cinema

mercoledì 22 febbraio 2012

RUNDSKOP / BULLHEAD

MICHAEL R. ROSKAM
BULLHEAD - 2011

Paesaggio delle Fiandre orientali (Limburg) - Rundskop
John Constable, Paesaggio con nuvole grige, 1821


È già da qualche anno che dal Belgio – terra di cioccolatini e di pedofili, detto da Colin Farrell nel film In Bruges – arrivano belle sorprese. Sorprese un po’ malate, come questa opera prima molto meditata. Il regista ha voglia di raccontare una storia forte e ci si butta dentro con impegno. Anche troppo. Affiorano qua e là ingenuità da inesperienza ma, nonostante i troppi personaggi di contorno e qualche sbavatura, il film regge. In alcuni momenti ci lascia anche ammirati.

Ottimo l’inizio. Fotografia umida e fangosa, widescreen sul paesaggio con punto di orizzonte bassissimo, alla Constable. Location principale una fattoria dove si allevano mucche, nel Limburgo belga. Le immagini sanno di stalla, di sterco e di mangime. L’identità plurilinguistica è resa molto bene, con l’avvicendarsi dei vari dialetti, fiamminghi e valloni, i quali devono essere parlati in modo così stretto da rendere necessari i sottotitoli anche per la lingua madre, il fiammingo. Originale la vicenda che si snoda in varie località belghe, seguendo un fatto di cronaca realmente accaduto anni fa, con al centro lo spaccio illegale di ormoni agli allevatori per ipersviluppare il bestiame. In questo sordido scenario si aggira il protagonista, Jacky, personaggio anomico interpretato con osmotica partecipazione da Matthias Schoenaerts che ha aumentato la sua massa muscolare di quasi trenta kili per ‘entrare nella parte’.

Fin qui tutto perfetto ma ad un certo punto le vere intenzioni del regista vengono allo scoperto e da crime movie Bullhead diventa un film d’introspezione psicologica e il gioco perde un po’ di smalto.

Il traffico di ormoni scivola in secondo piano mentre il centro dell’attenzione è tutto per Jacky e la sua paranoia che ha origine in un violento episodio dell’infanzia, squadernato in flashback. Ulteriori complicazioni con poliziotti scomposti, informatori malinconici, assassini approssimativi, meccanici sprovveduti, vecchi amori infantili ed altro ancora.

Candidato all’Oscar tra i film stranieri (altro che il misero Crialese!), probabilmente non vincerà ma Rundskop è da vedere e il regista,  Michael R. Roskam, è atteso all’opera seconda.

John Constable, Veduta di salisbury, 1820

Rundskop

domenica 19 febbraio 2012

KILL LIST

BEN WHEATLEY
KILL LIST - 2011


Parte il film. Sullo schermo nero si forma un simbolo che predispone ex-abrupto lo spettatore ad aspettative di mistero ed angoscia. La visione manterrà esattamente ciò che il regista, con quel simbolo, subito, senza altri mezzi che un iconico segno bianco su fondo nero e tracce di sonoro, si era prefissato. Dopo la ‘cifra’ iniziale, interno familiare, furiosa lite tra moglie e marito davanti al piccolo figlio che gioca con i soldatini. Qualcosa non va. Gli interni ordinari della villetta con giardino, il grigiore atmosferico degli esterni, le riprese quasi amatoriali che stanno sui personaggi, tutto contribuisce a trasmettere un senso di turbamento, aumentato dal fatto che la barriera dello schermo sembra annullarsi per permettere l’ingresso nel film di colui che sta guardando.

Violenza verbale e di sguardi, depressione, inquietudine infettante: tutto esplode durante una cena a cui sono invitati un amico del marito e la sua compagna. Inizia una discesa nell’abisso in cui sembra che l’unica certezza sia l’intenzione del regista inglese di spiazzare e confondere lo spettatore. Uno degli espedienti usati è il cambio di genere. Il film scivola dal dramma psicologico all’action-movie, al thriller, al mistery, all’horror trascinando in un gorgo di crescente inquietudine tutto quello che viene rappresentato: protagonisti, personaggi collaterali, ambienti, situazioni.

Alla fine molti gli interrogativi ma anche la sensazione che la relazione-gioco del regista con lo spettatore sia decisamente riuscita e su un film come questo, proprio per questa complicità che si crea tra autore e fruitore, già dire il poco che è stato detto rappresenta un piccolo tradimento. È il caso di aggiungere che Kill list va visto (e magari visto una seconda volta) al buio più completo, senza saperne nulla.

mercoledì 15 febbraio 2012

PAUL CELAN

DIE NIEMANDSROSE
LA ROSA DI NESSUNO - 1963




Era da qualche anno che non tornavo ad immergermi nella poesia di Paul Celan. Poeta conosciuto alla fine del secolo scorso, grazie ad una bellissima mostra di Anselm Kiefer alla Biennale di Venezia, nelle cui opere sono molto evidenti le citazioni dei miei amatissimi Mandel’štam e Celine e dello stesso Paul Celan.

Papavero e memoria è stata la prima raccolta pubblicata dal poeta ed anche il suo primo libro che ho letto. A seguire Di soglia in soglia e Grata di parole. Ma è con l’attuale lettura de La rosa di nessuno che posso dire di essere veramente entrato in contatto con l’universo poetico-esistenziale di Paul Celan. Ed era da molto tempo che la poesia non mi trasmetteva una pienezza di soddisfazione come sta avvenendo in questi giorni di ripetuta lettura dei testi della raccolta e della loro meditata assimilazione.

Die Niemandsrose esce nel 1963 e nonostante la profonda tragicità dei temi trattati, in esso si possono trovare anche momenti di luminoso slancio verso il futuro. Il libro è suddiviso in quatto parti. Nella prima parte vengono enucleate le varie tematiche in componimenti generalmente brevi nei quali, specie a livello formale, ben presente è l’influsso di Mandel’štam, poeta che proprio in quegli anni Celan aveva tradotto e al quale è dedicata la raccolta. Nella seconda parte l’attenzione si concentra sulla parola e sulla difficoltà della comunicazione lirica. Si accumulano termini-chiave come pietra, nulla, vuoto, parola, in poesie che negando cercano disperatamente di affermare.

La terza sezione è come un momento di pausa, un raccoglimento che si apre anche agli affetti familiari e che prepara all’ultima sezione, nella quale il fino ad ora trattenuto lirismo irrompe e il discorso poetico diventa ‘impazzito d’acqua che straripa’ per citare un verso di Mandel’štam. La parola, iperconcentrata, esplode frammentandosi in rimandi che penetrano nell’interiorità storica, psicologica e geografica del poeta. I testi, ora più lunghi, sono viaggi nel profondo e nel cosmo, secondo un verticalismo che dal sottosuolo dostoevskiano sale all’etere delle Elegie duinesi di Rilke.

Tornare a Paul Celan è stato molto di più di una lettura. È stata un’esperienza di completo appagamento.

domenica 5 febbraio 2012

MURAKAMI HARUKI

1Q84
MURAKAMI HARUKI - 2009 / 2011





Volendo schematizzare, la comunità ‘letteraria’ internazionale può essere suddivisa nei classici tre livelli: basso, medio, alto. Per fare alcuni esempi, l’uscita di un libro tipo Harry Potter o la saga Twilight è destinata a raggiungere le vette delle classifiche di vendita di tutto il mondo e i lettori possono essere definiti lettori con basse aspettative letterarie. I lettori di livello medio invece  considerano se stessi come pubblico di alto profilo, come veri intenditori e sono quelli che mandano in classifica in tutto il mondo i libri di Houellebecq, Jonathan Coe, McEwan, Murakami. Ossia letteratura di livello medio con aspirazioni ‘alte’. Vi sono, infine, i veri capolavori, i quali sono rari e hanno bisogno di anni per essere riconosciuti tali.  Giusto per citare uno dei massimi critici viventi, George Steiner, tra i ‘contemporanei’ possono fregiarsi del titolo di ‘classico’ autori come Gadda e Sciascia, Nabokov, Paul Celan e Thomas Bernhard, Vasilij Grossman. Nessuno dei quali è vivente.

Fatta questa premessa, che potrebbe benissimo non valere nulla ed essere tranquillamente ribaltata, il caso di Murakami Haruki è quello che, secondo l’opinione letteraria (che io definisco ‘media’) mondiale, rappresenta il Grande Autore contemporaneo. Non solo, ma Murakami sarebbe uno dei pochissimi scrittori a mettere d’accordo i lettori  più esigenti con le masse, visto il successo planetario della sua ultima trilogia, 1Q84, del quale in Italia Einaudi ha fatto uscire i libri 1 e 2 nell’autunno scorso.

Ho evitato di leggere qualsiasi cosa sul romanzo, ma anche solo dai titoli sulla stampa, sui blog in rete, insomma, annusando l’aria, penso si possa dire che l’uscita in Occidente di 1Q84 sia stata salutata come un vero e proprio evento. Non ho letto nulla sul romanzo ma ho letto il romanzo, le prime due parti tradotte in italiano e ho dato un’occhiata al terzo libro in spagnolo.

L’inizio è avvincente, cattura e si vuole conoscere lo sviluppo della storia, o meglio delle storie, e si è anche portati a riconoscere, con speranza, la bravura dell’autore  ma dopo circa duecento pagine il romanzo inizia a diventare sempre meno sorprendente e la speranza di avere tra le mani un capolavoro crolla completamente. Alla fine del secondo libro l’interesse è definitivamente scomparso.

Che dire? Murakami si sforza proprio tanto per edificare un ‘santuario’ letterario, per usare un termine a lui caro, ma i risultati sono un mezzo fiasco. Per fare della grande letteratura non basta costruire un elefantiaco meccanismo narrativo e infarcirlo di citazioni colte. Inoltre, Murakami vuole spiegare tutto, anche quello che non va spiegato, con il risultato di appesantire il romanzo con chiarimenti non richiesti e inutili ripetizioni. Ma più che di romanzo bisognerebbe parlare di manga. 1Q84 è un megamanga, farcito di tutto, il quale non comunica la benché minima emozione.