbraio è nata come l’ennesimo atto di sfida della Cirenaica contro il potere della Tripolitania impersonato da Gheddafi. Secolari rivalità tribali mai sopite nonostante il tentativo coloniale italiano di dar vita ad uno stato unitario si sono sempre manifestate sotto il regime militare e il Colonnello le ha sempre soffocate con la forza. I ricchi gruppi di esuli libici in Svizzera e a Londra, assieme ai tradizionali nemici sunniti della penisola araba hanno fomentato la rivolta bengasina. Informazione sapientemente pilotata, ingenti risorse di idrocarburi da gestire, possibilità di eliminare un pluridecennale ‘nemico dell’occidente’ senza troppe conseguenze geopolitiche(unico paese a rimetterci sarà l’Italia, ma questo potrebbe essere un altro punto a favore dell’intervento), propaganda umanitarista con i buoni che soccorrono gli insorti. Questo ed altro hanno permesso l’intervento (comunque tardivo, ma bisognava aspettare l’assenso degli arabi) sacrosanto contro Gheddafi. Un tiranno in meno ed evitare la punizione contro gli insorti di Cirenaica sono atou che fanno pendere la bilancia a favore dell’intervento. Restano però tutti i dubbi, le incertezze e le preoccupazioni che una guerra a due passi da casa nostra e così malamente condotta ovviamente suscita.


Yemen


Altro regime change in atto. Il presidente Saleh, dopo oltre trent’anni di potere assoluto ha annunciato che il figlio non sarà più il suo successore e che egli stesso è pronto a ritirarsi e a indire elezioni come chiesto dalla folla in rivolta. Qui la situazione è delicata. Il paese è tradizionalmente diviso tra Nord e Sud, non solo ma il pericolo islamista è reale. Nuclei qaedisti sono sempre stati presenti nelle isolate valli del nord, al confine con l’Arabia Saudita e comunità sciite vicine all’Iran costituiscono un ulteriore motivo di preoccupazione, tanto da far inserire lo Yemen, dopo l’11 settembre, nella lista degli stati canaglia stilata dall’amministrazione Bush. Guerra civile, islamismo, terrorismo nella penisola araba all’imbocco del Mar Rosso non sono certo noccioline, con l’aggravante che sull’opposta costa africana c’è la Somalia con la sua anarchia fondamentalista.


Siria e Giordania


Qui la situazione è complicata dal fatto che i paesi sono strettamente legati ai fragilissimi equilibri geopolitici dell’area, che ha come core problem l’irrisolto conflitto israelo-palestinese e i suoi addentellati a Gaza e soprattutto nel Libano. Israele è terrorizzata da un cambiamento delle leadership siriana e giordana. In Giordania la maggioranza della popolazione è di origine palestinese e grazie alla diplomazia e agli aiuti economici Re Abdallah ha garantito una politica di collaborazione con Israele alleggerendo la pressione sul confine est. Anche la famiglia Assad di Siria, nonostante la propaganda anti israeliana, non ha mai impensierito Israele. Il conteso confine del Golan è tranquillo dal 1967. Dopo le proteste e i morti la Giordania ha un nuovo governo. Più complessa la situazione in Siria dove la reazione del potere è stata molto dura e al momento Assad sembra restio a fare concessioni, nonostante le pressioni turche sul presidente siriano.


Bahrain


Nonostante le piccole dimensioni dello stato insulare, questo è forse il nodo critico dell’intero scenario mediorientale. In stato d’assedio da febbraio, il re sunnita al potere sta usando il pugno duro con i manifestanti. La popolazione del regno è a maggioranza sciita e questo mette in apprensione l’Arabia Saudita. Dietro al piccolo regno del Bahrain infatti si muovono i due rivali storici della regione, sauditi e iraniani, ossia arabi contro persiani, sunniti contro sciiti. L’Iran ha sempre avanzato rivendicazioni sul regno, che è anche sede della più importante base militare USA nel Golfo e reparti militari sauditi sono entrati nell’isola per proteggere il re.


….continua

domenica 27 marzo 2011

ABAU EL KACEM CHEBBI

GUERRA LOTTA E RIVOLUZIONE




Mohamed Bouazizi, 17 dicembre 2010


Il Presidente Ben Alì visita Bouazizi


Il 17 dicembre, Mohamed Bouazizi, ventiseienne venditore ambulante di frutta e verdura, si dà fuoco davanti al palazzo del governatore della cittadina tunisina di Sidi Bouzid, per protestare contro la confisca delle sue merci da parte della polizia locale in quanto privo di autorizzazione. Incendio che provocherà la morte del giovane ma che innescherà la più grande rivoluzione all’interno del mondo arabo-islamico, le cui fiammate stanno rischiarando i cieli che vanno dalle Sirti al Mar Rosso al Golfo Persico.


Per celebrare la rivoluzione dei gelsomini diamo voce ad uno sconosciuto, per noi distratti ‘occidentali’, poeta tunisino che in patria è considerato eroe nazionale, bandiera della lotta per l’indipendenza dalla Francia, Abau El Kacem Chebbi, 1909-1934. Nel titolo un’eco del verso Hypocrite lecteur – mon samblable – mon frère! di Baudelaire ripreso proprio negli stessi anni anche da Eliot nel The Waste Land.




Mon semblable


Sei nato per essere libero come soffio di zefiro
libero come luce celeste in pieno giorno
per cantare come uccello ovunque tu vada
per declamare tutto quello che il Cielo ti ha ispirato
per abbandonarti tra le rose del mattino
per gioire della luce ovunque essa sia
per camminare a tuo piacere in mezzo ai prati
per cogliere fiori sui pendii fioriti
Dio ti ha così concepito caro figlio della vita
e la vita ti ha spinto nell’universo:
perché accetti le avvilenti catene?
Perché pieghi la schiena
di fronte ai tiranni che opprimono?
Perché soffocare la potenza del tuo grido
quando l’eco lo potrebbe rafforzare?
Perché chiudi gli occhi di fronte all’alba
quando il suo chiarore è così dolce?
Perché ti accontenti di vivere nell’oscurità?
dov’è il tuo canto, i tuoi entusiasmi?
non temerai la poesia del cielo?
non ti spaventerà la luce del pieno giorno?
Dai, alzati e incamminati verso il domani
la vita non si ferma ad aspettare chi s’attarda
non temere l’ignoto oltre la collina
non c’è altro che il giorno che avanza
e la fresca primavera col suo manto fiorito
nient’altro che profumo d’aprile
specchi d’acqua abbaglianti
e festosi colombi di prateria
nella gioia dei loro versi
al meriggiare sì dolce e bello
Al meriggiare, specchio di Cielo.


Traduzione dal francese di Eustaki

martedì 8 marzo 2011

8 MARZO

DONNE, IN CERCA DI GUAI


 

Oggi è il centesimo anniversario della festa della donna e, fatto veramente clamoroso, per la prima volta si assiste ad una apertura in favore dei diritti delle donne proveniente dal più oscurantista dei regimi islamici, l’Arabia Saudita. Si vede che il profumo dei gelsomini si fa sentire anche a Riyadh, in questo 2011 che passerà alla storia come l’89 del mondo arabo.
L’importante quotidiano Arab News apre stamani con una serie di articoli dedicati alle donne saudite. Un editoriale, commenti, reportage e, soprattutto, il giornale dà voce direttamente a giovani donne che possono liberamente parlare della loro condizione quotidiana, di ciò che possono e non possono fare, di ciò che invece vorrebbero fare. E bisogna leggere due volte l’elenco dei loro desideri per assicurarsi di aver capito bene. Le giovani saudite vorrebbero infatti poter guidare l’auto, andare allo stadio per tifare la propria squadra di calcio, scegliere autonomamente il corso universitario da frequentare.
Molte donne parlano della loro esperienza e indirettamente mettono in discussione il rigido sistema saudita e per ogni dichiarazione il giornale riporta nome, cognome, età, senza timore, evitando di ricorrere all’anonimato.
Sembra proprio che questo inizio d’anno stia portando a svolte epocali e questo segnale dall’Arabia, all’apparenza così minimo, scontato e per noi incredibile, rappresenta invece una tappa molto importante che fa ben sperare.

L’Arabia Saudita è il cuore geopolitico del mondo arabo. Tra i grandi paesi islamici è quello con il pil pro capite più elevato, dove le cittadine locali dispongono di un alto livello di benessere e dove, scortate dall’autista, possono fare shopping nelle boutiques dei centri commerciali. Sono appassionate di grandi firme che indossano solo tra le mura domestiche durante incontri esclusivamente tra donne.
L’Arabia è il più grande produttore di idrocarburi del mondo con una ‘spare capacity’ otto volte superiore a quella di ogni altro paese esportatore di petrolio; è il paese della più rigida ortodossia sunnita, sede delle città sante del mondo islamico; è il paese retto dalla dinastia Saud alla quale gli USA e l’Occidente stendono tappeti rossi in occasione di ogni incontro ufficiale. Insomma, l’aver dato voce, da parte di un quotidiano saudita importante, al punto di vista delle donne e averlo anche appoggiato è la più bella celebrazione di questo otto marzo.



fonte della cartina: The Economist

giovedì 3 febbraio 2011

LA RIVOLUZIONE SECONDO ŽIŽEK

SLAVOJ ŽIŽEK
THE GUARDIAN - 1 FEBBRAIO 2011


Le tesi proposte da Slavoj Žižek in un intervento sul Guardian sono, come è tipico del filosofo sloveno, un punto di vista eccentrico per cercare di riflettere e, se possibile, di capire qualcosa su quanto sta accadendo nel mondo islamico, in particolare arabo.



Parlando della paura dei liberal dei Paesi occidentali e dei loro leader politici che la democrazia nel mondo islamico comporti una automatica conquista del potere da parte degli islamisti, Žižek afferma che “the rise of radical Islamism was always the other side of the disappearance of the secular left in Muslim countries”.


Per supportare questa tesi, e cioè che l’indebolimento della sinistra laica ha favorito l’ascesa dell’islamismo, Žižek porta l’esempio dell’Afghanistan. Egli dice che quel Paese aveva vissuto un’esperienza comunista autonoma che lo aveva salvaguardato dal fondamentalismo e che la caduta di quel regime spianò la strada ai Talebani. Žižek legge gli odierni eventi tunisini ed egiziani secondo questa chiave di lettura. Ma va oltre. Egli asserisce che se le autocrazie di quei Paesi resteranno al potere, magari con qualche “liberal cosmetic surgery”, per citare la sua espressione, ciò porterà ad un rafforzamento della componente integralista. Ed ecco il consiglio del filosofo:
“in order for the key liberal legacy to survive, liberals need the fraternal help of the radical left”.
I liberali devono unirsi alle forze di sinistra.


Proprio quello che invece, secondo Žižek, l’Occidente non sembra voler comprendere. Quando gli appelli che provengono dai leader delle democrazie occidentali parlano di “stable change” o di “peaceful transition”, ciò vuol dire, nel caso dell’Egitto, un compromesso con le attuali forze al potere attraverso un ‘rimpasto’ di facciata e questo per Žižek sarebbe “obscenity”. Dunque, la sola alternativa è quella di liberare il campo dai consolidati gruppi di potere e segnare una pagina di vera svolta segnata dal diritto di autodeterminazione dei popoli.


L’intervento si chiude con un duro giudizio sui sedicenti paladini della democrazia, veri campioni di ipocrisia: “they publicly supported democracy, and now, when the people revolt against the tyrants on behalf of secular freedom and justice, not on behalf of religion, they are all deeply concerned”. E da buon provocatore comunista, come si definisce, cita Mao: Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente.