Ecco
finalmente un bel disco. Justin Vernon, da Eau Claire, Wisconsin. Classe 1981,
con il secondo album, dopo una carriera eclettica che dall’indiefolk lo porta
alle grandi platee di Kanye West e alla saga Twilight, fa il botto.
Bon Iver,
Bon Iver ha infatti tutti gli ingredienti per durare e costituire quindi uno
dei momenti musicali migliori di questo finora deludente 2011. E gli
ingredienti sono l’ispirazione ma anche la cura puntigliosa di realizzazione,
un bell’organico di strumentisti affiatati, sicurezza compositiva e una notevole
originalità dei testi. C’è poi la voce, vero atou che se può creare qualche
perplessità è comunque un vero e proprio strumento sul quale Vernon ha lavorato
molto. Ci sono dei momenti deboli – l’ultima track, un banal pop sintetico anni
Ottanta che poteva essere tagliato – ma nel complesso il disco tiene molto
bene. Si tratta di una serie di composizioni che vanno a costituire una
geografia interiore fatta di luoghi reali e immaginari , di spazi onirici e
della memoria tenuti insieme dalla voce di Justin, duttilissima, quasi un baritono
in falsetto che sa variare timbro ed intensità restando sempre all’interno di
linee melodiche piane e misurate e al tempo stesso originali.
Nonostante l’attenzione
maniacale al risultato, non si ha mai l’impressione che Vernon voglia strafare,
tutto suona molto naturale e queste sono l’eleganza e la maestria del
talentuoso che non deve per forza esibirsi in mirabilia e momorabilia a tutti i
costi. La complessità di composizione dei brani è quasi mascherata, come per
esempio nel primo distico di Perth/Minnesota,WI la marcia con sovraincisioni noise
sporche scivola per mezzo di un
interludio molto pulito in un cantato
basso e profondo piuttosto articolato che si innalza in un falsetto a mettere
in risalto le doti di Vernon il quale, dopo questo saliscendi vocale si impone
non quale virtuoso cantante ma come compositore e musicista: una bella
soddisfazione! Insomma siamo oltre Antony.
Nessuna delle otto tracce del disco
ha una struttura tradizionale, più che canzoni sono episodi di una lunga suite
ma l’impressione che lascia l’ascolto non è ciò che si prova di fronte all’intellettualismo
sperimentale, tutt’altro, siamo in presenza di canzoni con una melodia che si
lascia fischiettare se non proprio cantare, visto l’articolazione della versificazione.
Innovazione nella tradizione si potrebbe dire. Ho parlato di otto tracce che in
realtà sono dieci ma il distico finale, (un’intro strumentale, Lisbon e la
conclusiva Beth/Rest) è quasi un’appendice extra album che non si amalgama a quello che invece è un bell’esempio
di coerenza stilistica.
Bon Iver,
dal Midwest, qusi un opensource musicale coordinato da Justin Vernon, ci lascia
molto soddisfatti.