Jacob Van Loo, Amarilli incorona Mirtillo, 1650 |
La favola
pastorale ‘tragicomica’ è un genere letterario, dalla vita breve ma di
successo, che si afferma nel secondo Cinquecento. In quegli anni, proprio la
tragicommedia contribuisce ad alimentare un confronto che vede schierarsi i
letterati pro o contro quel nuovo genere, nel più ampio contesto del dibattito
sulle teorie poetiche di Aristotele.
Battista Guarini, diplomatico attivo in
varie città dell’Italia settentrionale, partecipando al dibattito, si schiera
contro il canone aristotelico, in aperta polemica con il Castelvetro. Dopo gli
scritti dottrinali, Guarini mette in pratica le sue teorie letterarie con Il
Pastor fido, tragicommedia in cinque atti, pubblicata a Venezia nel 1590.
Opera
interessante, scritta in una lingua ‘italiana’ piana e scorrevole, in cui si
alternano endecasillabi e settenari. Ricca di artifici retorici (soprattutto
figure etimologiche, polisemie, ripetizioni e chiasmi) che però non ostacolano
la lettura, la quale procede secondo una musicalità che anticipa il melodramma.
Ma
l’interesse del Pasor fido, più che linguistico o storico-letterario, si trova
nell’arditezza di certi contenuti. Innanzi tutto, a detta dello stesso Guarini,
l’opera deve andare incontro alle aspettative del pubblico. Il Pastor fido ha come scopo principale l’intrattenimento e,
per farlo, deve avvincere, sorprendere e non deludere.
Da una
parte si offre al pubblico ciò che esso si aspetta, dall’altro l’autore deve
introdurre delle varianti capaci di sorprenderlo. In questo calcolato gioco con
il lettore/spettatore, rivestono una efficace utilità le allusioni erotiche, in
certi passaggi particolarmente spregiudicate.
Mi ha
colpito, per esempio, l’esposizione di una teoria dongiovannesca dell’amore
fatta da uno dei caratteri principali della favola, Corisca, personaggio già
settecentesco, quando afferma, atto I, scena terza:
La gloria e lo splendor di
bella donna
l’aver molti amanti.
Rifiutare un amante […]
è peccato e sciocchezza;
Far degli amanti quel che
delle vesti:
molti averne, un goderne e
cangiar spesso.
Che ‘l lungo conversar
genera noia,
e la noia disprezzo e odio
alfine.
Sempre a proposito degli
amanti, la libertina Corisca ribadisce:
Amo d’averne
gran copia, e li trattengo,
e honne sempre
uno per mano, un per occhio,
ma di tutti
il migliore e il più comodo
nel seno;
e quanto posso più, nel cor
nessuno.
Capolavoro di ambigua
sensualità la prima scena del secondo atto. I due pastori, uno giovane, il
pastor fido Mirtillo, l’altro anziano,
Ergasto, parlano di come Amore abbia colpito Mirtillo, il quale racconta l’esperienza
del suo primo bacio. Un gruppo di giovani ninfe, tra le quali l’amata Amarilli,
si dilettano in uno strano gioco amoroso. Amarilli viene così introdotta:
Tra queste ella si stava
sì come suol tra le violette
umili
nobilissima rosa;
e poi che in quella guisa
state furono alquanto,
levossi una donzella…
Forse il Leopardi apprezzò
questo passaggio.
Dunque le donzellette, nella
fresca radura, decidono di fare una gara: “si contenda tra noi di baci”. E le
giovani cominciano a scambiarsi baci. L’imberbe Mirtillo, nascosto ed eccitato,
pensa di introdursi nel gioco, “cambiato in ninfa”. Accolto come vergine, partecipa
al gioco erotico. Segue una sensuale descrizione della bocca di Amarilli, dei
baci e della proclamazione della vincitrice, tra sospiri, rossori e sguardi in
fiamme.
Altro episodio ‘tragicomico’
molto divertente è un tentativo di stupro da parte di un satiro sdentato nei
confronti di Corisca, la quale riesce a liberarsi dalla ferina presa lasciandogli
tra le mani la parrucca.
Alla fine, la favola
pastorale celebrerà l’amore fedele, in linea con i dettami della Controriforma,
ma per tutti i cinque atti la celebrazione voluttuosa dell’amore non si è certo
mostrata aderente alla morale tridentina.