LA GIUSTA DISTANZA
CARLO MAZZACURATI – 2007
Il Veneto è il nuovo modello per l’integrazione degli immigrati. In paese sono tutti gentili, la comunità è aperta e per la festa in piazza il momento clou è il ballo tradizionale tunisino…
Il punto di vista è quello dell’adolescente che gioca a fare il giornalista e che diventerà un infallibile detective riuscendo a scoprire i vizi della giustizia italiana(figuriamoci!) e dà lezioni di giornalismo etico e buonista al cinico ‘maestro’. Tale senso di rispetto umano e poi entra nelle mail altrui senza tanti scrupoli. Non solo, ma il ragazzo farà carriera e riuscirà a scrivere su un foglio nazionale.
Errori di script a volontà per questo apprezzato(?!) film del perenne emergente Mazzacurati: la password bella scritta su un post it – ma quando mai?; la giovane maestrina di notte nella casa solitaria fa striptease davanti alla finestra illuminata, manco fossimo ad Amsterdam anziché in pieno Polesine; l’immigrato malinconico non parla: sussurra frasi ad alto contenuto poetico e usa correttamente ‘le’ per ‘a lei’. A proposito di linguaggio, i dialoghi tra innamorati sembrano suggeriti da Cioè.
I personaggi sono approssimativi se non vere e proprie macchiette. Già citati il ragazzo, l’immigrato e la maestra, il massimo si tocca nelle figure corollari: lo spaccone che sposa la rumena scelta sul catalogo on line e offre vacanze a Sharm el Sheikh; la pazza che va in traghetto notturno sul Po; il redattore con occhiali e capello bianco che pranza a panini al bar; l’avvocato che giudica per luoghi comuni e pregiudizi.
Mazzacurati ce la mette tutta per fare un film sommesso, delicato e ‘sociale’, un affresco dell’Italia contemporanea. Il risultato è fallimentare, attori compresi.
martedì 28 settembre 2010
domenica 26 settembre 2010
FLAVIO GIURATO
IL MANUALE DEL CANTAUTORE
FLAVIO GIURATO – 2007
Progetto che in una prima stesura esce nel 2002, poi rivisitato nella versione definitiva del 2007, il manuale mette fine ad un silenzio ufficiale di una ventina di anni. L’ultimo lavoro in studio risaliva infatti al 1984 e Il tuffatore, disco tra i più belli dell’intera produzione musicale italiana, è del 1982. L’uscita è stata salutata con un sentito ‘finalmente!’ e con molta curiosità.
Giurato è bravo, assolutamente fuori dal circuito mediatico ma anche da quello promozionale-distributivo. Siamo di fronte ad un cantautore –fa quasi impressione scrivere questa parola che sprigiona sentore di naftalina– e musicista di grande talento che non ha trovato il giusto canale comunicativo per farsi apprezzare.
Il fatto è che non era in sincrono con lo spirito dei tempi. Troppo avanti trent’anni fa, risulta essere fuori dal coro oggi.
Il manuale è un bel disco, forse un po’ datato e non perfettamente equilibrato ma coraggioso. Le impressione immediate lo connettono al migliore De Gregori ma più sorprendente, o a un Rino Gaetano meno scanzonato e più meditato. Il disco ha momenti veramente notevoli. Si parte dall’iniziale, ostinata traccia d’apertura che si chiude con una imprevista e gradita trovata metacompositiva. Si succedono altri episodi dove affiora una dimensione sociale, impegnata, legata anche al fatto di cronaca. Il caso Nesta, Centocelle, Silvia Baraldini, Ustica, alcuni titoli non tra i momenti migliori dell’album. C’è una dolce canzone d’amore in napoletano con bella voce femminile in appoggio e poi ci sono due colpi di genio.
La Giulia bianca, dedicata a Pasolini, con un testo che è un tuffo negli anni settanta (“La ruota gommata schiaccia e torce il corpo del poeta ucciso/
Ruota gommata schiaccia e torce il corpo di Pierpaolo irriso/Danno il “Vangelo”in bianco e nero/ In una sala parrocchiale di periferia”) e quel ritornello che gioca con le precedenti immagini di compagni in lotta, Togliatti e Piazza San Giovanni: “Guarda bambina, c’è il mare mosso/Bandiera rossa, bandiera rossa, bandiera rossa”, straniante e straordinariamente icastico.
E “La tentazione” con un coro che intona, quasi in senso liturgico “prega Gesù e Maria” difficile da digerire per un ateo non devoto ma che emoziona con le aperture melodiche della partitura e con un testo di grande suggestione e vengono in mente, associazione ‘alta’, certo, alcune immagini à la Rimbaud.
FLAVIO GIURATO – 2007
Progetto che in una prima stesura esce nel 2002, poi rivisitato nella versione definitiva del 2007, il manuale mette fine ad un silenzio ufficiale di una ventina di anni. L’ultimo lavoro in studio risaliva infatti al 1984 e Il tuffatore, disco tra i più belli dell’intera produzione musicale italiana, è del 1982. L’uscita è stata salutata con un sentito ‘finalmente!’ e con molta curiosità.
Giurato è bravo, assolutamente fuori dal circuito mediatico ma anche da quello promozionale-distributivo. Siamo di fronte ad un cantautore –fa quasi impressione scrivere questa parola che sprigiona sentore di naftalina– e musicista di grande talento che non ha trovato il giusto canale comunicativo per farsi apprezzare.
Il fatto è che non era in sincrono con lo spirito dei tempi. Troppo avanti trent’anni fa, risulta essere fuori dal coro oggi.
Il manuale è un bel disco, forse un po’ datato e non perfettamente equilibrato ma coraggioso. Le impressione immediate lo connettono al migliore De Gregori ma più sorprendente, o a un Rino Gaetano meno scanzonato e più meditato. Il disco ha momenti veramente notevoli. Si parte dall’iniziale, ostinata traccia d’apertura che si chiude con una imprevista e gradita trovata metacompositiva. Si succedono altri episodi dove affiora una dimensione sociale, impegnata, legata anche al fatto di cronaca. Il caso Nesta, Centocelle, Silvia Baraldini, Ustica, alcuni titoli non tra i momenti migliori dell’album. C’è una dolce canzone d’amore in napoletano con bella voce femminile in appoggio e poi ci sono due colpi di genio.
La Giulia bianca, dedicata a Pasolini, con un testo che è un tuffo negli anni settanta (“La ruota gommata schiaccia e torce il corpo del poeta ucciso/
Ruota gommata schiaccia e torce il corpo di Pierpaolo irriso/Danno il “Vangelo”in bianco e nero/ In una sala parrocchiale di periferia”) e quel ritornello che gioca con le precedenti immagini di compagni in lotta, Togliatti e Piazza San Giovanni: “Guarda bambina, c’è il mare mosso/Bandiera rossa, bandiera rossa, bandiera rossa”, straniante e straordinariamente icastico.
E “La tentazione” con un coro che intona, quasi in senso liturgico “prega Gesù e Maria” difficile da digerire per un ateo non devoto ma che emoziona con le aperture melodiche della partitura e con un testo di grande suggestione e vengono in mente, associazione ‘alta’, certo, alcune immagini à la Rimbaud.
venerdì 24 settembre 2010
TAKESHI KITANO
BROTHER
TAKESHI KITANO - 2000
“Non è un film di gangsters”, dice il boss giapponese: è un film in cui degli “sporchi negri si uniscono a dei fottuti giapponesi” secondo un ispanico.
È un film in cui vengono fatti fuori dei messicani e gli italiani fanno fuori i giapponesi. È un film sull’America e sul confronto tra Oriente ed Occidente. Gli interessi che fanno girare il mondo sporco sono sempre gli stessi: denaro, bande criminali, cerimoniali. Ogni etnia ha i suoi rituali ma la sostanza non cambia. Ciò che invece costituisce una profonda differenza è la considerazione che si ha della propria vita e il conseguente rapporto con la morte. Nel sistema di valori orientale la vita è costantemente messa in gioco come bene sommo che serve a far valere la parola di uomo. La vita si offre per un amico, per affermare la propria dignità.
Tutto il vissuto di Aniki in America (interpretato dallo stesso Kitano) non è che l’azione di un morto. Aniki è stato condannato e si è svolta la sua esecuzione. Consapevole di questa condizione affronta ogni situazione senza il minimo senso del pericolo. Con la sua spregiudicatezza Aniki innesca la miccia che porterà ad una catena di esplosioni sempre maggiori, fino alle inevitabile conseguenze. Ma il destino era segnato già dal principio.
In questo rigoroso snodarsi della storia e fuori dai rituali di facciata trova spazio il vincolo di ‘fratellanza’ che può affermarsi anche tra uno sporco negro e un fottuto giapponese. Kitano fa un film di genere (Brother è un film di gangsters, nonostante la boutade) ma parla un linguaggio più profondo.
Fotografia luminosa, ambienti puliti, quasi asettici con gli ormai obbligatori inserti gore (esemplificativa la scena del seppuku con intestini penzolanti), codice comunicativo ridotto ai minimi termini per una società in fase regressiva.
TAKESHI KITANO - 2000
“Non è un film di gangsters”, dice il boss giapponese: è un film in cui degli “sporchi negri si uniscono a dei fottuti giapponesi” secondo un ispanico.
È un film in cui vengono fatti fuori dei messicani e gli italiani fanno fuori i giapponesi. È un film sull’America e sul confronto tra Oriente ed Occidente. Gli interessi che fanno girare il mondo sporco sono sempre gli stessi: denaro, bande criminali, cerimoniali. Ogni etnia ha i suoi rituali ma la sostanza non cambia. Ciò che invece costituisce una profonda differenza è la considerazione che si ha della propria vita e il conseguente rapporto con la morte. Nel sistema di valori orientale la vita è costantemente messa in gioco come bene sommo che serve a far valere la parola di uomo. La vita si offre per un amico, per affermare la propria dignità.
Tutto il vissuto di Aniki in America (interpretato dallo stesso Kitano) non è che l’azione di un morto. Aniki è stato condannato e si è svolta la sua esecuzione. Consapevole di questa condizione affronta ogni situazione senza il minimo senso del pericolo. Con la sua spregiudicatezza Aniki innesca la miccia che porterà ad una catena di esplosioni sempre maggiori, fino alle inevitabile conseguenze. Ma il destino era segnato già dal principio.
In questo rigoroso snodarsi della storia e fuori dai rituali di facciata trova spazio il vincolo di ‘fratellanza’ che può affermarsi anche tra uno sporco negro e un fottuto giapponese. Kitano fa un film di genere (Brother è un film di gangsters, nonostante la boutade) ma parla un linguaggio più profondo.
Fotografia luminosa, ambienti puliti, quasi asettici con gli ormai obbligatori inserti gore (esemplificativa la scena del seppuku con intestini penzolanti), codice comunicativo ridotto ai minimi termini per una società in fase regressiva.
mercoledì 22 settembre 2010
THE XX
XX - 2009
THE XX
Eccoli i new kids in town, freschi vincitori del prestigioso Mercury Prize categoria best album 2009, The XX, dalla Londra post credit crunch, dalle ovazioni dei critici musicali del Guardian che affermano: ”Un album con un’inclinatura psicogeografica in cui si legano l’amore e gli ambienti. I sontuosi intrecci vocali tra Romy Madley Croft e Oliver Sim fanno credere a stento che si tratti solo di un rapporto tra amici d’infanzia. Allo stesso tempo le solitarie frasi di chitarra che tengono insieme il sound provengono dalle tenebre, perfettamente evocative di una Londra notturna”.
Si tratta semplicemente di un easy-indie molto anni ’80 con una voce femminile da collocarsi tra una Nico molto meno ispirata (hanno citato i Velvet!!!) e una Tracy Thorn più sfiatata e per il maschietto un Ben Watt con la zeppola. Il suono mescola un basso alla J.J. Burnel con chitarre liquide alla New Order e una ritmica tra i Bronski Beat e qualche band dance oriented tra Bristol e Sheffield.
Tutto molto corretto, lineare e orecchiabile. Si direbbe irresistibile. I motivi sono godibilissimi ma il tutto sa di già sentito e non c’è un brano che si affermi con prepotenza come pietra miliare. Il disco è musicalmente monotono e forse proprio per questo, dopo 11 tracce sovrapponibili tra loro riescono a definire una propria cifra stilistica. Si riconoscono, insomma, ma da qui a parlare di capolavoro assoluto ce ne corre. Dopo alcune celebrate bufale come i Vampire Weekend, gli Avi Buffalo e l’ultimo modestissimo Arcade Fire, concediamo agli XX fiducia aspettandoli al varco del secondo, sempre problematico, disco.
THE XX
Eccoli i new kids in town, freschi vincitori del prestigioso Mercury Prize categoria best album 2009, The XX, dalla Londra post credit crunch, dalle ovazioni dei critici musicali del Guardian che affermano: ”Un album con un’inclinatura psicogeografica in cui si legano l’amore e gli ambienti. I sontuosi intrecci vocali tra Romy Madley Croft e Oliver Sim fanno credere a stento che si tratti solo di un rapporto tra amici d’infanzia. Allo stesso tempo le solitarie frasi di chitarra che tengono insieme il sound provengono dalle tenebre, perfettamente evocative di una Londra notturna”.
Si tratta semplicemente di un easy-indie molto anni ’80 con una voce femminile da collocarsi tra una Nico molto meno ispirata (hanno citato i Velvet!!!) e una Tracy Thorn più sfiatata e per il maschietto un Ben Watt con la zeppola. Il suono mescola un basso alla J.J. Burnel con chitarre liquide alla New Order e una ritmica tra i Bronski Beat e qualche band dance oriented tra Bristol e Sheffield.
Tutto molto corretto, lineare e orecchiabile. Si direbbe irresistibile. I motivi sono godibilissimi ma il tutto sa di già sentito e non c’è un brano che si affermi con prepotenza come pietra miliare. Il disco è musicalmente monotono e forse proprio per questo, dopo 11 tracce sovrapponibili tra loro riescono a definire una propria cifra stilistica. Si riconoscono, insomma, ma da qui a parlare di capolavoro assoluto ce ne corre. Dopo alcune celebrate bufale come i Vampire Weekend, gli Avi Buffalo e l’ultimo modestissimo Arcade Fire, concediamo agli XX fiducia aspettandoli al varco del secondo, sempre problematico, disco.
martedì 21 settembre 2010
AL CINQUALE
CORRISPONDENZE
CARLO CARRA' - La foce del Cinquale - 1928
ALFONSO GATTO, La foce del Cinquale
Sotto l'apparenza del volto -convinta, ostinata-
scava la storia e può comprenderne il soffio:
solo un mondo che ha in sé
la sua compiuta adorazione di oggetto
resta a vedersi passare,
e di quanto è visibile si fa tutto interiore.
Così passa La foce del Cinquale
infinita pittura, tragica d'amore assoluto e durevole
LEWIS EINSTEIN, Sulla Linea Gotica al Cinquale,
Si combatteva e si moriva sulla nuda sabbia
Dove un fiume stento corre incontro al mare
Ora cresce un’erba invadente
Come se la natura risentita
Avesse riscattato la propria terra data in pegno
Resta, isolato e in rovine, il vecchio forte
Sui muri a brandelli parole slavate dalla pioggia invernale
Per me dovete combattere credere obbedire
Sono il vostro duce ho sempre ragione
Edificherò per voi l’impero orientale
Otto milioni di baionette rispondono alla chiamata
Anch’egli che spronò fiacchi schiavi alla lotta
Dimenticava che al festino di Baltasar
Un profeta divinò le parole scritte sul muro.
CARRA' GATTO EINSTEIN
CARLO CARRA' - La foce del Cinquale - 1928
ALFONSO GATTO, La foce del Cinquale
Sotto l'apparenza del volto -convinta, ostinata-
scava la storia e può comprenderne il soffio:
solo un mondo che ha in sé
la sua compiuta adorazione di oggetto
resta a vedersi passare,
e di quanto è visibile si fa tutto interiore.
Così passa La foce del Cinquale
infinita pittura, tragica d'amore assoluto e durevole
LEWIS EINSTEIN, Sulla Linea Gotica al Cinquale,
Si combatteva e si moriva sulla nuda sabbia
Dove un fiume stento corre incontro al mare
Ora cresce un’erba invadente
Come se la natura risentita
Avesse riscattato la propria terra data in pegno
Resta, isolato e in rovine, il vecchio forte
Sui muri a brandelli parole slavate dalla pioggia invernale
Per me dovete combattere credere obbedire
Sono il vostro duce ho sempre ragione
Edificherò per voi l’impero orientale
Otto milioni di baionette rispondono alla chiamata
Anch’egli che spronò fiacchi schiavi alla lotta
Dimenticava che al festino di Baltasar
Un profeta divinò le parole scritte sul muro.
Da 'Versi sparsi' 1949. Traduzione di Eustaki
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domenica 19 settembre 2010
INGEBORG BACHMANN
IL TRENTESIMO ANNO – 1961
INGEBORG BACHMANN
Protagonista della vita culturale austriaca del secondo dopoguerra, Ingeborg Bachmann fa parte del consistente gruppo di intellettuali che vive con angoscia e sulla propria pelle il fatto di essere austriaco.
Non toccata da nostalgie imperiali, anche per motivi anagrafici, essendo nata a Klagenfurt nel 1926, Bachmann cresce in un’ Austria-guscio di noce in cui si succedono grandi eventi traumatici: l’anschluss, il nazismo, la guerra, l’occupazione alleata.
Anche se immediatamente riconosciuta come figura di spicco dell’ambiente letterario viennese, entro i confini del suo Paese Bachmann sviluppa un forte senso di frustrazione e cercherà di sdoppiare la propria vita vivendo a Roma, in una sorta di esilio autoimposto.
“Amo Vienna perché vivo a Roma” e l’idea di esilio torna in molti suoi scritti, condivisa fino alla morte, nel 1973, con l’altra grande voce della poesia tedesca, Paul Celan, ‘esule’ a Parigi.
Dalle prime fondamentali esperienze in versi, subito acclamati da critica e pubblico, Bachmann, raggiunta “l’età della ragione” sceglie la prosa. Del 1961 è questa raccolta di racconti nei quali si fondono elementi autobiografici, spunti filosofici, inquietudini esistenziali. La lingua di Bachmann è viva, sofferta, lucidissima nella sua capacità di penetrare nella psicologia dei vari personaggi: le basta pochissimo, giusto la dimensione del racconto per definire un carattere. Esemplare in tal senso la straordinaria galleria di comparse in ‘Tra pazzi e assassini’. E magistrale è il procedimento letterario usato per sviluppare la presa di coscienza di tutta una vita da parte del protagonista di ‘Un Wildermuth’.
L’autobiografia è più evidente in ‘Giovinezza in una città austriaca’ o nel racconto che dà il titolo alla raccolta, con l’espediente di far vivere le proprie esperienze di vita ad un personaggio maschile, con tutti i conseguenti slittamenti psicologici tra realtà e finzione, sempre ponendo al centro dell’indagine la conquista di una verità che sfugge.
INGEBORG BACHMANN
Max Beckmann Autoritratto - 1937 |
Non toccata da nostalgie imperiali, anche per motivi anagrafici, essendo nata a Klagenfurt nel 1926, Bachmann cresce in un’ Austria-guscio di noce in cui si succedono grandi eventi traumatici: l’anschluss, il nazismo, la guerra, l’occupazione alleata.
Anche se immediatamente riconosciuta come figura di spicco dell’ambiente letterario viennese, entro i confini del suo Paese Bachmann sviluppa un forte senso di frustrazione e cercherà di sdoppiare la propria vita vivendo a Roma, in una sorta di esilio autoimposto.
“Amo Vienna perché vivo a Roma” e l’idea di esilio torna in molti suoi scritti, condivisa fino alla morte, nel 1973, con l’altra grande voce della poesia tedesca, Paul Celan, ‘esule’ a Parigi.
Dalle prime fondamentali esperienze in versi, subito acclamati da critica e pubblico, Bachmann, raggiunta “l’età della ragione” sceglie la prosa. Del 1961 è questa raccolta di racconti nei quali si fondono elementi autobiografici, spunti filosofici, inquietudini esistenziali. La lingua di Bachmann è viva, sofferta, lucidissima nella sua capacità di penetrare nella psicologia dei vari personaggi: le basta pochissimo, giusto la dimensione del racconto per definire un carattere. Esemplare in tal senso la straordinaria galleria di comparse in ‘Tra pazzi e assassini’. E magistrale è il procedimento letterario usato per sviluppare la presa di coscienza di tutta una vita da parte del protagonista di ‘Un Wildermuth’.
L’autobiografia è più evidente in ‘Giovinezza in una città austriaca’ o nel racconto che dà il titolo alla raccolta, con l’espediente di far vivere le proprie esperienze di vita ad un personaggio maschile, con tutti i conseguenti slittamenti psicologici tra realtà e finzione, sempre ponendo al centro dell’indagine la conquista di una verità che sfugge.
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venerdì 17 settembre 2010
CHRISTOPHER NOLAN
INCEPTION
CHRISTOPHER NOLAN - 2010
Nel suo percorso ‘autoriale’ Nolan continua a costruire depistaggi, film in cui lo spettatore si smarrisce fra le molteplicità del reale e si disorienta nella labilità dei confini fra sogno e realtà, tra sogno e sogno, tra vissuto e immaginato.
In Inception, come già in Memento, lo smarrimento si eleva e potenza e nella successione di scenari che, come scatole cinesi si aprono e si chiudono continuamente, lo spettatore si perde, non avendo a disposizione il totem come filo di Arianna per labirinti visionari. Dapprima si cerca di capire, si vuole mantenere piena capacità di discernere, poi ci si accorge che è meglio stare al gioco ed entrare nel sogno, nei sogni, nel limbo.
La struttura di Inception è molto complessa. Si svolgono contemporaneamente diverse storie. C’è la cornice in cui Cobb/Dicaprio riceve un incarico di “hackeraggio psicologico” in un contesto di scontro fra mega corporation. Come frame work, abbastanza semplice. Semplici, quasi banali, anche i nodi psiconarrativi al centro del film: due drammi familiari ad alta conflittualità moglie/marito, padre/figlio con senso di colpa (disappointed e guilty le parole-chiave). Poi c’è il sogno, che non è un sogno normale ma un sogno alla terza, o meglio, un sogno alla quarta perché c’è anche il limbo, un ultra sogno. No anzi, alla quinta perché c’è l’ inception-antefactum o proiezione del/nel subconscio. E ci sono diverse durate, nel senso di scansioni temporali, ognuna diversa per ogni livello di sogno.
Nolan, come in Memento, vuole fare troppo. Il film ha momenti affascinanti come il sogno del rapimento o l’idea del totem per capire quale “realtà” delle molte parallele si stia vivendo. Ma nel complesso c’è molta confusione, anche cinematografica: si mescolano Blade Runner, Citizen Kane, 2001, Matrix, James Bond. Gondry, Harry Potter, Schwarzenegger e Avatar!
L’ultima sequenza prima del fondo nero dei titoli di coda è un colpo basso. O forse no? Rivedere il finale de Il falcone maltese in cui Bogart cita Shakespeare. Ma quello è un altro film.
CHRISTOPHER NOLAN - 2010
Nel suo percorso ‘autoriale’ Nolan continua a costruire depistaggi, film in cui lo spettatore si smarrisce fra le molteplicità del reale e si disorienta nella labilità dei confini fra sogno e realtà, tra sogno e sogno, tra vissuto e immaginato.
In Inception, come già in Memento, lo smarrimento si eleva e potenza e nella successione di scenari che, come scatole cinesi si aprono e si chiudono continuamente, lo spettatore si perde, non avendo a disposizione il totem come filo di Arianna per labirinti visionari. Dapprima si cerca di capire, si vuole mantenere piena capacità di discernere, poi ci si accorge che è meglio stare al gioco ed entrare nel sogno, nei sogni, nel limbo.
La struttura di Inception è molto complessa. Si svolgono contemporaneamente diverse storie. C’è la cornice in cui Cobb/Dicaprio riceve un incarico di “hackeraggio psicologico” in un contesto di scontro fra mega corporation. Come frame work, abbastanza semplice. Semplici, quasi banali, anche i nodi psiconarrativi al centro del film: due drammi familiari ad alta conflittualità moglie/marito, padre/figlio con senso di colpa (disappointed e guilty le parole-chiave). Poi c’è il sogno, che non è un sogno normale ma un sogno alla terza, o meglio, un sogno alla quarta perché c’è anche il limbo, un ultra sogno. No anzi, alla quinta perché c’è l’ inception-antefactum o proiezione del/nel subconscio. E ci sono diverse durate, nel senso di scansioni temporali, ognuna diversa per ogni livello di sogno.
Nolan, come in Memento, vuole fare troppo. Il film ha momenti affascinanti come il sogno del rapimento o l’idea del totem per capire quale “realtà” delle molte parallele si stia vivendo. Ma nel complesso c’è molta confusione, anche cinematografica: si mescolano Blade Runner, Citizen Kane, 2001, Matrix, James Bond. Gondry, Harry Potter, Schwarzenegger e Avatar!
L’ultima sequenza prima del fondo nero dei titoli di coda è un colpo basso. O forse no? Rivedere il finale de Il falcone maltese in cui Bogart cita Shakespeare. Ma quello è un altro film.
mercoledì 15 settembre 2010
ALBERT CAMUS
LO STRANIERO
ALBERT CAMUS - 1940
Nella seconda parte di questo romanzo senza fede, quando è chiara la direzione che ha preso la vicenda, Camus ripete in modo insistito alcune parole: caso, meccanica/meccanismo, macchina.
Come il meccanismo della punizione non contempla fallimento così il volgere dei fatti non può che condurre Meursault a quell'esito che ogni più piccolo evento ha concorso a determinare. L’étranger è una macchina, un meccanismo che una volta innescato procede inevitabilmente verso la sua conclusione. Ha allora un suo ruolo ‘casuale’ e ‘causale’ un caffè bevuto, una sigaretta fumata, la visione di un film e quale film, una lettera scritta, una frase detta o non detta.
In questo ordigno inesorabile che è la vita, non ci sono valori: niente vale per la conquista della salvezza quando non c’è salvezza. Non Dio, non la Storia, non la Verità.
E si capisce perché Camus abbia preso le distanze da Sartre e dal comunismo e come la gauche engagée lo abbia a sua volta tenuto a distanza.
Lo straniero non è un romanzo esistenzialista. Meursault è felice nel suo vivere entro i confini del proprio essere. Gusta il piacere della sera estiva, dell’amore, del mare; offre amicizia e conforto sinceri.
Ma Meursault è colpevole e la giustizia, con le sue finzioni al servizio della verità, deve fare il suo corso. Camus costruisce un monumento all’uomo moderno, all’uomo normale, come si definisce lo stesso protagonista, costruisce un romanzo perfetto che lascia un’impronta profonda anche se amara.
ALBERT CAMUS - 1940
edizione francese con copertina di De Stael |
Nella seconda parte di questo romanzo senza fede, quando è chiara la direzione che ha preso la vicenda, Camus ripete in modo insistito alcune parole: caso, meccanica/meccanismo, macchina.
Come il meccanismo della punizione non contempla fallimento così il volgere dei fatti non può che condurre Meursault a quell'esito che ogni più piccolo evento ha concorso a determinare. L’étranger è una macchina, un meccanismo che una volta innescato procede inevitabilmente verso la sua conclusione. Ha allora un suo ruolo ‘casuale’ e ‘causale’ un caffè bevuto, una sigaretta fumata, la visione di un film e quale film, una lettera scritta, una frase detta o non detta.
In questo ordigno inesorabile che è la vita, non ci sono valori: niente vale per la conquista della salvezza quando non c’è salvezza. Non Dio, non la Storia, non la Verità.
E si capisce perché Camus abbia preso le distanze da Sartre e dal comunismo e come la gauche engagée lo abbia a sua volta tenuto a distanza.
Lo straniero non è un romanzo esistenzialista. Meursault è felice nel suo vivere entro i confini del proprio essere. Gusta il piacere della sera estiva, dell’amore, del mare; offre amicizia e conforto sinceri.
Ma Meursault è colpevole e la giustizia, con le sue finzioni al servizio della verità, deve fare il suo corso. Camus costruisce un monumento all’uomo moderno, all’uomo normale, come si definisce lo stesso protagonista, costruisce un romanzo perfetto che lascia un’impronta profonda anche se amara.
mercoledì 8 settembre 2010
MICHAEL HANEKE
IL NASTRO BIANCO
MICHAEL HANEKE - 2009
Grandi apprezzamenti per Il nastro bianco ma Haneke continua a non convincere pienamente. Le idee ci sono eppure finora non ha ancora realizzato un capolavoro riuscendo a ‘sbagliare’ con errori più o meno gravi film che promettevano bene. Anche in questo film vengono proposti diversi spunti interessanti che poi, nell’insieme dell’opera, non trovano un equilibrio confermando perplessità sull’effettivo talento del regista.
Il nastro bianco è un film a tesi, quasi un saggio storico-antropologico che ha l’ambizione di spiegare l’origine del Nazismo nel popolo tedesco. La voce fuori campo del narratore dichiara, quasi epigrafe in esergo, lo scopo di ciò che verrà raccontato.
“Non so se la storia che voglio raccontarvi corrisponda a verità in tutti i suoi dettagli. Molte sono le parti che conosco solo per sentito dire e ancora oggi, dopo tanti anni, ci sono misteri rimasti insoluti e numerose domande rimaste senza risposta. Tuttavia, penso sia mio dovere raccontare le strane vicende accadute nel nostro villaggio perché esse potrebbero, in parte, chiarire alcuni processi maturati nel nostro Paese”.
E subito affiorano dubbi: l’intento di spiegare, in parte, i processi storici attraverso vicende che non si sa se siano vere, sapute per sentito dire, rimaste senza risposta. Se si vuole essere rigorosi e sviluppare temi così pretenziosi, tale incipit è di una ingenuità che predispone negativamente lo spettatore nei confronti di ciò che seguirà. Poi, dopo la dichiarazione d’intenti, il bianco e nero e l’ambientazione fanno scattare immediatamente il riferimento stilistico, quasi calco, di Haneke: Il nastro bianco è troppo Bergman.
E veniamo al film. Tre le cornici entro le quali si svolgono i fatti: le microstorie individuali, la storia comunitaria del villaggio, la Grande Storia.
Siamo nella Germania del Nord, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale in una comunità contadina luterana caratterizzata da rapporti quasi feudali. I protagonisti sono le figure sociali standard del villaggio: il Barone, il Pastore, il Dottore, il Contadino, il Maestro-narratore (non poteva essere altrimenti, è l’intellettuale che racconta e argomenta tesi).
Ogni figura è al centro di una sfera di relazioni funzionalmente ben delimitata che sfiora e a volte compenetra quella degli altri. Sempre presente la comunità la quale oltre che sfondo assurge a protagonista del film assieme agli altri personaggi/ruoli.
Il tempo filmico è scandito da eventi personali come la caduta del Dottore, l’incontro del Maestro con Eva, la morte della moglie del Contadino, eccetera; da eventi collettivi quali il raccolto, la festa, le funzioni religiose, le ricerche degli scomparsi, l’incendio; dalle date della Storia: omicidio di Sarajevo, la dichiarazione di guerra.
Haneke cerca in tutti i modi di sottolineare la violenza e le aberrazioni che fondano e formano le relazioni interpersonali, la famiglia, l’intera nazione che porta così a crescere una generazione malata - il gruppo dei ragazzi del film – che sarà la base della Germania nazista.
Baronessa: “Io vado via da qui per evitare ai figli di crescere in un ambiente dominato da malignità, invidia, stupidità e brutalità. Ne ho abbastanza di prepotenze, di minacce, di perverse vendette”.
Troppo semplicistico.
Il finale rimane aperto. Si dirà che questo è funzionale all’alto profilo seguito, che nelle vicende umane non si danno risposte certe (e ciò sarebbe in contraddizione con il rigido determinismo adottato) ma potrebbe essere dovuto all’incapacità di chiudere il film. Si conferma comunque l’impressione che Haneke sia un regista che manchi dei mezzi per raggiungere i troppo elevati obiettivi prefissi.
MICHAEL HANEKE - 2009
Grandi apprezzamenti per Il nastro bianco ma Haneke continua a non convincere pienamente. Le idee ci sono eppure finora non ha ancora realizzato un capolavoro riuscendo a ‘sbagliare’ con errori più o meno gravi film che promettevano bene. Anche in questo film vengono proposti diversi spunti interessanti che poi, nell’insieme dell’opera, non trovano un equilibrio confermando perplessità sull’effettivo talento del regista.
Il nastro bianco è un film a tesi, quasi un saggio storico-antropologico che ha l’ambizione di spiegare l’origine del Nazismo nel popolo tedesco. La voce fuori campo del narratore dichiara, quasi epigrafe in esergo, lo scopo di ciò che verrà raccontato.
“Non so se la storia che voglio raccontarvi corrisponda a verità in tutti i suoi dettagli. Molte sono le parti che conosco solo per sentito dire e ancora oggi, dopo tanti anni, ci sono misteri rimasti insoluti e numerose domande rimaste senza risposta. Tuttavia, penso sia mio dovere raccontare le strane vicende accadute nel nostro villaggio perché esse potrebbero, in parte, chiarire alcuni processi maturati nel nostro Paese”.
E subito affiorano dubbi: l’intento di spiegare, in parte, i processi storici attraverso vicende che non si sa se siano vere, sapute per sentito dire, rimaste senza risposta. Se si vuole essere rigorosi e sviluppare temi così pretenziosi, tale incipit è di una ingenuità che predispone negativamente lo spettatore nei confronti di ciò che seguirà. Poi, dopo la dichiarazione d’intenti, il bianco e nero e l’ambientazione fanno scattare immediatamente il riferimento stilistico, quasi calco, di Haneke: Il nastro bianco è troppo Bergman.
E veniamo al film. Tre le cornici entro le quali si svolgono i fatti: le microstorie individuali, la storia comunitaria del villaggio, la Grande Storia.
Siamo nella Germania del Nord, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale in una comunità contadina luterana caratterizzata da rapporti quasi feudali. I protagonisti sono le figure sociali standard del villaggio: il Barone, il Pastore, il Dottore, il Contadino, il Maestro-narratore (non poteva essere altrimenti, è l’intellettuale che racconta e argomenta tesi).
Ogni figura è al centro di una sfera di relazioni funzionalmente ben delimitata che sfiora e a volte compenetra quella degli altri. Sempre presente la comunità la quale oltre che sfondo assurge a protagonista del film assieme agli altri personaggi/ruoli.
Il tempo filmico è scandito da eventi personali come la caduta del Dottore, l’incontro del Maestro con Eva, la morte della moglie del Contadino, eccetera; da eventi collettivi quali il raccolto, la festa, le funzioni religiose, le ricerche degli scomparsi, l’incendio; dalle date della Storia: omicidio di Sarajevo, la dichiarazione di guerra.
Haneke cerca in tutti i modi di sottolineare la violenza e le aberrazioni che fondano e formano le relazioni interpersonali, la famiglia, l’intera nazione che porta così a crescere una generazione malata - il gruppo dei ragazzi del film – che sarà la base della Germania nazista.
Baronessa: “Io vado via da qui per evitare ai figli di crescere in un ambiente dominato da malignità, invidia, stupidità e brutalità. Ne ho abbastanza di prepotenze, di minacce, di perverse vendette”.
Troppo semplicistico.
Il finale rimane aperto. Si dirà che questo è funzionale all’alto profilo seguito, che nelle vicende umane non si danno risposte certe (e ciò sarebbe in contraddizione con il rigido determinismo adottato) ma potrebbe essere dovuto all’incapacità di chiudere il film. Si conferma comunque l’impressione che Haneke sia un regista che manchi dei mezzi per raggiungere i troppo elevati obiettivi prefissi.
martedì 7 settembre 2010
BIENNALE SCULTURA
POST MONUMENT
XIV BIENNALE DI CARRARA
Post monument è l’idea che lega le azioni artistiche della XIV biennale internazionale di scultura di Carrara, forse la principale manifestazione mondiale relativa alla scultura contemporanea. E subito si pongono questioni importanti: cosa resta della canonica suddivisione delle arti in scultura, pittura, architettura, arti “minori”? Qual è il ruolo del luogo/contesto territoriale nel processo di creazione-realizzazione-fruizione artistica? Come si rapportano oggi Storia e Arte quando è già stata teorizzata la fine della Storia? Il monumento, suggello dell’evento storico, memento ai posteri, passato che si materializza e si fa eterno, ha senso nell’era post-storica? Ma la Storia è davvero finita nell’89 o è ricominciata nel 2001? Ancora, nell’arte del post monument che relazione si determina tra produttore d’arte e pubblico, e per pubblico s’intende il soggetto civico, collettivo, comunitario, ma anche il singolo, non necessariamente addetto ai lavori o iniziato ai misteri eleusini delle contemporaneità artistica.
La biennale di Carrara ha il pregio di suscitare interrogativi fondamentali nella fisionomia iperconcettuale di questa sua quattordicesima edizione.
Lasciando perdere le sezioni History ed Architettura e il flop di Cattelan, che merita però un discorso a parte, la visione delle opere suggerisce alcune risposte, tutte improntate ad un pessimismo e ad una rassegnazione uniformizzanti.
Se è vero che siamo nel post monument, la scultura in quanto tale non ha più senso e allora diventa scultura un suono (sia esso il rumore della cava o l’Internazionale), un’immagine bidimensionale (una foto, un video). Scultura è una conversazione, scultura è un gesto: io-chiunque salgo sulla base monument e divento opera. Scultura è soprattutto un’idea, un concetto. Che tutto questo venga enunciato nella/dalla città del marmo suona veramente nichilista.
Per millenni monumento e marmo, materia e rappresentazione, sono stati inscindibili nel fissare il transeunte. Ora non c’è niente da sottrarre allo scorrere del tempo, si può ridire NO o si può defecare, il tutto sulle rovine di luoghi, i laboratori in disuso, che sono gusci di rifiuti che contengono sculture immateriali.
In questo la biennale è coerente come nei monoliti di Piazza Alberica, dove il marmo sembra essere protagonista ma si tratta di pura forma, di pura idea. O come nella spettrale ambientazione della chiesa, dove il marmo ridiventa quello che è: materia, micidiale scheggia rocciosa. E così l’azione artistica torna alla natura e riassumendo la sua essenza di minerale il marmo non è più scultura, è monumento al nulla.
XIV BIENNALE DI CARRARA
Post monument è l’idea che lega le azioni artistiche della XIV biennale internazionale di scultura di Carrara, forse la principale manifestazione mondiale relativa alla scultura contemporanea. E subito si pongono questioni importanti: cosa resta della canonica suddivisione delle arti in scultura, pittura, architettura, arti “minori”? Qual è il ruolo del luogo/contesto territoriale nel processo di creazione-realizzazione-fruizione artistica? Come si rapportano oggi Storia e Arte quando è già stata teorizzata la fine della Storia? Il monumento, suggello dell’evento storico, memento ai posteri, passato che si materializza e si fa eterno, ha senso nell’era post-storica? Ma la Storia è davvero finita nell’89 o è ricominciata nel 2001? Ancora, nell’arte del post monument che relazione si determina tra produttore d’arte e pubblico, e per pubblico s’intende il soggetto civico, collettivo, comunitario, ma anche il singolo, non necessariamente addetto ai lavori o iniziato ai misteri eleusini delle contemporaneità artistica.
La biennale di Carrara ha il pregio di suscitare interrogativi fondamentali nella fisionomia iperconcettuale di questa sua quattordicesima edizione.
Lasciando perdere le sezioni History ed Architettura e il flop di Cattelan, che merita però un discorso a parte, la visione delle opere suggerisce alcune risposte, tutte improntate ad un pessimismo e ad una rassegnazione uniformizzanti.
Se è vero che siamo nel post monument, la scultura in quanto tale non ha più senso e allora diventa scultura un suono (sia esso il rumore della cava o l’Internazionale), un’immagine bidimensionale (una foto, un video). Scultura è una conversazione, scultura è un gesto: io-chiunque salgo sulla base monument e divento opera. Scultura è soprattutto un’idea, un concetto. Che tutto questo venga enunciato nella/dalla città del marmo suona veramente nichilista.
Per millenni monumento e marmo, materia e rappresentazione, sono stati inscindibili nel fissare il transeunte. Ora non c’è niente da sottrarre allo scorrere del tempo, si può ridire NO o si può defecare, il tutto sulle rovine di luoghi, i laboratori in disuso, che sono gusci di rifiuti che contengono sculture immateriali.
In questo la biennale è coerente come nei monoliti di Piazza Alberica, dove il marmo sembra essere protagonista ma si tratta di pura forma, di pura idea. O come nella spettrale ambientazione della chiesa, dove il marmo ridiventa quello che è: materia, micidiale scheggia rocciosa. E così l’azione artistica torna alla natura e riassumendo la sua essenza di minerale il marmo non è più scultura, è monumento al nulla.
sabato 4 settembre 2010
TODD SOLONDZ
PERDONA E DIMENTICA – 2009
TODD SOLONDZ
Un film di Solondz è sempre un piacere. Dall’esordio, infatti, il regista americano non ha sbagliato un colpo proponendosi come uno degli autori più cattivi in circolazione. Una cattiveria la sua, tutta basata sull’accentuazione delle piccole verità inconfessabili nascoste tra le pieghe della tragicommedia umana.
Ecco dunque Life during wartime(titolo impegnativo e alquanto serioso) e la delusione è grande; il dispiacere, proprio perché le aspettative erano elevate, è ancora più cocente.
Le premesse potevano lasciare spazio a qualche dubbio: tornare sui personaggi di Happiness segno forse di difficoltà? Mancanza di ispirazione?
Effettivamente le storie che in Happiness si incrociavano mirabilmente, le visioni sorprendenti come la strage dei gay, la forza dei personaggi, tutto questo in Perdona e dimentica diventa un inutile prolungamento senza nerbo di cose già sentite, già viste. Proprio come dice Joy all’inizio del film: un dejà vu. La carica corrosiva di Happiness si diluisce in una sorta di soapmovie in cui l’ironia grottesca si fa macchietta superficiale, una copia svanita del proprio cinema.
A poco serve il tentativo di cimentarsi in qualche soluzione di ripresa estetizzante e costruzione delle inquadrature basate sull’alternanza di movimenti e motivi lineari orizzontali e verticali: non è questo, almeno per ora, il campo in cui Solondz sa esprimersi lasciando il segno.
Un colpo a vuoto è ammissibile, alla prossima Todd.
TODD SOLONDZ
Un film di Solondz è sempre un piacere. Dall’esordio, infatti, il regista americano non ha sbagliato un colpo proponendosi come uno degli autori più cattivi in circolazione. Una cattiveria la sua, tutta basata sull’accentuazione delle piccole verità inconfessabili nascoste tra le pieghe della tragicommedia umana.
Ecco dunque Life during wartime(titolo impegnativo e alquanto serioso) e la delusione è grande; il dispiacere, proprio perché le aspettative erano elevate, è ancora più cocente.
Le premesse potevano lasciare spazio a qualche dubbio: tornare sui personaggi di Happiness segno forse di difficoltà? Mancanza di ispirazione?
Effettivamente le storie che in Happiness si incrociavano mirabilmente, le visioni sorprendenti come la strage dei gay, la forza dei personaggi, tutto questo in Perdona e dimentica diventa un inutile prolungamento senza nerbo di cose già sentite, già viste. Proprio come dice Joy all’inizio del film: un dejà vu. La carica corrosiva di Happiness si diluisce in una sorta di soapmovie in cui l’ironia grottesca si fa macchietta superficiale, una copia svanita del proprio cinema.
A poco serve il tentativo di cimentarsi in qualche soluzione di ripresa estetizzante e costruzione delle inquadrature basate sull’alternanza di movimenti e motivi lineari orizzontali e verticali: non è questo, almeno per ora, il campo in cui Solondz sa esprimersi lasciando il segno.
Un colpo a vuoto è ammissibile, alla prossima Todd.
venerdì 3 settembre 2010
ROMAN POLANSKI
L’UOMO NELL’OMBRA – 2009
ROMAN POLANSKI
Polanski è un abile narratore cinematografico. Ha esperienza, sa come si deve far muovere la macchina da presa e conosce alla perfezione i mezzi tecnici e espressivi filmici. Ci vuole però anche una storia da raccontare e deve crearsi un’empatia tra maestro ed attori. Quando ciò accade nascono film non solo perfetti ma che persistono nella memoria. In questo Ghost writer la scintilla tra attori e regista non scocca, la sceneggiatura è fiacca e in alcuni punti regge a stento.
La velocità di spostamento dei personaggi è da supereroi, come quando l’ex ministro degli esteri giunge dopo un minuto all’appuntamento o i killer immediatamente pronti a colpire appena comunicato lo scioglimento dell’enigma. Banale il suicidio/omicidio iniziale e veramente superficiale il modo in cui se ne dà spiegazione, per non parlare del nodo della vicenda, che sta a Le Carrè come Verdone e Virzì alla commedia all’italiana… ma questo riguarda più Robert Harris che Polanski.
Nessun personaggio è messo a fuoco e la scelta degli attori è incomprensibile.
Tutto è grigio. Come deve essere un ghostwriter e questa è la cifra estetica da apprezzare. La gamma cromatica di esterni e interni va infatti dai seppia alle varie sfumature del grigio, come i vestiti dell’inespressivo protagonista; il tempo sempre carico di umidità; la villa sull’oceano perfetta.
Da regista geniale l’ultima inquadratura del film, con la relazione tra campo-fuori campo anche se le pagine al vento restano un cliché.
ROMAN POLANSKI
Polanski è un abile narratore cinematografico. Ha esperienza, sa come si deve far muovere la macchina da presa e conosce alla perfezione i mezzi tecnici e espressivi filmici. Ci vuole però anche una storia da raccontare e deve crearsi un’empatia tra maestro ed attori. Quando ciò accade nascono film non solo perfetti ma che persistono nella memoria. In questo Ghost writer la scintilla tra attori e regista non scocca, la sceneggiatura è fiacca e in alcuni punti regge a stento.
La velocità di spostamento dei personaggi è da supereroi, come quando l’ex ministro degli esteri giunge dopo un minuto all’appuntamento o i killer immediatamente pronti a colpire appena comunicato lo scioglimento dell’enigma. Banale il suicidio/omicidio iniziale e veramente superficiale il modo in cui se ne dà spiegazione, per non parlare del nodo della vicenda, che sta a Le Carrè come Verdone e Virzì alla commedia all’italiana… ma questo riguarda più Robert Harris che Polanski.
Nessun personaggio è messo a fuoco e la scelta degli attori è incomprensibile.
Tutto è grigio. Come deve essere un ghostwriter e questa è la cifra estetica da apprezzare. La gamma cromatica di esterni e interni va infatti dai seppia alle varie sfumature del grigio, come i vestiti dell’inespressivo protagonista; il tempo sempre carico di umidità; la villa sull’oceano perfetta.
Da regista geniale l’ultima inquadratura del film, con la relazione tra campo-fuori campo anche se le pagine al vento restano un cliché.
GUILLAUME CANET
NE LE DIS A PERSONNE – 2006
GUILLAUME CANET
Film di genere, quel poliziesco che in Francia gode di ottima tradizione, rispolverato nel passato prossimo da piacevoli realizzazioni (Sulle mie labbra e, meglio ancora, 36 Rue des Orfevres), Ne le dis à personne rappresenta invece un fallimento totale. Sembra quasi un manuale del giovane regista o meglio, una guida a come non si devono fare i film d’azione con agnizione finale.
Il pediatra(!)protagonista ingiustamente accusato di un duplice omicidio fugge con dozzine di flics alle calcagna. Una fuga che nelle intenzioni del regista vuole essere drammatica risulta invece ridicola. Seminati i poliziotti ecco il pronto intervento telefonico e il cattivo corre in aiuto e come neanche nelle favole, diventa ‘buono’ e si sacrifica per il perseguitato dalla giustizia. Ma per il pediatra del proprio figlio questo ed altro!
Ci sono anche i veri cattivi, ovviamente senza un minimo di cervello come gli scagnozzi assoldati da Crudelia Demon e doppie verità, tutte squadernate per uno spettatore che non-capisce-niente-quindi-diciamogli-di-tutto-di-più. Ed ecco allora l’uso del flash-back di ogni tipo, esplicativi che ricostruiscono fatti accaduti, altri che propongono false verità, altri ancora nostalgici avvolti in atmosfere mielose semplicemente imbarazzanti.
Da tesina scolastica le sottolineature della colonna sonora. Un film da dimenticare.
GUILLAUME CANET
Film di genere, quel poliziesco che in Francia gode di ottima tradizione, rispolverato nel passato prossimo da piacevoli realizzazioni (Sulle mie labbra e, meglio ancora, 36 Rue des Orfevres), Ne le dis à personne rappresenta invece un fallimento totale. Sembra quasi un manuale del giovane regista o meglio, una guida a come non si devono fare i film d’azione con agnizione finale.
Il pediatra(!)protagonista ingiustamente accusato di un duplice omicidio fugge con dozzine di flics alle calcagna. Una fuga che nelle intenzioni del regista vuole essere drammatica risulta invece ridicola. Seminati i poliziotti ecco il pronto intervento telefonico e il cattivo corre in aiuto e come neanche nelle favole, diventa ‘buono’ e si sacrifica per il perseguitato dalla giustizia. Ma per il pediatra del proprio figlio questo ed altro!
Ci sono anche i veri cattivi, ovviamente senza un minimo di cervello come gli scagnozzi assoldati da Crudelia Demon e doppie verità, tutte squadernate per uno spettatore che non-capisce-niente-quindi-diciamogli-di-tutto-di-più. Ed ecco allora l’uso del flash-back di ogni tipo, esplicativi che ricostruiscono fatti accaduti, altri che propongono false verità, altri ancora nostalgici avvolti in atmosfere mielose semplicemente imbarazzanti.
Da tesina scolastica le sottolineature della colonna sonora. Un film da dimenticare.
giovedì 2 settembre 2010
LAURIE ANDERSON
HOMELAND - 2010
LAURIE ANDERSON
Un nuovo album per Laurie Anderson, dopo molti anni. Homeland è quello che ci si aspetta. Affermazione che può significare attesa ripagata ma anche prevedibilità e il disco/palinsesto ha in sé entrambi gli aspetti, una prevedibile gradevolezza.
Laurie continua il suo discorso iniziato con Big Science e proseguito con American Stories, delle quali Homeland è di fatto, già dal titolo, l’ultimo capitolo. Visualmente o musicalmente Anderson è una narratrice e seguita a raccontare l’America. I brani di Homeland sono frammenti che compongono le sfaccettature della ‘patria’ e come cristallo se illuminato, riflettono bagliori che differiscono in base a mutamenti minimali. Recitativo evocativo è la cifra di Anderson, da sempre, e si conferma in questo Homeland, costituito da tracce. Ogni traccia è innanzi tutto un testo, il quale è denuncia, racconto, sfogo lirico, elaborazione poetica, citazione. Il testo è enunciato dalla voce manipolata, usata come strumento, che in Another day in America si sdoppia in quella dell’alter ego Fenway Bergamot, seguendo la tematica del femminile/maschile ricorrente nell’opera dell’artista.
Attorno a questo nucleo compositivo si aggregano i suoni, a volte convulsi a volte eterei ma sempre studiati a dare l’impronta di unicità ad ogni traccia. Si procede nell’ascolto come se si leggesse una raccolta di racconti e così si succedono le voci tuvane, la fisarmonica, l’ospite Antony, Bergamot, il beat frenetico, il maestro Zorn. La lettura/ascolto rapisce e i riferimenti più prossimi possono essere Bob Dylan, Raymond Carver, il T.S. Eliot dei quartetti, David Byrne di True Stories.
LAURIE ANDERSON
Un nuovo album per Laurie Anderson, dopo molti anni. Homeland è quello che ci si aspetta. Affermazione che può significare attesa ripagata ma anche prevedibilità e il disco/palinsesto ha in sé entrambi gli aspetti, una prevedibile gradevolezza.
Laurie continua il suo discorso iniziato con Big Science e proseguito con American Stories, delle quali Homeland è di fatto, già dal titolo, l’ultimo capitolo. Visualmente o musicalmente Anderson è una narratrice e seguita a raccontare l’America. I brani di Homeland sono frammenti che compongono le sfaccettature della ‘patria’ e come cristallo se illuminato, riflettono bagliori che differiscono in base a mutamenti minimali. Recitativo evocativo è la cifra di Anderson, da sempre, e si conferma in questo Homeland, costituito da tracce. Ogni traccia è innanzi tutto un testo, il quale è denuncia, racconto, sfogo lirico, elaborazione poetica, citazione. Il testo è enunciato dalla voce manipolata, usata come strumento, che in Another day in America si sdoppia in quella dell’alter ego Fenway Bergamot, seguendo la tematica del femminile/maschile ricorrente nell’opera dell’artista.
Attorno a questo nucleo compositivo si aggregano i suoni, a volte convulsi a volte eterei ma sempre studiati a dare l’impronta di unicità ad ogni traccia. Si procede nell’ascolto come se si leggesse una raccolta di racconti e così si succedono le voci tuvane, la fisarmonica, l’ospite Antony, Bergamot, il beat frenetico, il maestro Zorn. La lettura/ascolto rapisce e i riferimenti più prossimi possono essere Bob Dylan, Raymond Carver, il T.S. Eliot dei quartetti, David Byrne di True Stories.
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