cinema

sabato 25 giugno 2011

JAMES CRUMLEY

L'ULTIMO VERO BACIO
JAMES CRUMLEY - 1978

Grandissimo James, morto tre anni fa a 69 anni, bicchiere e sigaretta in mano
“Io ero ancora ricoperto di merda di porco e avevo voglia di ammazzare qualcuno, non importava chi. Se non vi siete mai sentiti bruciare da questo fuoco, non potete aver idea di cosa si tratti: è come un interminabile orgasmo, un momento di perfezione assoluta”.

   C.W. Sughrue, The right madness



Nel 1978 esce The last good kiss. È una bomba che deflagra in mezzo alla palude dell’ hardboiled americano. Joe Landsdale, narrativamente parlando, era ancora in fasce, e sua maestà James Ellroy non era ancora James Ellroy e, senza Crumley, non lo sarebbe nemmeno diventato.

In quell’anno entra in scena l’investigatore privato C.W. Sughrue e le sue gesta sembrano anticipare quelle  di molti protagonisti di cult movie a venire.

Reduce dal Vietnam, anarconichilista, C.W. si caratterizza innanzi tutto per  la lingua velenosissima che non riesce a tenere ferma e  nelle situazioni più problematiche non risparmia battute cariche di cinica ironia che fanno impallidire quelle di  Philip Marlowe.  E Chandler è infatti l’autore che Crumley va a recuperare, attuando una vera e propria ridefinizione del canone crime story a diversi lustri da Farewell, my lovely e da The long goodbey.  Nel frattempo ci sono state la beat e la junk generation, gli hippies e il Vietnam che come arenaria sottile si sedimentano nel West percorso in lungo e largo da Sughrue.

Tre sono i punti fermi de L’ultimo vero bacio e degli altri capitoli della saga che incorona il detective eroe irresistibile e sconsolato : la strada, l’alcol, il sesso. A bordo del suo pickup C.W. percorre migliaia di chilometri tra Montana, Idaho, Nevada, Colorado, California ed ogni bar è buono per una sosta. I personaggi di Crumley bevono, bevono continuamente. E poi ci sono le figure femminili e questo romanzo ne mette in scena almeno sette, prima tra tutte Betty Sue, una Lolita che ha il potere di stregare ogni uomo che incroci, solo per un attimo, il suo sguardo. Attorno al suo fascino innato e istintivo gira tutto il carosello di soldi, proiettili, amore che tiene insieme la storia. Ma ci sono anche i due caratteri maschili, il detective e lo scrittore e, se non bastasse, c’è pure un cane alcolizzato a formare il terzetto da bar sempre pronto a scolarsi litri di birra, vodka, whisky… Tutti quanti questi personaggi di primo e secondo livello, come pure i numerosi ruoli più marginali, sono tratteggiati da uno scrittore in stato di grazia. Crumley non sbaglia un carattere ne’ una situazione, passando da set di film porno a comunità di recupero, da compound termali a baite solitarie dove si può pescare in tranquillità.

Il romanzo è una continua sorpresa. Parte in quarta con la citazione della bellissima poesia dell’amico Richard Hugo, poeta che oltre a dare l’occasione per il titolo, presta  i tratti fisici al personaggio dello scrittore Trahearne. Subito dopo i versi ecco il citatissimo incipit, considerato uno tra i  più riusciti  della letteratura americana. E via con il primo dei numerosi bar, la sgangherata bettola (ramshackle joint) proprio fuori Sonoma, California, dove Abraham Trahearne was drinking beer with an alcoholic bulldog, intento a scolare il cuore da un bel pomeriggio di primavera.
 
La storia, lette alcune decine di pagine sembra già giunta al termine, ma dopo qualche centinaio di chilometri si ricomincia. Arriva un altro finale, ed anche stavolta si tratta di un inganno e si arriva al vero finale ed è un cazzotto in bocca del lettore, come, a pensarci bene, è giusto che sia.

L’ultimo vero bacio è un gran bel romanzo, duro e commovente, troppo in anticipo sui tempi e per questo ignorato dal grande pubblico. Se ne innamorò Robert Altman che decise di farne un film. Lavorarono alla sceneggiatura Walter Hill e lo stesso Crumley ma il progetto si arenò, forse al bancone di un bar, tra un whisky e una birra.

  

mercoledì 22 giugno 2011

CHRISTOPHER ISHERWOOD - parte 2

LA VIOLETTA DEL PRATER / LITTLE FRIEND
ISHERWOOD / VIERTEL - 1934


 
Christopher Isherwood where have you been?
I’ve been to London to write for the screen
Christopher Isherwood, what did you there?
I squeaked like a mouse, and brought forth a bear


La fatica (bear) che lo stava impegnando era La Violetta del Prater, un vero e proprio divertimento serio sul cinema, raccontato in prima persona da un narratore che si chiama Christopher Isherwood, il quale fa lo sceneggiatore di un film che si intitola La Violetta del Prater (il film effettivamente realizzato è Little friend, del 1934), sotto l’aura affascinante e lunatica di un regista ebreo viennese, Friedrich Bergmann (in realtà Berthold Viertel).
La fatica che Isherwood, squittendo come un topo, stava portando avanti si rivelerà un’esperienza fondamentale:

“I giorni che seguirono furono il periodo più incredibile della mia vita. Finii col perdere il senso dello spazio e del tempo, ed ero sempre stanco. Tutti erano stanchi, e tuttavia lavoravamo con una gioia più profonda”. Il trentenne Christopher trova una guida nel maturo regista che alla fine riconoscerà come un padre: “a livello più profondo della coscienza, due esseri, anonimi, senza etichette, si erano incontrati, identificati, e si erano stretta la mano. Egli era mio padre. Io ero suo figlio”.

Il romanzo narra dunque questo rapporto padre-figlio, una sorta di Dante e Virgilio che si aggirano nelle bolge del cinema e naturalmente, al centro della vicenda c’è il cinema stesso con tutti i figuranti, maggiori e minori, produttori e segretarie, i quali, ognuno con il proprio apporto, concorreranno al compimento dell’opera collettiva che è il film.

Ogni figura esercita una funzione all’interno del processo di realizzazione della Violetta del Prater ma il romanzo coglie con sintetica lucidità aspetti intimi di tali ‘figure’ dando carattere ad tutti gli attori in campo, grazie alla naturalezza dei dialoghi i quali, nella maniera più spontanea, toccano argomenti davvero significativi. Tra tutti occupa un posto centrale la riflessione sul cinema.

“Per anni ho avuto una sola grande ambizione. Mi danno del pazzo ma non me ne importa. La Tosca. Con la Garbo. Senza musica, naturalmente”, dice Mr. Chatsworth, il produttore, e basta questa dichiarazione a sott’intendere uno stile e una visione del mondo. In quella frase c’è snobismo, gusto del paradosso, chiacchiericcio colto, consapevolezza del ruolo esercitato e un grande amore per il proprio lavoro.

Ma è nel rapporto tra regista (Virgilio, padre, Bergmann/Viertel) e sceneggiatore (Dante, figlio, Isherwood, narratore) che la passione per il cinema si esprime con la massima profondità

“Le insegnerò ogni cosa dal principio. Sa che cos’è un film?”. Bergmann fece coppa delle mani, amorosamente, come intorno a un fiore prezioso: “Un film è una macchina infernale; una volta accesa gira con una dinamica irresistibile […] matura verso la sua inevitabile esplosione. E questa esplosione noi dobbiamo prepararla, come anarchici, con la massima ingegnosità e malizia”.

Il narratore si ritroverà a 'recitare' questa tesi del regista mentre fa colazione con la madre e il fratello, geniale riduzione di contesto per uno degli aspetti nodali dell’estetica cinematografica:

 “Un quadro lo si può guardare solo fuggevolmente, o si può fissarne l’angolo in alto a sinistra per una mezz’ora di seguito. La stessa cosa vale per un libro; l’autore non può impedirvi di saltare delle pagine. Ma quando si va al cinematografo è diverso. C’è il film, e lo si deve vedere come il regista vuole che lo si veda. […] Il film è veramente una specie di macchina infernale…”. M’interruppi bruscamente, le mani per aria. M’ero sorpreso nel mezzo d’uno dei gesti più caratteristici di Bergmann.

E qui teoria, levità, gusto e maestria narrativa toccano un culmine.

Altra definizione di cinema viene dichiarata da Lawrence, il montatore, allo scrittore Isherwood:

“Voi scrittori avete tutti delle pose schifosamente romantiche. Tu credi che il cinematografo sia un’arte inferiore. È il cinema che vale molto più di te. Abbiamo bisogno di tecnici. Grazie a Dio io sono un montatore, conosco il mio mestiere. Io non tratto la pellicola come se fosse un pezzo del mio intestino. Bè, lascia che ti dica una cosa. Un film non è un dramma, non è letteratura; un film è matematica pura”.

E si potrebbero citare altri passaggi altrettanto significativi.

La Violetta del Prater, poco più di un centinaio di pagine, è un libro da leggere, sono molte le sorprese che riserva specie a chi ama cinema e letteratura.

Isherwood & Viertel

post dedicato ai moviebloggers napoleone e robydick

sabato 18 giugno 2011

THE SPECIALS

ROCK AGAINST RACISM


Si diceva di Coventry, ma la storia nasce prima del 1977, anno in cui Jerry Dammers e altri kids si mettono a fare musica nella città industriale delle Midlands. Bisogna andare nella Giamaica degli anni Cinquanta dove, nelle periferie degradate di Kingston fanno le prime apparizioni i rude boys, ragazzi che non hanno altro da fare che stare per strada a cannarsi e a percuotere barili arrugginiti. È così che nascono lo ska e il rocksteady e successivamente il reggae. I primi rude boys di Kingston non hanno connotazioni politiche, sopravvivono di quegli espedienti che ogni parassitismo urbano offre. Fumano, fanno sesso con le rude girls o con le turiste americane che negli anni Sessanta, dopo la “caduta in mani nemiche” di Cuba, cominciano a recarsi a frotte in Giamaica alla ricerca di sensazioni forti, ma soprattutto ballano e fanno musica. Alcuni gruppi di rude boys emigrano in Inghilterra e portano il loro sistema di vita nei quartieri delle metropoli inglesi, dove si verificano i primi scontri a carattere razziale con la gioventù bianca locale. In Inghilterra i rude boys perdono l’indolenza giamaicana, si incattiviscono e soprattutto cominciano ad esprimere rivendicazioni che vengono accolte dai giovani inglesi più attenti alle questioni politiche e sociali.

L’incontro tra l’ identità nera giamaicana e la nascente protesta bianca dei punk porta allo ska degli Specials.
Tra 1976 e 1977 il rock inglese ufficiale dava segnali inquietanti. In particolare due rock star di primissimo piano come Eric Clapton e David Bowie avevano fatto infelici dichiarazioni di stampo neofascista e xenofobo. Ciò aveva scatenato la protesta culminata, dal 1978, nei concerti del Rock Against Racism, ai quali parteciparono, tra gli altri, Clash, Specials, Tom Robinson, Elvis Costello e, a Leeds anche i Joy Division.


L’impegno militante contro razzismo e fascismo porta gli Specials ad un assiduo rapporto di amicizia oltre che di collaborazione tra Dammers, Joe Strummer e Elvis Costello. Strummer, dopo aver assistito ad un concerto della band di Coventry li inviterà ad aprire le serate dei Clash nell’On Parole UKTour del 1978 mentre Costello produrrà il loro primo album nel 1979, che custodisco gelosamente, mentre ho perduto, regalati a chissà chi, i singoli, tra i quali Ghost town/Why comprati in un negozietto inglese.


Gli Specials, nel giro di qualche anno e con solo due album ufficiali in studio hanno rappresentato una fiammata che ancora oggi riesce a illuminare e a dare calore. La loro musica è una miscela esplosiva fatta di divertimento e impegno e ascoltarli mette allegria, voglia irrefrenabile di ballare ma riesce anche a far riflettere grazie agli argomenti toccati nei loro testi.


Why did you try to hurt me? Did you really want to kill me
Tell me why, tell me why, tell me why


Why do we have to fight? Why must we fight?
I have to defend myself From attack last night


I know I am black You know you are white
I'm proud of my black skin And you are proud of your white, so


We don't need no British Movement Nor the Ku Klux Klan
Nor the National Front It makes me an angry man


I just want to live in peace Why can't you be the same?
Why should I live in fear? This fussing and fighting's insane



Gli Specials sono tutt’ora on stage e il loro tour dello scorso anno è stato acclamato dalla stampa inglese come uno dei migliori rock act in circolazione. A settembre di quest’anno è prevista l’unica data in Italia, a Milano. Il divertimento è assicurato.
È il caso di dire, dal sito ufficiale della band:

“Substance wrapped in checkerboard: who else could mention the Irish Republican Army and the Ulster Defence Association in a dance track?
If you were 15 in 1979, the Specials were easy peasy lemon squeezy the greatest band on the planet. If you're 47 in 2011, nothings changed.”


Eustaki sottoscrive, anche anagraficamente!

mercoledì 15 giugno 2011

CHRISTOPHER ISHERWOOD - parte 1

LA VIOLETTA DEL PRATER
CHRISTOPHER ISHERWOOD - 1945



 
La lisandra è una farfalla di piccole dimensioni molto comune nei nostri prati. Ogni volta che le sue ali color pervinca volteggiano tra il trifoglio in fiore è un sussulto che condensa, in breve sospensione di tempo,  stupore, eccitamento, quiete, appagamento e soddisfazione. La Violetta del Prater è come l’apparizione di una lisandra.

La lettura di questo breve romanzo è stata un vero piacere, per diversi motivi. Innanzitutto si tratta di un gradito dono, che è stato l’occasione di tornare a leggere un autore dopo oltre vent’anni dalle ultime frequentazioni (Incontro al fiume, Un uomo solo …). E poi, oltre i motivi strettamente personali, il piacere è tutto nel libro in sé. Perché la Violetta del Prater possiede i requisiti giusti per soddisfare il lettore. Intanto è scritto benissimo, come conferma Giorgio Manganelli in una postfazione, non perfettamente calibrata, all’edizione Adelphi. La lingua, il tono, il ritmo, svolazzano leggeri come una lisandra, che però si posa, tra un’amabile conversazione e l’altra, su temi quali l’Europa tra le due Guerre, l’ascesa di Hitler in Germania, le persecuzioni contro ebrei e comunisti, le rivolte in Austria ma anche l’amicizia e l’amore, il quale erompe da una breccia inattesa nelle ultime pagine, emozionante come il mare, improvviso, ad una svolta del monte.

Ma il romanzo non è solo questo, perché la Violetta del Prater è principalmente una testimonianza e una riflessione sul mondo del cinema dal suo interno. La storia è infatti un “making of” del film del titolo, composto da tutte le voci che compaiono nei titoli di coda: produttore, regista, sceneggiatore, attori e giù giù fino alle varie maestranze di una troupe al completo, compresi i giornalisti di gossip che fanno da contorno.

Breve, leggero, profondo, libro ideale sulla soglia delle vacanze.



Per la copertina dell'edizione De Donato ringrazio Federico Novaro Libri


Questo post è dedicato a Clandestina

domenica 12 giugno 2011

THE CLASH

WEST AND SOUTH LONDON


Prima che diventasse un quartiere cool Notting Hill era decisamente hot. Se oggi viene immediatamente associato alla coppia Roberts-Grant o per i più british al Notting Hill Set dei Tory Bright Youngs Cameron e Osborne, per chi ha memoria più lunga Notting Hill evoca immagini ben diverse. Lì dagli anni Cinquanta si erano concentrati i Trinis, gli immigrati dai caraibi britannici vittime di scontri razziali con i bianchi Teddy Boys che avrebbero avuto la massima violenza nella tarda estate del 1958, quando si scatenò una vera e propria guerriglia urbana.



L’anno successivo, come risposta al razzismo e all’intolleranza, si iniziò a festeggiare il carnevale in occasione della festività del bank holiday di Agosto e da allora l’appuntamento è diventato uno dei principali festival di strada del mondo.


Ma nel 1976 il carnevale è teatro di una nuova guerriglia, dove giovani bianchi e immigrati di colore lottano insieme contro le forze di polizia, quasi manifestazione violenta interrazziale di un malessere generazionale. I ‘riots’ del 1976, anno di grave crisi economica dopo lo shock petrolifero del 1973 e le prime avvisaglie dello smantellamento dell’industria manifatturiera inglese, sono l’evento sociale e politico che fa da cornice alla punk revolution. Ai riots di Notting Hill, tra i kids incazzati caricati dagli agenti ci sono Joe Strummer e Paul Simonon e l’esperienza ispirerà uno dei primissimi inni punk, White Riot


White riot - I wanna riot / White riot - a riot of my own


Black people gotta lot a problems
But they don't mind throwing a brick
White people go to school
Where they teach you how to be thick


An' everybody's doing Just what they're told to
An' nobody wants To go to jail!


All the power's in the hands
Of people rich enough to buy it
While we walk the street
Too chicken to even try it


Are you taking over or are you taking orders?
Are you going backwards Or are you going forwards?


I bianchi, secondo i Clash, dovevano fare come i neri e lanciare pietre….

Nel 1979 i Clash registrano il capolavoro London Calling che contiene The Guns of Brixton, scritta e cantata da Paul Simonon, nato e cresciuto a Brixton. A differenza di Notting Hill, Brixton non è diventato un quartiere fashion, è rimasto la capitale afrocaraibica di Londra dove nel 1981 scoppia una rivolta violentissima causata dalla povertà e dal degrado del quartiere. La canzone di Paul rispecchia questa atmosfera, fatta di sonorità reggae, violenza e disperazione e anticipa i riots dell’81:

When they kick at your front door
How you gonna come?
With your hands on your head
Or on the trigger of your gun


When the law break in How you gonna go?
Shot down on the pavement Or waiting in death row
You can crush us You can bruise us
But you'll have to answer to Oh, Guns of Brixton


In quegli anni mi aggiravo per Brixton consapevole di vivere idealmente la musica che amavo. A Brixton si respirava la vita: gente per strada, esposizioni di artisti sconosciuti, band che suonavano nei pub fin dal mattino, sporcizia, fuochi e bivacchi tra i piloni delle sopraelevate, proprio il ‘crooked beat’ della South London, altro gran bel pezzo di Simonon e intanto a Coventry….


martedì 7 giugno 2011

ERIC AMBLER

DUE ROMANZI
ERIC AMBLER - 1953 / 1972



Come molti suoi connazionali della stessa generazione, anche Ambler fu sedotto dall’ideologia marxista, almeno come unica forza in grado di contrastare e sconfiggere il nazifascismo. E il fascino del comunismo anche se disincantato e  pragmatico, affiora nei suoi romanzi che, a una lettura più attenta,  s’impongono ad un livello che trascende il semplice ‘genere’.

La base comune alle storie di Ambler è quello che si potrebbe definire romanzo di investigazione. Non necessariamente ‘gialli’ o esclusivamente spy story, i romanzi dell’autore inglese si collocano all’intersezione di tali generi ma non solo. Importantissimo è il contesto geopolitico dell’azione e spesso tale contesto è crossborder. Anzi, i romanzi di Ambler hanno questo che li caratterizza: la fondamentale importanza che assume il limes, la frontiera. Quasi come per il giovane Rimbaud nel suo girovagare tra i confini delle Ardenne,  i personaggi e i nodi narrativi di Ambler si ritrovano a varcare dei confini e tale attraversamento costituisce la forza che implementa l’azione del racconto.

Già segnalato il caso del giovanile La maschera di Dimitrios, la cui trasposizione cinematografica del 1946 sembra il prototipo di film come la serie di Indiana Jones, con la carta geografica a pieno schermo e la linea che unisce i luoghi lungo cui si svolge l’investigazione/svolgimento della narrazione e sulla quale in sovrapposizione sfumata corre la locomotiva. Nel Tempio maledetto la carta era quella dell’Asia, la linea la rotta dell’aereo…

Più solidi alcuni romanzi successivi. Ne L’eredità Schimler il prologo descrive la l’esperienza, carica di conseguenze, di un soldato prussiano impegnato nelle guerre napoleoniche. Poi la storia si snoda dagli Stati Uniti alla Germania alla Grecia. In questo paese l’investigazione che muove il romanzo si intreccia alle vicende della resistenza greca durante la II Guerra Mondiale e alla repressione anticomunista dell’immediato dopoguerra, tra separatisti macedoni, militanti jugoslavi e banditi borderline. Efficacissima la traduzione di Giorgio Manganelli che ricrea la scrittura originale, sempre più oggettiva, razionale, quasi da saggio storico. Perfino l’elemento ‘rosa’ presente ne L’eredità Schimler assume aspetti completamente anticonvenzionali per il genere, anche se è evidente che con il passare degli anni e con l’affinamento non solo della tecnica ma della consapevolezza letteraria Ambler sia ormai fuori dal thriller/spy.

Conferma ne è Il Levantino, del 1972, quasi un instant book sui fatti del Medio Oriente. La tecnica narrativa si raffina: siamo infatti di fronte a un diario a più voci. Le incursioni in settori ‘tecnici’ apparentemente lontani dal romanzesco vengono gestiti con sempre maggior padronanza di mezzi espressivi e la contemporaneità  esotica apre a scenari che per la letteratura di consumo diventeranno comuni negli anni a venire. Qui i confini attraversati sono quelli della zona più calda del mondo: Siria, Libano, Territori Palestinesi e lo scenario è quello successivo alla Guerra dei Sei Giorni. Ambler si muove tra attività industriali, triangolazioni economico-finanziarie, burocrazie ministeriali, gruppi militanti antisionisti con una scrittura che va dritta al cuore del problema, senza nessuna concessione all’orpello o all’autocompiacimento, tipici difetti di chi vuole rimarcare le proprie presunte capacità di scrittore. La prosa è asciutta e ponderata, quasi da saggio giornalistico che mantiene però la voglia di sapere come andrà a finire tipica del romanzo.

«Lei parla di contadini giordani che vendono i loro prodotti nel cosiddetto Israele. Le dirò che c'è stato un tempo in cui attraversavo anch'io il confine a quel modo. Ma in uno su cinque dei pompelmi che i miei muli portavano al mercato c'era una granata. La pace ad ogni costo, Mr Prescott, non è mai stata accettabile per noi palestinesi. Con o senza i nostri alleati dei paesi arabi noi fedayin abbiamo sempre continuato a combattere».
 

Bella conferma Eric Ambler




venerdì 3 giugno 2011

JOHANN SEBASTIAN BACH / URI CAINE

VARIAZIONI GOLDBERG


Sassonia, primi anni Quaranta del Settecento. Johann Sebastian Bach, cantore della Schola Thomana presso la chiesa di San Tommaso di Lipsia, ha dei contrasti con il nuovo rettore. In cerca di sostegni a corte, si rivolge al conte Hermann Carl von Keyserlingk, ambasciatore russo a Dresda, sede della corte di Sassonia, grande sostenitore delle arti e della musica in special modo.



Tra il conte e Bach si istaura un solido rapporto tanto che uno dei più talentuosi allievi di Bach, Johann Gottlieb Goldberg, diventerà a soli quattordici anni, clavicembalista personale del conte. Il giovane Goldberg avrà, tra l’altro, il compito di rendere meno angosciose le notti del conte, sofferente di insonnia, suonando il clavicembalo. Leggenda vuole che von Keyserlingk commissionasse a Bach una composizione in grado di alleviare le sue sofferenze notturne. A tale proposito Bach compone un’opera costituita da un’aria, trenta variazioni sulla base armonica della stessa e un’aria da capo conclusiva: si tratta delle Variazioni Goldberg.


L’opera ha conosciuto un grande ritorno di popolarità nel Novecento, grazie alla rielaborazione di Ferruccio Busoni, il quale nella prefazione all’edizione delle Goldberg del 1915 scrive:


“È necessario, sia abbreviando, sia ritoccando qua e là, rendere arrendevole l’opera tanto alla forza intellettuale dell’uditore quanto alle facoltà del pianista. Ritengo raccomandabile la soppressione totale di alcune variazioni nelle esecuzioni pubbliche. La divisione per diversi gruppi significa una serie di respiri, un’organizzazione per periodi. Essa personifica tre differenti stati dell’anima produttrice: il vario giuoco dentro un giro; l’immergersi nel mondo interno; il rialzarsi nel mondo concreto e reale.”


Ma è grazie all’interpretazione di Glenn Gould che le Variazioni diventano una composizione di culto, piattaforma su cui innestare spericolate sperimentazioni. Ed è quello che fa Uri Caine con un eterogeneo ensemble che comprende, tra gli altri, Vittorio Ghielmi alla viola da gamba, Dj Logic con la sua urban music, il coro del Kettwiger Bach Ensemble, le voci soul di Dean Bowman e Tracey Morris, Vinicius Cantuaria e il suo samba malinconico, il sax di Don Byron e si potrebbe continuare. La rilettura di Caine è uno scherzo coltissimo e divertentissimo e come tutti gli scherzi contiene, oltre all’ironia anche una buona dose di crudeltà. Sembra proprio che il compositore americano voglia prendersi gioco dell’ascoltatore, spiazzandolo, sorprendendolo, quasi parodiando canoni musicali stabiliti, siano essi riconducibili a Vivaldi, a Rachmaninov, al tango, all’elettronica da videogame. Ma noi siamo felici di stare al gioco e ci lasciamo sorprendere molto volentieri.

 questo post è dedicato ad una organista e ad un fisarmonicista dell'alta versilia