cinema

martedì 30 giugno 2015

BATTISTA GUARINI

IL PASTOR FIDO - 1587

Jacob Van Loo, Amarilli incorona Mirtillo, 1650

La favola pastorale ‘tragicomica’ è un genere letterario, dalla vita breve ma di successo, che si afferma nel secondo Cinquecento. In quegli anni, proprio la tragicommedia contribuisce ad alimentare un confronto che vede schierarsi i letterati pro o contro quel nuovo genere, nel più ampio contesto del dibattito sulle teorie poetiche di Aristotele. 

Battista Guarini, diplomatico attivo in varie città dell’Italia settentrionale, partecipando al dibattito, si schiera contro il canone aristotelico, in aperta polemica con il Castelvetro. Dopo gli scritti dottrinali, Guarini mette in pratica le sue teorie letterarie con Il Pastor fido, tragicommedia in cinque atti, pubblicata a Venezia nel 1590. 

Opera interessante, scritta in una lingua ‘italiana’ piana e scorrevole, in cui si alternano endecasillabi e settenari. Ricca di artifici retorici (soprattutto figure etimologiche, polisemie, ripetizioni e chiasmi) che però non ostacolano la lettura, la quale procede secondo una musicalità che anticipa il melodramma.

Ma l’interesse del Pasor fido, più che linguistico o storico-letterario, si trova nell’arditezza di certi contenuti. Innanzi tutto, a detta dello stesso Guarini, l’opera deve andare incontro alle aspettative del pubblico. Il Pastor fido  ha come scopo principale l’intrattenimento e, per farlo, deve avvincere, sorprendere e non deludere.

Da una parte si offre al pubblico ciò che esso si aspetta, dall’altro l’autore deve introdurre delle varianti capaci di sorprenderlo. In questo calcolato gioco con il lettore/spettatore, rivestono una efficace utilità le allusioni erotiche, in certi passaggi particolarmente spregiudicate.

Mi ha colpito, per esempio, l’esposizione di una teoria dongiovannesca dell’amore fatta da uno dei caratteri principali della favola, Corisca, personaggio già settecentesco, quando afferma, atto I, scena terza:

La gloria e lo splendor di bella donna
l’aver molti amanti.
Rifiutare un amante […]
è peccato e sciocchezza;

Far degli amanti quel che delle vesti:
molti averne, un goderne e cangiar spesso.
Che ‘l lungo conversar genera noia,
e la noia disprezzo e odio alfine.

Sempre a proposito degli amanti, la libertina Corisca ribadisce:

Amo d’averne
gran copia, e li trattengo, e honne sempre
uno per mano, un per occhio, ma di tutti
il migliore e il più comodo nel seno;
e quanto posso più, nel cor nessuno.

Capolavoro di ambigua sensualità la prima scena del secondo atto. I due pastori, uno giovane, il pastor fido  Mirtillo, l’altro anziano, Ergasto, parlano di come Amore abbia colpito Mirtillo, il quale racconta l’esperienza del suo primo bacio. Un gruppo di giovani ninfe, tra le quali l’amata Amarilli, si dilettano in uno strano gioco amoroso. Amarilli viene così introdotta:

Tra queste ella si stava
sì come suol tra le violette umili
nobilissima rosa;
e poi che in quella guisa
state furono alquanto,
levossi una donzella…

Forse il Leopardi apprezzò questo passaggio.

Dunque le donzellette, nella fresca radura, decidono di fare una gara: “si contenda tra noi di baci”. E le giovani cominciano a scambiarsi baci. L’imberbe Mirtillo, nascosto ed eccitato, pensa di introdursi nel gioco, “cambiato in ninfa”. Accolto come vergine, partecipa al gioco erotico. Segue una sensuale descrizione della bocca di Amarilli, dei baci e della proclamazione della vincitrice, tra sospiri, rossori e sguardi in fiamme.

Altro episodio ‘tragicomico’ molto divertente è un tentativo di stupro da parte di un satiro sdentato nei confronti di Corisca, la quale riesce a liberarsi dalla ferina presa lasciandogli tra le mani la parrucca.

Alla fine, la favola pastorale celebrerà l’amore fedele, in linea con i dettami della Controriforma, ma per tutti i cinque atti la celebrazione voluttuosa dell’amore non si è certo mostrata aderente alla morale tridentina.

 
Antoon Van Dyke, Amarilli e Mirtillo, 1631


giovedì 25 giugno 2015

DANIEL PATRICK QUINN

LAVORI RECENTI 2014 - 2015

One More Grain: Quinn & Blick

Dietro  alle composizioni musicali contemporanee è sempre più frequente scorgere mappe che possono riprodurre luoghi situati ad angoli opposti del mondo. Con la world music questo è diventato comune. Gli incontri tra artisti di paesi diversi e le contaminazioni tra i vari generi costituiscono il tratto precipuo della contemporaneità musicale. Per Daniel Patrick Quinn questo discorso può valere in maniera esemplare, ma solo se ci si ferma alla superficie fenomenica. In realtà, il suo profilo di compositore ‘globale’ è molto più complesso.

Musicista totale e non propenso al compromesso, il trentacinquenne Daniel Patrick ha realizzato, come solista, una manciata di lavori tra il 2003 e il 2007, oltre a qualche collaborazione con altri musicisti. Tutt’altro che prolifico, quindi. Tanto che, deluso dal music system contemporaneo, decide di cambiare vita e trasferirsi a Giava. In Indonesia vive insegnando inglese e scrivendo di vulcani. Sono anni di immersione nella cultura locale, in cui la musica ha un ruolo decisivo. E qui sta la differenza tra il fascino e la facilità della citazione esotica e il farsi invece assorbire totalmente da un patrimonio di conoscenze lontano dal proprio. Scelta esistenziale, quindi, più che estetica.

Rientrato nel Regno Unito e stabilitosi nelle Ebridi, Quinn innesta il suo vissuto indonesiano alla tradizione folklorica delle isole scozzesi. A questo connubio si aggiunge la propria formazione basata su un eclettismo che va dal pop-rock all’ambient, passando per il minimalismo. Il frutto di queste sollecitazioni si vede sette anni dopo l’ultimo lavoro solista, ed è il sorprendente Acting The Rubber Pig Redux del 2014.  Segno di un rinnovato entusiasmo, dopo meno di un anno Quinn fa uscire, con un vecchio sodale come il trombettista Andrew Blick, un nuovo album a nome One More Grain.


 Ed è proprio il caso di parlare di entusiasmo. La voglia e il gusto di comporre e di suonare si palesa in ognuna delle nove tracce di Grain Fever ed è una gioia l’ascolto di questa musica ispirata.

mercoledì 24 giugno 2015

ET IN ARCADIA EGO

GUERCINO / NICOLAS POUSSIN

Guercino, I pastori d'Arcadia Barberini

Va attribuita al Guercino la paternità del motto Et In Arcadia Ego, iscritto sulla base di un monumento funebre rivolto allo sguardo dell’osservatore nella tela I pastori d’Arcadia, dipinta tra il 1618 e il 1622. Quadro che colpì molto Nicolas Poussin, tanto che qualche anno dopo si cimentò anch’egli nello stesso soggetto e riportò l’identica iscrizione. Nel 1638 il pittore francese dipinse un’altra versione dei Pastori d’Arcadia, con la solita scritta. Da allora la sentenza latina e i tre quadri sono diventati oggetto di un vero e proprio culto esegetico, nel quale si sono sbizzarriti interpreti che hanno dato origine a percorsi di lettura che annodano tutti i luoghi comuni dell’iconografia esoterica. Evidentemente il semplice memento mori associato ad uno dei topoi per eccellenza della cultura secentesca, quello dell’ambientazione arcadico-pastorale, era troppo semplice per giustificare le tre tele che, invece, nasconderebbero verità inenarrabili. O meglio, narrabili solo per gli iniziati capaci di intendere. Fatto sta che a seguito dell’interpretazione dei Pastori d’Arcadia, gruppi di illuminati hanno cominciato a scavare nelle campagne di Rennes-le-chateau alla ricerca del corpo di Gesù Cristo…

Poussin, I pastori d'Arcadia Chatsworth House

Poussin, I pastori d'Arcadia Louvre




venerdì 19 giugno 2015

EUGENIO MONTALE

OSSI DI SEPPIA - 1927





Quante volte avrò letto gli Ossi di seppia? Come Dante e Leopardi, Montale è il poeta della vita, a cui si torna ripetutamente. Ma a differenza di Dante e Leopardi, che non deludono mai, ad un certo punto Montale ha iniziato a perdere lo smalto. E se nell’adolescenza la scoperta degli Ossi aveva i segni della folgorazione e nella gioventù si consolidava quale opera assoluta, con l’età matura l’indiscutibilità del suo valore veniva sempre più messa in discussione.

Certo Montale resta fondamentale nella storia della poesia italiana tra le due guerre, ma come ‘opera complessiva’ gli Ossi sono andati progressivamente ridimensionandosi, soprattutto se presi nel contesto della poesia universale.

Ho appena riletto gli Ossi. In limine ha una chiusa notevole: “ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine…” ma il resto si colloca in un solco post pascoliano con una seconda strofa micidiale (frullo, volo, eterno grembo, crogiuolo). Ne I limoni, invece, dopo aver creato una bella oggettivazione paesaggistica, l’incanto si inceppa in un ridondante metaforismo (vv. 26-29), per chiudersi con un raccapricciante “le trombe d’oro della solarità”. Ancora più patetico il finale di Corno inglese. Di Esterina resta l’immagine “il lacciòlo – per fortuna non lacciuolo – d’erba del fanciullo”. Anche se a ripensarci la doppia specificazione fa molto poeta alle prime armi. Minstrels meglio lasciar perdere. Si salva l’esercizio retorico dell’Epigramma per Camillo Sbarbaro. Si può fare a meno degli altri Movimenti.

Eccoci alla sezione degli Ossi di seppia veri e propri e qui siamo di fronte ad un poeta che commette pochi passi falsi. Questi sono, per la precisione, Ciò che di me sapete, Tentava la vostra mano la tastiera, Debole sistro al vento. Tra gli altri diciannove componimenti, tutti notevoli, spicca una scaglia poetica bellissima, Valmorbia. Mediterraneo è, al contrario, tutto da scartare.

La sezione Meriggi e ombre si apre con il narrativo Fine dell’infanzia seguito dall’ormai cliché di Agave sullo scoglio. Un episodio minore, Vasca, immette a tre liriche decisamente didascaliche. Puri esercizi di stile vuoti e consunti. La seconda parte di Meriggi e rappresentata da Arsenio, in giustificata solitaria evidenza. La poesia è importante e pienamente riuscita. Della terza parte vanno citate Casa sul mare e Delta, mentre il colloquio con la tristezza di Incontro è illeggibile. Poco significativa anche la conclusiva Riviere.