cinema

domenica 26 aprile 2015

TOMMASO LANDOLFI / OSVALDO LICINI

LA PIETRA LUNARE - 1939
AMALASSUNTE - 1945-1950


“Questo è il cantare uterino di una folle” ebbe a dire Montale del romanzo, ancora inedito, che l’amico Tom gli aveva chiesto di leggere. Effettivamente siamo di fronte ad una follia visionaria, ed anche uterina, costruita con la solita ricercata perfezione linguistica di Landolfi, molto vicina alla prosa leopardiana.

Se per la tematica trattata La pietra lunare turbava Montale, figuriamoci l’accoglienza ricevuta presso la comunità letteraria di quei tardi anni Trenta. Landolfi si spinge ben oltre il limite dell’oscenità consentito e la forza del romanzo è ancora oggi stupefacente quanto poco riconosciuta. (non si capisce perché non vengano proposti nelle scuole superiori brani dell’autore di Pico; un racconto come La moglie di Gogol farebbe innamorare gli studenti…).

Il romanzo ha come protagonista Giovancarlo, “studente ormai del second’anno”, che torna al paese di origine per trascorrervi le vacanze estive. Il suo ingresso a casa dello zio è giocato tutto sul registro di un realismo ironico. Vengono messi in evidenza, come attraverso una lente d’ingrandimento, i parenti seduti attorno al tavolo, le loro espressioni, i comportamenti. Landolfi assegna ad ognuno un tic, un’espressione, un atteggiamento che si reiterano nel corso dell’incontro. Emerge così il vuoto della quotidianità ripetitiva che degenera poi, su maliziosa sollecitazione di Giovancarlo, in una ridda feroce fatta di maldicenze e cattiverie.

Giovancarlo, studente e soprattutto poeta, timido e impacciato, non può che sentirsi estraneo all’ambiente paesano, ma proprio quando la serata volge al termine, ecco l’apparizione di Gurù. Ragazza dagli occhi “accesi di riflessi violacei e profondi” che all’istante ammalia lo studente e d’un subito capovolge la situazione stantia, dominata da un “odore pesante d’avanzi di lavatura di piatti e d’insetti domestici”, per aprire ad un nuovo scenario erotico-fantastico nel quale il naufragar sarà dolce.



Dolci e lunari e inquietanti come Gurù le Amalassunte di Osvaldo Licini, il quale così le descrive: “L’Amalassunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco, perdutamente inabissata tra un seno a l’altro come ogni donna “







martedì 21 aprile 2015

SUFJAN STEVENS

CARRIE & LOWELL - 2015



Come nella più classica tradizione lirica, è il dolore che ispira Sufjan Stevens. Dolore causato da una perdita, quella della madre. L’assenza suscita il ricordo, legato a momenti e luoghi precisi. Carrie&Lowell vive di questi momenti ma non solo.

Il fatto più naturale del mondo, la morte, resta in un angolo oscuro, remoto, indefinito, fino a quando non lo sperimentiamo direttamente. Allora il mistero acquisisce la forza della realtà effettuale e impone domande.

Stevens costruisce il suo ultimo album su queste domande che lo portano a confrontarsi con gli elementi della cultura e della spiritualità. Ecco che, oltre alla situazioni del passato, oggettivate nel paesaggio dell’Oregon, si fanno fitti i riferimenti alle Scritture e alla mitologia classica.

Questo materiale, che è sia concreto che intellettuale, viene assimilato e ricomposto da Sufjan Stevens in chiave esistenziale, in testi che hanno un’origine profondamente personale ma che l’autore, con delicata maestria, riesce a rendere universali.


Le liriche esprimono al meglio questo insieme di ispirazione, le musiche e il canto sono perfettamente funzionali alle intenzioni. Ne scaturisce un album che da subito si afferma come un classico della cultura popolare. Carrie&Lowell supera i confini della ‘musica rock’ e allo stesso tempo ne rimane all’interno. Si può dire che risulta essere tra le manifestazioni più rappresentative di un intero genere, tale da costituirne una delle sue forme canoniche.

lunedì 13 aprile 2015

RAND PAUL

PRESIDENZIALI USA - 2016
RAND PAUL


Il 7 aprile Rand Paul ha ufficialmente dichiarato la sua candidatura per le Presidenziali USA del 2016. Lo ha fatto dal Galt House Hotel di Louisville, in Kentucky. I nomi, in questa storia, sono importanti e forse non del tutto casuali. Rand richiama subito alla mente Ayn Rand, la leader dell’Oggettivismo, tanto caro al deputato Ron Paul, padre del neo candidato repubblicano. Ayn Rand è anche l’autrice del più importante long seller americano, quell’Atlas Shrugged il cui protagonista si chiama John Galt, come l’hotel dal quale Rand Paul ha fatto l’annuncio.

Siamo in pieno zona Libertarian, in quell’area sfocata del Partito Repubblicano che, se da un lato flirta con il Tea Party, dall’altro potrebbe anche accostarsi all’ala più radical dei Democratici. E nel suo discorso di candidatura, Rand Paul ha subito messo in chiaro la propria indipendenza e ha criticato sia i Dem che il GOP, denunciando il clima di consorteria bipartisan che regna nel Congresso (“It seems to me that both parties and the entire political system are to blame. Big government and debt doubled under a Republican administration. And it’s now tripling under Barack Obama’s watch”).
Ma il discorso non è stato esaltante. Paul ha parlato molto di sé, della sua esperienza di chirurgo oculista e della sua campagna umanitaria di operazioni oculari in Guatemala. Ha raccontato della sua adolescenza e dei vari lavori fatti quando era studente, dall’imbianchino al giardiniere. E ha affermato che un individuo deve farsi strada nella vita e nella società grazie alle sue forze e all’autostima, qualità che solo il lavoro e l’autosufficienza possono incrementare. Ed ecco citati i suoi figli, che hanno irrobustito la loro formazione e coscienza di sè anche attraverso il lavoro  (“Self-esteem can’t be given; it must be earned. Work is not punishment; work is the reward”).

Poi il mantra dei tre punti fondamentali della sua concezione politica: “justice, opportunity and freedom”, ripetuto varie volte nel corso di un  discorso deludente e poco concreto. Ma capace di infiammare gli accoliti. Senz’altro la raccolta di fondi avrà un buon avvio.

Hillary Clinton, per ora, non ha molto da temere da questo Rand Paul. Ma siamo solo all’inizio, anzi, al pre-inizio e c’è ancora un anno e mezzo prima del novembre 2016. 

sabato 11 aprile 2015

MANDARINI

MANDARIINID / TANGERINES
ZAZA URUSHADZE - 2013


Le dramatis personae sono quattro. Il vecchio Ivo, centro della narrazione e Margus, il proprietario dei mandarini, entrambi estoni; un mercenario ceceno; un soldato georgiano. Luogo dell’azione, una vallata della Georgia, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Situazione di guerra. Comunità in lotta per la terra, in un contesto plurietnico come quello del Caucaso.

I fatti si svolgono tra la casa di Ivo e il vicino agrumeto di Margus, un posto completamente fuori dal tempo e dallo spazio che la nitida fotografia rende suggestivo e quasi favoloso. Verde della vegetazione, marroni del legno e del fango, l’arancio dei mandarini. In questo piccolo mondo semplice e immutabile irrompe la guerra con l’ottusità e le convinzioni dogmatiche che le sono proprie, che fanno di ogni parte in campo quella che è convinta di detenere  ragione e verità assolute.

Tra le quattro persone che sono costrette a convivere nella spoglia casa di Ivo e a dividere il suo povero cibo, si crea, con il passare dei giorni, una certa intimità, che stempera l’odio violento iniziale e si traduce in una scontrosità più di maniera che effettiva. Dopo tutto ognuno deve mantenere la propria posizione dettata dalle differenze di etnia e di religione. Ma la saggezza di Ivo, fatta di ironiche sottolineature e di amabile sarcasmo, impedisce che la situazione degeneri.

Sarà di nuovo la guerra, con le sue incursioni improvvise, a destrutturare l’equilibrio che, tenacemente, il vecchio Ivo stava imponendo.


Sappiamo già che qualcosa andrà storto. Sappiamo anche che il film vuole trasmettere il solito messaggio contro la violenza e la guerra, ma il regista riesce a dosare con leggerezza e grande umanità gli espedienti del racconto. E quando, sui titoli di coda, la macchina da presa si innalza, in campo sempre più esteso, sul paesaggio georgiano all’imbrunire, anche il nostro animo si solleva da terra, felice ed emozionato per aver visto questo film.



domenica 5 aprile 2015

GEORGES SIMENON

L'UOMO DI LONDRA, 1933





Louis Maloin è addetto agli scambi alla stazione marittima di Dieppe, dove

attraccano i traghetti che provengono dall’Inghilterra. Fa il turno di notte

e la sua vita segue, al minuto, lo stesso ritmo da anni.

“Avevano cenato alle sette, come al solito”. 
 
“La sera quando usciva, sempre alla stessa ora, esattamente alle otto meno sei…”.
“Alle otto meno due minuti passava davanti alla stazione. Alle otto meno un minuto saliva la scala che lo portava al suo gabbiotto. Era un posto davvero piacevole, il miglior punto di osservazione di tutta la città”.

“Di solito andava a letto subito dopo mangiato, si alzava verso le due”.
“Di solito, quando rientrava, mangiava un piatto di carne e un po’ di patate riscaldate, ma stavolta…”.
“Cercò di dormire come gli altri giorni, ma dopo neppure un’ora si alzò”.
“Di solito Maloin non si vestiva per il pranzo. Ma questa volta comparve sulla soglia della cucina con l’abito della domenica”.

Con questi semplici mezzi espressivi, Simenon manifesta l’essenza del romanzo. La ripetitività esistenziale (“al solito”, l’ora esatta) e l’evento che interrompe il corso scandito della quotidianità (“ma stavolta”). Ai quali si aggiunge il “punto di osservazione”, vero stilema del romanzo, che viene raccontato ‘visivamente’.

Gli accadimenti, specie nella prima metà del libro, la migliore, sono visti. Simenon conduce la narrazione secondo un procedimento che è filmico. Dalla cabina di Maloin lo sguardo spazia sulle banchine del porto, sulla stazione, sulla città. Ma la genialità dello scrittore belga sta nel fatto che le scene più importanti avvengono di notte e con la nebbia. Quindi si vedono e non si vedono. E quando non si riescono a vedere, si odono, attraverso i rumori, le voci, le sirene. C’è, inoltre, un momento importante del racconto, in cui non volendo far vedere, si crea uno schermo di vapore che appanna i vetri “del miglior punto di osservazione della città”, rendendo impossibile la visione.

La seconda parte del romanzo è forse meno coinvolgente, ma ha il pregio di anticipare certe situazioni che Camus avrebbe narrato ne Lo straniero qualche anno più tardi. Come Meursault anche Maloin si fa trascinare dagli eventi e dal caso. “Quel che più lo irritava era che le cose sarebbero potute andare diversamente. Tutto era dipeso da una serie di circostanze.”
Anche ne L’uomo di Londra c’è un avvocato assegnato d’ufficio che afferma: “Mi permetto di dirle che non ne ha imbroccata una”. E anche per Maloin come per Meursault: “Tutti sono d’accordo nel giudicare rivoltante il suo cinismo”.

Ovviamente, non si tratta di cinismo, ma questo lo sappiamo noi, Maloin e Simenon.