TEMPO DI UCCIDERE
ENNIO FLAIANO - 1947
Figura eccentrica di intellettuale ‘non allineato’ nell’Italia monocroma del secondo dopoguerra, Flaiano ha goduto, post mortem, a partire dagli anni Ottanta di una rivalutazione dovuta proprio al fatto di non essere stato ‘di sinistra’. Sempre più citato ma poco letto, dichiararsi suo estimatore sta diventando un espediente per conquistare titolo di fine intenditore nella comunità salottiera.
Va detto subito che Flaiano ha un grandissimo merito, quello di essere un acuto conoscitore di cinema, sia come critico che come sceneggiatore. Leggere i pezzi di critica cinematografica che l’abruzzese pubblicava su varie testate è ancora oggi una lezione per tutti coloro che amano questa arte oltre ad essere un divertimento tout court grazie alla seriosa ironia ricca di paradossi con la quale stendeva un film magari celebrato da colleghi ufficiali. Celebre in tal senso la recensione a Piccolo mondo antico di Mario Soldati. In quanto al lavoro di sceneggiatore, possiamo affermare che Flaiano è stato il migliore sceneggiatore italiano, non serve elencare la lunga lista di capolavori che ha contribuito a realizzare. Flaiano è stato anche maestro indiscusso di ‘cazzeggio’, che ha trasposto in una serie di scritti leggeri leggeri ma spudoratamente intelligenti e cattivi che sono una gioia da leggere e che oggi stanno entrando nel club esclusivo di massa della cultura italiana che è la casa editrice Adelphi.
All’interno della sua copiosa produzione, Tempo di uccidere è l’unico romanzo canonicamente inteso e compiuto.
Africa equatoriale, occupazione colonialista. C’è un fiume e c’è una diserzione e qualche barlume di orrore che si affaccia sotto le spoglie di malattia o di coccodrillo. Il rimando è fin troppo evidente… Se consideriamo che il romanzo è costruito come un racconto in prima persona in cui psicologia e simbolismo hanno un peso preponderante, sembra proprio di essere di fronte ad una esercitazione sul tema. Il tema è naturalmente la narrativa conradiana.
Altro polo letterario verso cui guarda Flaiano è il Camus de Lo straniero. Sempre Africa, un protagonista estraniato e indifferente che trova il tempo di uccidere. Flaiano segue i due modelli letterari ma non ha la forza di delineare una creatura realmente potente. Il tenente protagonista è completamente sfasato, senza qualità, dominato da una non volontà ad agire. Uccidere il dottore che gli si è appena rivelato amico o non ucciderlo è la stessa cosa. Amare o non amare, fare sesso o non farlo: è tutto uguale. Questo potrebbe essere un tratto di originalità, un pregio ma Flaiano si perde in circonvoluzioni inutili all’interno di un personaggio di limitato spessore, occasione mancata.
Come occasiaone mancata è la gestione dell’intreccio. Se nella prima parte accadono fatti e il lettore resta appeso alla storia, ad un certo punto il racconto si impantana in una situazione priva di ogni giustificazione, né narrativa né tanto meno psicologica. Il rapporto tra il tenente e il vecchio Johannes è inutilmente sovradimensionato e occupa circa un terzo del romanzo.
Il finale della storia, prima del resoconto conclusivo, risulta fiacco, tra l’incredibile e il patetico, quasi un’allegoria dell’’italianità’, del tipo “tutto si risolve, con lo stellone che ci protegge e volemose bbene”, non si sa quanto voluta dall’autore.
Molti dunque i difetti ma Tempo di uccidere ha anche dei meriti. I modelli Conrad e Camus innanzi tutto, inconsueti nelle patrie lettere intorno al 1947. Insolita l’ambientazione militar-coloniale e esotica, con la riesumazione della guerra d’Abissinia. Flaiano riesce a mettere le mani nel fango senza sporcarsi e senza sporcare il Fascismo, fatto ambivalente, per non dire ambiguo, con tutti gli addentellati positivi/negativi del caso. Vi è infine il sorprendente resoconto conclusivo: la vicenda narrata è ricapitolata e vengono soppesati retrospettivamente episodi poco chiari in una conversazione post factum tra il tenente e un interlocutore.
Tirando le somme, Tempo di uccidere ha troppi punti di debolezza per essere letteratura e Flaiano, nonostante lo sforzo, che in questo caso si sente, quando nelle prose brevi è così naturale, resta impelagato nel suo stesso racconto. Non letteratura ma un buon romanzo simbolista che si distingue nel dominante neorealismo della sua epoca.
mercoledì 27 aprile 2011
venerdì 22 aprile 2011
AURELIO MARTINEZ
LARU BEYA
AURELIO - 2011
Lo spirito Garifuna continua a vivere sulla costa infestata di zanzare tra il Belize e l’Honduras. Aurelio Martinez con la sua chitarra, le percussioni, la voce limpida e tesa dà vita alla cultura di questi antichi guerrieri vissuti lungo le rive del basso corso del Niger, trattati da un mercante portoghese o forse olandese, stivati a centinaia e centinaia su galere in rotta verso il tramonto, finiti schiavi nelle piantagioni di canna del Caribe..
Aurelio Martinez incarna questi secoli di storia e li fa musica, una musica pura, semplice e ricchissima allo stesso tempo, istintiva ed elaborata. In questo progetto si unisce a lui un affiatato gruppo di compagni di viaggio a formare un organico che annovera fiati, strumenti a corde, svariati strumenti a percussione, oltre alla pluralità di voci, cori e linguaggi. Un impasto di Guinea e Sahel, di Caraibi e riverberi coloniali.
Quarant’anni, attivismo politico che lo porta al parlamento hondureño e soprattutto la volontà di farsi rappresentante del suo popolo, i Garifuna, una comunità dell’America centrale che mantiene vive con orgoglio le radici nell’Africa occidentale. Laru Beya è un disco che sprizza vitalità da ogni nota e sancisce l’unità tra le due sponde dell’Atlantico. Nato su una spiaggia del Belize, completato a Dakar anche grazie al contributo di Youssou N'Dour, è il disco che Paul Simon non ha inciso dopo Graceland, è il disco che ci fa tornare alla spensieratezza dell’infanzia anche se i temi affrontati sono seri ed impegnati. È una boccata d’ossigeno, un sorso d’acqua fresca nel sempre più asfittico e ripetitivo panorama della musica di consumo contemporanea.
AURELIO - 2011
Nave negriera salpata da Gorée o più probabilmente da Ibani, Old pirates they rob I, sold I to the merchant ship, bianco degli occhi nel buio, nel marcio, nel fetore. Un naufragio in vista di Saint Vincent, bateau perdu sous les cheveux des anses, jeté par l'ouragan dans l'éther sans oiseau infine il continente, the Mainland.
Lo spirito Garifuna continua a vivere sulla costa infestata di zanzare tra il Belize e l’Honduras. Aurelio Martinez con la sua chitarra, le percussioni, la voce limpida e tesa dà vita alla cultura di questi antichi guerrieri vissuti lungo le rive del basso corso del Niger, trattati da un mercante portoghese o forse olandese, stivati a centinaia e centinaia su galere in rotta verso il tramonto, finiti schiavi nelle piantagioni di canna del Caribe..
Aurelio Martinez incarna questi secoli di storia e li fa musica, una musica pura, semplice e ricchissima allo stesso tempo, istintiva ed elaborata. In questo progetto si unisce a lui un affiatato gruppo di compagni di viaggio a formare un organico che annovera fiati, strumenti a corde, svariati strumenti a percussione, oltre alla pluralità di voci, cori e linguaggi. Un impasto di Guinea e Sahel, di Caraibi e riverberi coloniali.
Quarant’anni, attivismo politico che lo porta al parlamento hondureño e soprattutto la volontà di farsi rappresentante del suo popolo, i Garifuna, una comunità dell’America centrale che mantiene vive con orgoglio le radici nell’Africa occidentale. Laru Beya è un disco che sprizza vitalità da ogni nota e sancisce l’unità tra le due sponde dell’Atlantico. Nato su una spiaggia del Belize, completato a Dakar anche grazie al contributo di Youssou N'Dour, è il disco che Paul Simon non ha inciso dopo Graceland, è il disco che ci fa tornare alla spensieratezza dell’infanzia anche se i temi affrontati sono seri ed impegnati. È una boccata d’ossigeno, un sorso d’acqua fresca nel sempre più asfittico e ripetitivo panorama della musica di consumo contemporanea.
Luoghi importanti del popolo Garifuna |
domenica 17 aprile 2011
ZBIGNIEW RYBCZYNSKI
ANGST
GERARD KARGL / ZBIGNIEW RYBCZYNSKI - 1983
GERARD KARGL / ZBIGNIEW RYBCZYNSKI - 1983
Nel 1983 David Lynch aveva girato due film, lo sperimentale Eraserhead e l’accademico The Elephant man. Haneke era ancora lontano eppure in Austria usciva Angst. A vederlo oggi il mediocre regista di Funny games si conferma di ancora più mediocre livello, mentre Lynch si ridimensiona un po’. Sì perché Angst, un film ‘povero’ e nello spirito quasi amatoriale, concentra un sacco di buone idee che sarebbero state riprese dai due ben più celebri registi. Non che gli autori di Angst siano proprio dei nessuno qualunque. Se Il regista ufficiale ha una scarna biografia e questo era il suo clamoroso esordio, lo stesso non si può dire per Zbigniew Rybczynski, fresco vincitore di numerosi awards per il suo Tango del 1981, tra cui un oscar. Inoltre la colonna sonora, molto importante in un film quasi privo di dialoghi nel quale è la confessione fuori campo a narrare ciò che si nasconde dietro a quello che noi vediamo sullo schermo, è di mister Tangerine dream Klaus Schulze.
Angst, assume la forma di un report psichiatrico: si parte da un preambolo di matrice positivista con voci asettiche fuori campo, foto-reperti di indagine, in cui viene sintetizzato il caso e steso un referto medico sulla personalità dell’assassino. Infatti il film traspone in fiction un fatto di cronaca accaduto a Salisburgo nel 1980 seguito con passione e raccapriccio da tutta l’Austria. Dopo l’introduzione ‘realistica’ che vuole dare sigillo di autenticità scientifica alla storia, inizia il film vero e proprio e lentamente lo spettatore viene fatto scivolare dentro il protagonista e si compie una scissione da manuale di psichiatria. Da un lato si sviluppa l’autoanalisi del serial killer che ha funzione esplicativa rispetto al rappresentato ma che permette anche un’angosciosa compartecipazione tra spettatore e protagonista. Noi entriamo nella mente dello psicopatico e possiamo solo provare angoscia. Allo stesso tempo, assieme al monologo interiore/ narrazione/confessione grazie alla quale noi conosciamo il passato del killer e tutti i traumi subiti dall’infanzia alla maturità, il film mostra l’oggi, il killer in azione. Ecco che il caso di home invader si unisce ai labirinti onirico-psichici. L’azione è ambientata interamente in una casa-labirinto dove la famiglia da sacrificare si sovrappone alla famiglia dell’assassino. L’accompagnamento musicale, le tecniche di ripresa (punti di ripresa eccentrici, soggettive, camera a spalla, steadicam), la costruzione degli interni concorrono a definire uno spazio claustrofobico che sempre più diventa uno spazio mentale. Significativo l’uso del correlativo oggettivo rispetto a elementi che le riprese isolano all’interno degli ambienti vuoti della casa. E qui la mano allucinata ma concreta di Rybczynski è ben riconoscibile e raggiunge vertici assoluti di espressionismo. Il lungo episodio all’interno della casa è preceduto e seguito da sequenze nelle quali il simbolismo onirico è il principale segno stilistico reso anche attraverso un’alterazione del tempo dell’azione che sembra riportare la storia all’inizio, con un senso di déja-vu che è contemporaneamente nostro e del protagonista, sempre per quella riuscita compartecipazione già citata.
In tutta questa angoscia fatta di follia, sadismo, violenza, due momenti, uno lirico l’altro surreale, alleggeriscono il film. Il primo è il breve e frammentario affiorare di istantanee di un passato felice attraverso alcune vecchie foto delle vittime, lirismo sottolineato anche da un cambiamento melodico del sonoro di Schulze. Il secondo è l’assassino ormai completamente fuso che con un improbabile candido frak dalle lunghe code dà da mangiare al bassotto. Sui titoli di coda torna la voce fuori campo del medico che completa la lettura della relazione tecnica sul caso, così si chiude il film con una struttura a palindromo: A - caso clinico; B - il piano perfetto/il bar; C - la casa; B - il piano perfetto/il bar; A - caso clinico.
Riconosciuto come fonte di ispirazione da un regista come Gaspar Noé, resta mistero inspiegabile perché un film così ricco di spunti originali, intelligenti e anticipatori sia rimasto pressoché sconosciuto.
martedì 12 aprile 2011
IMITATION OF LIFE / ALEXANDAR HEMON
IMITATION OF LIFE
ALEXANDAR HEMON - 2000
“For a long time I used to go to bed early” ed è subito un colpo al cuore. L’inizio del racconto Imitation of life di Hemon è un calco del celeberrimo “Longtemps, je me suis couché de bonne heure”. Ma il racconto, oltre alla rievocazione dell’infanzia a Sarajevo ha molto a che fare con la scoperta dei mezzi magici che permettevano ad un bambino di sperimentare al massimo grado lo stupore infantile di cui parla Elémire Zolla. I mezzi magici sono la radio, la televisione e il cinema. Prima visti come oggetti (il televisore che entra in casa, la vecchia radio da smontare, il cinema come luogo fisico), poi come suscitatori di fantasticherie: e allora ecco i programmi per ragazzi e il terrore provato di fronte ai mostruosi extraterrestri; le stazioni radio che portavano voci nelle misteriose lingue lontane; il buio della sala e la locandina del film Imitation of life di Douglas Sirk con Lana Turnr “on the beach, her eyes sky-blue, her hair golden, her teeth snow white, her skin virgin pink”.
I ricordi d’infanzia di un uomo di una cinquantina di anni (Hemon è del ’64) sono inevitabilmente legati ai media. Per un bambino cresciuto tra i Sessanta e i Settanta infatti l’immaginario si è andato definendo anche soprattutto grazie alla quotidiana ‘esposizione’ alla TV e alla radio e ‘andare al cine’, entrare nel buio della sala, partecipare al rito collettivo della visione era pratica consueta.
Ecco quindi l’importanza che queste esperienze di imitazione della vita rivestono nella rievocazione del tempo perduto, alle quali si uniscono anche altre esperienze direttamente vissute come i giochi al parco con l’amico del cuore, il primo contatto con la morte, la casa con i vari oggetti pregni di significanza.
Ma è il cinema a colpire il piccolo Alexandar e allora come non ripensare al bellissimo esordio di Kusturica, nella stessa Sarajevo con quel piccolo capolavoro che è Ti ricordi di Dolly Bell o alla risposta di Robert De Niro/Noodles alla domanda “Cosa hai fatto in tutti questi anni?” “ Sono andato a letto presto”, come il protagonista di questo racconto e come il sensibile Marcel.
E con il cinema si chiude Imitation of life. Il finale è magistrale, quando si giunge all’ultima pagina la sorpresa fa salire un groppo di emozione alla gola e ci lascia l’appagamento e la soddisfazione che la bella letteratura regala ad un lettore appassionato.
Le immagini sono di Maja Bajevic, artista bosniaca nata a Sarajevo nel 1967
ALEXANDAR HEMON - 2000
En Attendant, 2001 L'infanzia del mago, 2008 |
“For a long time I used to go to bed early” ed è subito un colpo al cuore. L’inizio del racconto Imitation of life di Hemon è un calco del celeberrimo “Longtemps, je me suis couché de bonne heure”. Ma il racconto, oltre alla rievocazione dell’infanzia a Sarajevo ha molto a che fare con la scoperta dei mezzi magici che permettevano ad un bambino di sperimentare al massimo grado lo stupore infantile di cui parla Elémire Zolla. I mezzi magici sono la radio, la televisione e il cinema. Prima visti come oggetti (il televisore che entra in casa, la vecchia radio da smontare, il cinema come luogo fisico), poi come suscitatori di fantasticherie: e allora ecco i programmi per ragazzi e il terrore provato di fronte ai mostruosi extraterrestri; le stazioni radio che portavano voci nelle misteriose lingue lontane; il buio della sala e la locandina del film Imitation of life di Douglas Sirk con Lana Turnr “on the beach, her eyes sky-blue, her hair golden, her teeth snow white, her skin virgin pink”.
I ricordi d’infanzia di un uomo di una cinquantina di anni (Hemon è del ’64) sono inevitabilmente legati ai media. Per un bambino cresciuto tra i Sessanta e i Settanta infatti l’immaginario si è andato definendo anche soprattutto grazie alla quotidiana ‘esposizione’ alla TV e alla radio e ‘andare al cine’, entrare nel buio della sala, partecipare al rito collettivo della visione era pratica consueta.
Ecco quindi l’importanza che queste esperienze di imitazione della vita rivestono nella rievocazione del tempo perduto, alle quali si uniscono anche altre esperienze direttamente vissute come i giochi al parco con l’amico del cuore, il primo contatto con la morte, la casa con i vari oggetti pregni di significanza.
Ma è il cinema a colpire il piccolo Alexandar e allora come non ripensare al bellissimo esordio di Kusturica, nella stessa Sarajevo con quel piccolo capolavoro che è Ti ricordi di Dolly Bell o alla risposta di Robert De Niro/Noodles alla domanda “Cosa hai fatto in tutti questi anni?” “ Sono andato a letto presto”, come il protagonista di questo racconto e come il sensibile Marcel.
E con il cinema si chiude Imitation of life. Il finale è magistrale, quando si giunge all’ultima pagina la sorpresa fa salire un groppo di emozione alla gola e ci lascia l’appagamento e la soddisfazione che la bella letteratura regala ad un lettore appassionato.
Il viaggio, 2006 |
Un po' di sole nell'acqua fredda, 2005 |
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domenica 10 aprile 2011
IMITATION OF LIFE / R.E.M.
IMITATION OF LIFE
R.E.M. / GARTH JENNINGS - 2001
Primo singolo dall’album Reveal del 2001, Imitation of life riprende il titolo del film di Douglas Sirk del 1959. Si tratta una buona canzone in tipico stile R.E.M., band decisamente sopravvaluta, forse per la connotazione intellettualistica che i tre membri sono riusciti ad imporre. Si tratta senz’altro di menti sveglie e vivaci, ben rappresentati iconicamente da Michael Stipe così fisicamente in linea con i ‘turbamenti del giovane Törless’. Gruppo di seconda fascia, con Imitation of life però i R.E.M. segnano un bel colpo a loro vantaggio, o meglio, il colpo lo segnano i registi Garth Jennings e Nick Goldsmith, i guru della Hammer & Tongs, una delle più accreditate case di produzione di video musicali (Blur, Radiohead, Fatboy Slim, tra gli altri). Perché il video è veramente notevole.
Si tratta di un piano sequenza di 20 secondi, un pezzettino di vita vissuta con una folla di personaggi e di instant stories che si svolgono contemporaneamente nell’arco appunto di 20 secondi. Il piano sequenza è la tecnica cinematografica che costituisce la mimesis per eccellenza della realtà ma il regista, partendo da questa imitazione di vita, interviene su di essa attraverso una manipolazione che perviene ad una dilatazione spaziale e temporale.
Con l’uso del “pan-scan” i 20 secondi si allungano ai quasi quattro minuti della canzone. Anche il circoscritto spazio della location, un giardino dove si svolge un pool-party di compleanno, acquista profondità di campo grazie a zoomate, specchi, schermi che permettono di cogliere tutte le microstorie che accadono contemporaneamente. Ecco allora che l’imitazione della vita diventa una vita elevata alla n e il realismo del piano sequenza diventa un iperrealismo manipolatorio. L’uso della ripetizione continua, del forward and rewind, del consentire allo spettatore di penetrare dentro l’immagine e scoprire ciò che all’apparenza restava celato rimanda, anche per ammissione degli stessi registi, ai capolavori cinematografici del disvelamento: La finestra sul cortile, Blow up, La conversazione a cui si uniscono certe tendenze colte del cinema degli ultimi anni, ahimè di livello ben più basso (Dogma 95, Nolan, Gondry, Aronofsky). Ma soprattutto due sono i riferimenti che più si accostano a questo Imitation of life. La sequenza di Blade runner in cui Deckard ‘entra’ nelle foto a scoprire l’identità dei replicanti e la video arte di Zbigniew Rybczynski, in particolare il suo pluripremiato Tango del 1982.
R.E.M. / GARTH JENNINGS - 2001
Primo singolo dall’album Reveal del 2001, Imitation of life riprende il titolo del film di Douglas Sirk del 1959. Si tratta una buona canzone in tipico stile R.E.M., band decisamente sopravvaluta, forse per la connotazione intellettualistica che i tre membri sono riusciti ad imporre. Si tratta senz’altro di menti sveglie e vivaci, ben rappresentati iconicamente da Michael Stipe così fisicamente in linea con i ‘turbamenti del giovane Törless’. Gruppo di seconda fascia, con Imitation of life però i R.E.M. segnano un bel colpo a loro vantaggio, o meglio, il colpo lo segnano i registi Garth Jennings e Nick Goldsmith, i guru della Hammer & Tongs, una delle più accreditate case di produzione di video musicali (Blur, Radiohead, Fatboy Slim, tra gli altri). Perché il video è veramente notevole.
Si tratta di un piano sequenza di 20 secondi, un pezzettino di vita vissuta con una folla di personaggi e di instant stories che si svolgono contemporaneamente nell’arco appunto di 20 secondi. Il piano sequenza è la tecnica cinematografica che costituisce la mimesis per eccellenza della realtà ma il regista, partendo da questa imitazione di vita, interviene su di essa attraverso una manipolazione che perviene ad una dilatazione spaziale e temporale.
Con l’uso del “pan-scan” i 20 secondi si allungano ai quasi quattro minuti della canzone. Anche il circoscritto spazio della location, un giardino dove si svolge un pool-party di compleanno, acquista profondità di campo grazie a zoomate, specchi, schermi che permettono di cogliere tutte le microstorie che accadono contemporaneamente. Ecco allora che l’imitazione della vita diventa una vita elevata alla n e il realismo del piano sequenza diventa un iperrealismo manipolatorio. L’uso della ripetizione continua, del forward and rewind, del consentire allo spettatore di penetrare dentro l’immagine e scoprire ciò che all’apparenza restava celato rimanda, anche per ammissione degli stessi registi, ai capolavori cinematografici del disvelamento: La finestra sul cortile, Blow up, La conversazione a cui si uniscono certe tendenze colte del cinema degli ultimi anni, ahimè di livello ben più basso (Dogma 95, Nolan, Gondry, Aronofsky). Ma soprattutto due sono i riferimenti che più si accostano a questo Imitation of life. La sequenza di Blade runner in cui Deckard ‘entra’ nelle foto a scoprire l’identità dei replicanti e la video arte di Zbigniew Rybczynski, in particolare il suo pluripremiato Tango del 1982.
Zbigniew Rybczynski, Tango, 1982 |
giovedì 7 aprile 2011
IMITATION OF LIFE / DOUGLAS SIRK
IMITATION OF LIFE
DOUGLAS SIRK - 1959
Ovviamente tutto è semplificato e sottolineato cercando di far emergere i contrasti e le antitesi ma questo rientra nel genere, di cui Imitation of life è senz’altro uno dei vertici assoluti.
Il film sarà un successo clamoroso ela Universal dovrà aspettare oltre dieci anni per una produzione in grado di superarne gli incassi.
DOUGLAS SIRK - 1959
Melodramma in pieno stile Douglas Sirk, campione indiscusso del genere. Praticamente il testamento del regista che poco dopo, all’apice del successo, lascerà Hollywood e tornerà nella sua Germania, riponendo in soffitta la macchina da presa per i successivi trent’anni, salvo un unico ritorno di fiamma per un contributo alla regia di un insignificante titolo tedesco.
La scena iniziale riunisce i cinque principali caratteri che casualmente si incontrano in una spiaggia affollata e intrecceranno le loro vite ‘nella buona e nella cattiva sorte’. Da notare che proprio sulla spiaggia il personaggio maschile esprime un giudizio a titolo di battuta su Lora/Lana Turner che passa quasi inosservato e che invece costituisce uno dei punti essenziali della vicenda: “non solo le vizia ma se le perde” a proposito delle bambine. (“She not only spoils them, she goes around losing them”)
Siamo alla fase germinale del genere soap opera, infatti il film concentra in due ore una serie di temi quali il problema razziale, il rapporto conflittuale tra madri e figlie, la carriera a scapito della vita familiare, l’emancipazione della figura femminile e la sua lotta contro i ruoli prestabiliti, l’ascesa economica e sociale grazie al talento secondo il più classico American Dream, il vuoto e l’insoddisfazione che lasciano i beni materiali, rivalità e gelosie interfamiliari con addirittura il già innamorato della madre che diventerà l’innamorato della figlia. Se non bastasse, la toccante scena finale, con tanto di gospel in chiesa e cavalli bianchi, riunirà i cinque protagonisti per poter tracciare, per ognuno di essi, un bilancio tra lacrime, risentimenti, incomprensioni e illusioni.
Sirk si conferma un fior di regista, siamo di fronte all’eccellenza artigianale che diventa grande produzione industriale. Il tedesco di origini danesi che lavora ad Hollywood (un compendio di storia del cinema!) sa confezionare un prodotto che può accontentare tutti, con una star come la Ice Queen Lana Turner che non oscura gli altri personaggi, i quali sono tutti importanti e funzionali ai feedback relazionali che si creano nel film, che rappresenta davvero una imitazione della vita.
A questo proposito è interessante il tema della vita e della rappresentazione di essa. Nel film ricorrono questi elementi di sovrapposizione tra i due piani della realtà e della finzione. A Lora si aprono le porte del successo come attrice di teatro grazie ad una foto pubblicitaria su Harper’s Bazaar, della quale foto avevamo visto l’ironica realizzazione. La bella sequenza iniziale con insolita inquadratura della macchina da presa che riprende dal basso verso l’alto prima solo una folla di gambe in movimento poi delle gambe di donna che ampliandosi il campo si riveleranno essere quelle della protagonista, verrà ‘duplicata’ dallo scatto del fotografo. Sempre nella scena iniziale sulla spiaggia, la foto ad un uomo grasso addormentato con una lattina sulla pancia sarà fonte di divertimento per le bambine ma la vedremo anche pubblicata garantendo una carriera da professionista al fotografo. Ovviamente tutto è semplificato e sottolineato cercando di far emergere i contrasti e le antitesi ma questo rientra nel genere, di cui Imitation of life è senz’altro uno dei vertici assoluti.
Il film sarà un successo clamoroso e
Il lunedì sera c’era il film e io di solito andavo a guardare la televisione da due fratelli miei amici che abitavano dall’altro lato della strada. A vedere il film c’erano i loro nonni, seduti sul sofà, la loro mamma che in piedi si fermava a guardare qualche scena mentre il marito finiva di cenare. Noi bimbi di sei sette anni stavamo seduti sui gradini della scala che portava al piano superiore. Proprio ad uno di quei lunedì risale la prima visione di questo Lo specchio della vita, del quale era rimasta nella memoria solo l’immagine finale con i cavalli bianchi.
lunedì 4 aprile 2011
VLADIMIR NABOKOV
L'ORIGINALE DI LAURA
VLADIMIR NABOKOV - 1977 / 2009
A 76 anni Vladimir Nabokov con il retino per i pendii di Davos a caccia di farfalle. La caduta dalla quale non si sarebbe più ripreso causata dalla passione di una vita, l’entomologia. E immediati i pensieri vanno a Jean-Henri Fabre e la sua ascesa al Mont Ventoux in cerca di osmie o a Ernst Jünger in Malesia ad osservare le lucciole.
Gli infallibili medici svizzeri nei fortilizi delle loro celebrate cliniche si riveleranno tutt’altro che infallibili e dopo due anni di sofferenze, Vladimir Nabokov moriva sulle rive del Lago Lemano di bronchite congestizia. A quanto sembra, una sbadata infermiera lasciando aperta una finestra si rese responsabile del raffreddamento fatale.
Caduta con retino inseguendo una lisandra, infermiera svizzera accaldata, l’ironia della vita che come contrappasso ricalca quello che potrebbe benissimo essere uno spunto narrativo dello stesso Vladimir. Gli ultimi mesi elvetici si erano consumati nel tentativo di portare a termine un romanzo, L’originale di Laura, che secondo la volontà dell’autore avrebbe dovuto essere bruciato se la morte non avesse permesso di concluderlo.
Anche Lolita doveva finire nell’inceneritore ma la moglie Vera non seguì la volontà del marito e lo convinse a pubblicarlo. Dobbiamo esserle riconoscenti, Lolita è un romanzo immenso.
Schede manoscritte per una storia che si avvolge su se stessa, almeno nei frammenti pubblicati: Flora e la sua immagine riflessa Laura che diventano FLaura, considerando che in inglese il nome Laura si pronuncia «lora»; un labirinto dove si narra di uno scrittore che sta scrivendo un romanzo o meglio due; la mondanità salottiera e pettegola; erotismo promiscuo onirico, ricordato, vissuto.
L’originale di Laura non può definirsi un romanzo, sono gli appunti di un grande scrittore per un possibile romanzo. Frammenti che non avremmo dovuto leggere ma che ancora una volta fortunatamente abbiamo sotto gli occhi, questa volta grazie al figlio Dmitri che infine si è deciso per la pubblicazione (diritti venduti a peso d’oro, c’è da immaginare). Ma tant’è. Per un appassionato, questi frammenti sono un’estasi da assaporare goccia a goccia, prolungando con la rilettura il piacere di una scrittura che è Nabokov, il solito Nabokov geniale, sublime, raffinato, lucido anche se sofferente e ormai avviato alla fine.
VLADIMIR NABOKOV - 1977 / 2009
A 76 anni Vladimir Nabokov con il retino per i pendii di Davos a caccia di farfalle. La caduta dalla quale non si sarebbe più ripreso causata dalla passione di una vita, l’entomologia. E immediati i pensieri vanno a Jean-Henri Fabre e la sua ascesa al Mont Ventoux in cerca di osmie o a Ernst Jünger in Malesia ad osservare le lucciole.
Gli infallibili medici svizzeri nei fortilizi delle loro celebrate cliniche si riveleranno tutt’altro che infallibili e dopo due anni di sofferenze, Vladimir Nabokov moriva sulle rive del Lago Lemano di bronchite congestizia. A quanto sembra, una sbadata infermiera lasciando aperta una finestra si rese responsabile del raffreddamento fatale.
Caduta con retino inseguendo una lisandra, infermiera svizzera accaldata, l’ironia della vita che come contrappasso ricalca quello che potrebbe benissimo essere uno spunto narrativo dello stesso Vladimir. Gli ultimi mesi elvetici si erano consumati nel tentativo di portare a termine un romanzo, L’originale di Laura, che secondo la volontà dell’autore avrebbe dovuto essere bruciato se la morte non avesse permesso di concluderlo.
Anche Lolita doveva finire nell’inceneritore ma la moglie Vera non seguì la volontà del marito e lo convinse a pubblicarlo. Dobbiamo esserle riconoscenti, Lolita è un romanzo immenso.
Schede manoscritte per una storia che si avvolge su se stessa, almeno nei frammenti pubblicati: Flora e la sua immagine riflessa Laura che diventano FLaura, considerando che in inglese il nome Laura si pronuncia «lora»; un labirinto dove si narra di uno scrittore che sta scrivendo un romanzo o meglio due; la mondanità salottiera e pettegola; erotismo promiscuo onirico, ricordato, vissuto.
L’originale di Laura non può definirsi un romanzo, sono gli appunti di un grande scrittore per un possibile romanzo. Frammenti che non avremmo dovuto leggere ma che ancora una volta fortunatamente abbiamo sotto gli occhi, questa volta grazie al figlio Dmitri che infine si è deciso per la pubblicazione (diritti venduti a peso d’oro, c’è da immaginare). Ma tant’è. Per un appassionato, questi frammenti sono un’estasi da assaporare goccia a goccia, prolungando con la rilettura il piacere di una scrittura che è Nabokov, il solito Nabokov geniale, sublime, raffinato, lucido anche se sofferente e ormai avviato alla fine.
Nabokov e la sua farfalla preferita, la lisandra (Polyommatus Icarus) |
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