MARGARETHE VON TROTTA
DIE BLEIERNE ZEIT - 1981
Era il 1981 e al festival di Venezia Margarethe Von Trotta vince
il Leone d’oro, in pieno zeitgeist. Il titolo italiano del film, anche se
fuorviante rispetto all’opera della regista tedesca, designerà il più triste
periodo della storia repubblicana.
Il titolo originale, Die Bleierne Zeit, è una citazione dall’elegia
di Hölderlin Der Gang aufs Land, i cui
versi 5 e 6 recitano:
Trüb ists heut, es schlummern die Gäng und die Gassen und fast will /
Mir es scheinen, es sei, als in der bleiernen Zeit.
Torbido
il giorno, sospesi I vicoli e I sentieri e quasi
Mi
sembra come se fossi in un tempo plumbeo
(traduzione
di Eustaki)
Per
la Von Trotta il tempo plumbeo di Hölderlin è il secondo
dopoguerra, gli anni Cinquanta e Sessanta della Repubblica Federale.
Si
parla di terrorismo, ovviamente, ma il terrorismo a cui approdano certi giovani
è una metafora molto complessa della società tedesca. Il centro del film non è
tanto la scelta della lotta armata quanto i rapporti interfamiliari: tra le
sorelle, tra genitori e figli. Rapporti che coinvolgono, ad un livello storico,
i sentimenti che i ‘figli’ nutrono verso la Heimat e il recente passato. Ciò rimanda
inevitabilmente all'Olocausto.
È
significativo che la figlia ribelle a scuola rifiuti i testi poetici ufficiali
e manifesti, in maniera provocatoria, la propria predilezione per la poesia di Paul
Celan, e specificamente, per quella Todesfuge
che tanto imbarazzo aveva creato
nella Germania degli anni Cinquanta. La poesia, espressamente citata nel film,
contiene il celebre verso Der Tod ist ein Meister aus Deutschland, divenuto
slogan dell’antifascismo e dell’anarchismo tedeschi. È attraverso la poesia di
Celan, attraverso le immagini dei documentari sui campi di sterminio che si
devono fare i conti con il passato, con certi maestri, con certi padri.
Anni di piombo scende in questo crogiolo di temi e
non a caso l’inizio e la fine si congiungono attraverso la figura del figlio di
Marianne. Abbandonato dalla madre, passata a vivere in clandestinità,
abbandonato dal padre che sceglie il suicidio, abbandonato dalla zia che
rifiuta la maternità, il piccolo Jan tornerà alla fine, vittima delle colpe dei
genitori e pronto ad incarnare, dopo il proprio sacrificio, e quello di sua
madre (la foto strappata) una nuova generazione di tedeschi, forse riconciliati
con gli orrori della storia.
Il film è ‘pesante’, di piombo come l’atmosfera in
cui Hölderlin si trovava
a passeggiare, pesante come lo è la copia del Cristo ‘riformato’ di Grünewald che si è salvato dalle macerie
della Seconda Guerra Mondiale e terrificava le piccole sorelle, già angosciate
dalle sirene antiaereo e da un padre disumano nella sua applicazione della fede
evangelica ai rapporti familiari (su
temi analoghi, molto più pesante e meno riuscito Il nastro bianco di Haneke).
Nel caso della Von Trotta il peso dei sovrasensi,
anche psicoanalitici, del forte simbolismo e di una lentezza di ripresa ritenuta
necessaria per dare spessore al messaggio di un film d’autore, non riescono a
scalfire l’importanza che Anni di piombo riveste nella filmografia europea
degli ultimi decenni. Anzi proprio queste caratteristiche ne fanno un prodotto
emblematico di un certo momento storico. Niente da fare, Anni di piombo è, nel
bene e nel male, un film epocale.
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Matthias Grunewald, Crocifissione di Basilea, 1501 |