cinema

mercoledì 30 maggio 2012

THOMAS L. FRIEDMAN / PAUL SIMON / JOE STRUMMER

GRACELAND / UNDER AFRICAN SKIES
1986 - 2012





Thomas Friedman è top columnist del New York Times. Di lui lessi qualche anno fa il bel saggio The World Is Flat. A Brief History of the Twenty-First Century. Vincitore del premio Pulitzer, nei suoi editoriali,  molto seguiti e considerati, si occupa di geopolitica e di economia globale, quindi mi ha stupito leggere il suo ultimo intervento in apertura del NYT del 29 maggio. Non si parla di Siria o dell’attacco di Israele all’Iran, né del rallentamento dell’economia indiana o del rischio default della Spagna. No, T. L. Friedman parla di un evento secondo lui storico: l’uscita del film ‘Under African Skies’ di Joe Berlinger che celebra i venticinque anni dalla realizzazione di Graceland di Paul Simon.

Friedman racconta la storia di quello che considera un capolavoro, e lo fa partendo dal bassista Bakithi Kumalo e da come si ritrovò coinvolto nel progetto Graceland. Secondo l’editorialista americano quel progetto ha anticipato la globalizzazione facendo entrare il continente africano sullo scenario culturale mondiale. Non solo ma grazie anche a Paul Simon, la situazione di ‘segragazione’ della Repubblica Sudafricana si è fatta più evidente portando alla ribalta internazionale la lotta di un popolo per la libertà.

Tutto questo mi ha colpito molto. Le cose che dice Friedman sono proprio quelle a cui stavo pensando in questi giorni, mentre sto ascoltando il bel disco di Vusi Mahlasela, disco che mi ha fatto venire voglia di Graceland, e di riesumare il vinile del 1986 e il cd del 2004 con tre bonus tracks. Tutti gli 11 brani sono di altissimo livello, nessuna sbavatura. Disco perfetto. Nella mia top ten degli album di sempre.

Graceland è particolarmente legato anche ad alcune mie vicende personali. È il disco che ha definitivamente chiuso la stagione della new wave sia musicalmente che come stile di vita. Riascoltarlo rimanda ad un viaggio in Francia, a persone ormai lontanissime ma alle quali si pensa con piacere e con un filo di nostalgia.

Non resta che aspettare di vedere il film e intanto segnalare, come fa wikipedia, ciò che dichiarò Joe Strummer  nel 1988 in un’intervista sul Los Angeles Times:

  “I don't like the idea that people who aren't adolescents make records. Adolescents make the best records. Except for Paul Simon. Except for Graceland. He's hit a new plateau there, but he's writing to his own age group. Graceland is something new. That song to his son is just as good as ‘Blue Suede Shoes’: ‘Before you were born dude when life was great.’ That's just as good as ‘Blue Suede Shoes’, and that is a new dimension.”



mercoledì 23 maggio 2012

VUSI MAHLASELA

SAY AFRICA
VUSI MAHLASELA 2010 - 2012




Ad aprire le porte delle charts di tutto il mondo alle sonorità africane è stato l’album Graceland di Paul Simon, anticipato dal progetto WOMAD di Peter Gabriel. Due grossi nomi che hanno contribuito a far conoscere al grande pubblico la World Music e in particolare hanno permesso l’affermazione di tanti musicisti africani.

In quegli anni si formava da autodidatta Vusi Mahlasela che avrebbe abbracciato la lotta di Mandela per la liberazione del suo paese, il Sudafrica. Attivista politico, musicista, poeta e soprattutto cantante e cantore delle grandi conquiste sudafricane, Vusi si è imposto, dai primi anni Novanta come The Voice, la voce, come viene chiamato nel suo Paese. Ma è solo da pochi anni che la sua notorietà valica i confini africani. Un musicista attento come Taj Mahal, con già all’attivo le collaborazioni con i due giganti Ali Farka Touré e Toumani Diabaté, decide di produrre un album con il cantante sudafricano e nasce così Say Africa, composto nel 2010 e registrato l’anno successivo in Virginia e ora distribuito worldwide.

14 corpose tracks, Say Africa colpisce per la ricchezza della strumentazione dispiegata e per la freschezza complessiva del lavoro. Non si tratta di un disco rivoluzionario, anzi la sua forza e forse anche il suo limite è di dare struttura a trent’anni di World Music offrendo un prodotto con il quale l’ascoltatore entra immediatamente in sintonia, grazie alla professionalità di realizzazione.

Sono tutti bravi in Say Africa, Vusi ci crede ma affiora dalla produzione un senso di ricerca della ‘perfezione media’ in grado di giungere ad un pubblico il più vasto e globalizzato possibile. Questo non è un male in sé ma ciò limita la ricerca di soluzioni meno facili e più libere e innovative.

Non c’è dubbio che l’ascolto  di Say Africa riporti inevitabilmente al fondamentale Graceland di Paul Simon e il legame tra i due album è dato dalla presenza, in entrambi, del bassista Bakithi Kumalo. Ma anche il timbro vocale di Vusi ricorda quello del musicista americano. Detto questo, l’album costituisce comunque una gradevolissima sorpresa , con alcuni momenti pienamente riusciti. Tra questi Umalume, allegra ma velata dalle note struggenti e nostalgiche della chitarra, la corale Mokalanyane o Ode to Lesego, con testo del poeta Thabang Chiloane. Apprezzabili anche le incursioni di Taj Mahal con benjo e chitarra ed anche voce nella bella In anyway, dove in pieno Transvaal giunge a scorrere il Mississippi. Ma questo lo cantava anche Simon :

The Mississippi delta
Was shining like a national guitar
I am following the river
Down the highway through the cradle of the Civil War


sabato 12 maggio 2012

DAMON ALBARN

DR. DEE
DAMON ALBARN - 2012





Acqua che scorre, fischiare di merli, campane e il lento incedere dell’orchestra. È l’ouverture del concept Dr. Dee di Damon Albarn. Da Parklife a Think Tank, dal Mali a Gorillaz abbiamo sempre considerato Damon la migliore mente della sua generazione.

Figlio di Keith Albarn, manager dei Soft Machine, Damon ha respirato fin da piccolo quanto di meglio offrisse lo scenario musicale inglese e proprio un’aura wyattiana circonfonde il suo ultimo lavoro solista. Un’aura, un’atmosfera progressive che si accentua specie nei momenti in  cui è lo stesso autore che canta rarefatte ballate che svolgono funzione di raccordo tra gli episodi ‘rinascimentali’ del disco.

L’uscita di questo disco ha confermato la statura e l’non convenzionalità dell’ex enfant-prodige del britpop ora artista a tutto tondo, produttore e sperimentatore impegnato in svariati progetti. Per quanto mi riguarda, sapere che un musicista che seguo da sempre e che amo componga un lavoro  che narra la figura di John Dee mi ha positivamente sorpreso, riempiendomi di felicità e ammirazione. Questo perché quella di John Dee è stata una figura che in gioventù aveva stimolato la mia curiosità e con questo disco sono tornate alla mente antiche letture, in particolare i saggi di Frances Amelia Yates sull’occultismo elisabettiano o di Panofsky sulla melanconia. Ed è questo che racconta, attraverso la musica, Damon Albarn.

Dee come emblema della nascente idea di nazionalità britannica. Dee come emblema della mutevolezza delle fortune umane. Il progetto è ambizioso ma non eccessivamente  intellettualistico e questo lo salva, facendolo restare a metà strada tra la musica colta contemporanea e il pop. Se vogliamo  potremmo definirlo un disco di un musicista intelligente e ispirato il quale, incuriosito da un personaggio e da un’epoca, cerca di ricrearli attraverso la sua cultura che è eminentemente pop. Intendendo con questo termine tutto ciò che non è classico.

Pur essendo complesso e ricercato, Dr Dee non risulta eccessivamente colto e tanto meno pretenzioso. Albarn, da profano e non da studioso, è rimasto colpito da John Dee, ha letto qualche libro e ha cercato di ricreare una certa atmosfera con i mezzi a sua disposizione, che sono quelli di un musicista pop-rock, supportati dall’intuito e dalla curiosità che lo contraddistinguono.

Il risultato è un concept affascinante, controcorrente e con momenti di alto lirismo.
John Dee in un'incisione di Franz Cleyn, XVII secolo

domenica 6 maggio 2012

PIAZZA FONTANA

ROMANZO DI UNA STRAGE
MARCO TULLIO GIORDANA - 2012



 
Continua la serie  “La Storia d’Italia – L’Età contemporanea” , ad uso scolastico. L’insegnante di Lettere, impegnato per antonomasia, propone in consiglio  “la visione di un film dal forte contenuto civile che ha la finalità di far conoscere agli studenti gli aspetti più inquietanti del nostro passato recente”.
Guardando Romanzo di una strage lo studente capisce ben poco del nostro recente passato. D’accordo, l’intento è didascalico, come dichiara la suddivisione del racconto in capitoletti titolati,  ma i fatti e i personaggi che si intrecciano nella ricostruzione del periodo 1969 – 1972 sono troppi e per chi non abbia vissuto quegli anni risulta decisamente arduo seguire la vicenda. Giordana vuole presentare, anche per flash, il maggior numero possibile di ‘nomi’ coinvolti a vario titolo nel fatto narrato e di fatti,  generando approssimazione e confusione. Ma Giordana è un regista di esperienza e capisce che tra tutte queste comparse deve calcare la mano per dare consistenza ad un plot altrimenti monocorde. A tale scopo dipinge tre agiografie. Calabresi, Pinelli e Moro sono dei santi, anzi, dei santini bidimensionali.
Va anche detto che Romanzo di una strage è, oltre che didascalico e agiografico, anche un film a tesi, quella delle due bombe, avanzata nel libro Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie, 2009) di Paolo Cucchiarelli e recentemente archiviata dalla Procura di Milano come inverosimile e confutata da Adriano Sofri nel libriccino 43 anni (ebook scaricabile), il quale definisce la tesi gratuita ed assurda.
Brevi note di contorno
Calabresi e Pinelli non solo sono santi ma sante sono anche le loro mogli.
Valpreda e Ventura sono macchiette da trasmissione comica televisiva.
Romanzo di una strage più che un film si configura infatti come una fiction per Rai uno.
Moro e Saragat conversano citando Goethe.
Calabresi e Pinelli conversano in libreria citando i saggi della NUE Einaudi.
Milano, pieno centro, cinque del pomeriggio tra gli O’bei O’bei e Natale, deserta come alle due di notte di Ferragosto…