cinema

mercoledì 28 marzo 2012

ANDREW BIRD

BREAK IT YOURSELF
ANDREW BIRD - 2012




Dal Midwest stanno arrivando ottimi album. Dopo Bon Iver dell’anno scorso, ecco un altro disco che si lascia ascoltare e riascoltare e che è destinato a restare. Registrato in un granaio dell’Illinois, Break it yourself sprigiona tutto il sapore della tranquillità agreste, con tanto di grilli e cicale.

Bird, che si definisce “singer, violinist, whistler”, insieme con gli altri tre musicisti che hanno suonato in Break it yourself , è riuscito nell’impresa di realizzare un disco omogeneo nelle sue quattordici tracce, tutte quante di livello medio alto, senza nessuna caduta di stile.

Si tratta di un disco apparentemente tradizionale, dal sapore country-folk anni Settanta ma le composizioni risultano articolate nella struttura pur senza mettere mai in discussione la forma-canzone.

In Lusitania, per esempio, a cantare potrebbe benissimo essere la coppia Neil Young&Nicolette Larson, ma la modulazione allungata dei versi, il fischiato, il suono dei piatti della batteria, la rendono un’originale ballata alt-folk di gusto inevitabilmente indie.

Danse Carribe ha invece cambiamenti successivi che partendo da un ritmo dolce e piano dato da un semplice giro di basso con violino  e chitarra ad intrecciarsi, si trasforma in un calipso dove le percussioni rendono il brano allegro e ballabile. Ma le virate non finiscono, c’è il tempo per volare dai Caraibi alle brughiere d’Irlanda con il violino prima vivace e poi malinconico nella chiusura.

Lazy Project inizia come  certi brani onirici di Lennon per assumere una ritmica vagamente jazzistica e passare, attraverso il fischiato ad un intermezzo melodico dolcissimo che s’impenna nel ritmo prima della chiusura in calare.

A seguire Near Death Experience: un pizzicato introduce ad un brano dal ritmo sincopato che disegna figure di tango su suoni e atmosfere pop sofisticato anni Ottanta con un testo che recita frasi tipo “we’ll dance like cancer survivors /  like your prognosis was that you should’ve died”.

Insomma ogni traccia presenta le sue peculiarità, le quali sono comunque sempre appropriate e mai stridenti nel loro essere originali ma al tempo stesso nel segno della tradizione. Ed è questo che rende Break it yourself un disco godibilissimo.

domenica 11 marzo 2012

BEN WHEATLEY

DOWN TERRACE
BEN WHEATLEY - 2009




Positivamente impressionati da Kill list, opera seconda di Ben Wheatley, abbiamo subito cercato di vedere il suo film d’esordio, Down Terrace. Ebbene, il regista inglese ci sa fare, ci sa proprio fare.

Commedia nera psicologica, gangster movie, thriller, dramma familiare, film teatrale, terapia di gruppo, grottesco trattato antropologico e via dicendo, Down Terrace, come il successivo Kill list mescola i generi e sorprende lo spettatore.

Il regista svela meno del necessario e lascia il compito della ricostruzione della storia allo spettatore e alla sua interpretazione degli indizi che si accumulano quasi casualmente nel quotidiano succedersi dei giorni che scansionano la durata, annunciati a grandi caratteri sullo schermo (lunedì, martedì..).

Quotidianità. La prima metà buona del film è un interno familiare, campi ristretti sui personaggi, ripresa amatoriale, bevute, fumate, visite di conoscenti, poi avviene un repentino cambio di marcia con l’accelerazione verso la surreale (?) conclusione.

Girato con un budget ridottissimo, il film è pieno di trovate, una sola delle quali, in un film italiano, farebbe gridare al capolavoro i critici ufficiali di casa nostra. Ecco tre nuclei filmici come esempio di competenza e intelligenza registica.

Aspetto tematico: relazioni tra i membri della famiglia. Il triangolo affettivo/conflittuale padre-madre-figlio è rappresentato in maniera perfetta (senz’altro aiuta il fatto che i due attori sono effettivamente padre e figlio). Le ambivalenze emozionali vengono sottolineate sarcasticamente con il risultato di creare un velo di nera ironia attorno alla Famiglia.

Aspetto narratologico: carica simbolica della dialettica interno/esterno. Il film è prevalentemente girato “dentro” la casa ma rilevanza viene data alla porta-soglia, cioè alla linea di demarcazione e di passaggio tra il dentro e il fuori. E decisamente connotati sono tutti gli episodi in esterno presenti solo nella seconda parte del film. La stessa dialettica interno/esterno viene usata nelle due brevi sequenze iniziali, prima di entrare in casa: padre e figlio in esterno, appena usciti di prigione, fatto che sarà il leitmotiv del film, e padre e figlio all’interno della macchina, il cui silenzio viene riempito dal notiziario radio sui conflitti in Medio Oriente.

Aspetto tecnico: l’uso del sonoro. Qui Wheatley conferma di essere veramente bravo. Non c’è accompagnamento musicale tradizionalmente inteso. Ci sono tre livelli di sonoro. Qualche canzone, prevalentemente ballate acustiche, a fare da raccordo tra le ‘scene importanti’ o a contrasto con quanto rappresentato, come nella bellissima scena dell'infarto; la musica suonata dagli stessi personaggi con la funzione di stemperare la tensione; fastidiosi effetti elettronici per evidenziare la patologia di certe situazioni.

P.S. si potrebbe definire una linea che lega Down Terrace, l’australiano Animal Kingdom e il belga Kill me please, film molto graditi ma che rendono ancora più apprezzabile questa opera prima.

lunedì 5 marzo 2012

PAUL CELAN / MARTIN HEIDEGGER

TODTNAUBERG
PAUL CELAN - 1967


 Martin Heidegger, la Hutte e la fontana; nella poesia: 
questa / bevuta dalla fontana con il / dado stellato sopra


25 luglio 1967. Nell’idillio della Foresta Nera, in una baita – la Hütte – sprofondata nel verde di boschi e di radure fiorite, si incontrano Paul Celan e Martin Heidegger. Incontro carico di contrastanti aspettative e di malcelate tensioni.  E quello che avrebbe dovuto essere l’idillio hölderliniano della selva brulicante di vita, della natura al suo culmine, della hütte solitaria e tranquilla in realtà si mostrerà come casetta di Hansel e Gretel, inquietante luogo degli orrori. Almeno è ciò che si è portati a credere dopo aver assorbito il risultato di quell’incontro, il testo poetico ‘Todtnauberg’ che Celan compone i primi giorni di agosto, qualche giorno dopo la salita alla Hütte.

Otto brevi stanze che sono la cronaca dell’evento, caratterizzate dalla solita frammentazione sintattica e dalla costruzione prevalentemente nominale o ellittica delle preposizioni: solo tre verbi finiti, coniugati tra l’altro alla terza persona singolare, nei 26 versi della poesia.

La visita al tanto studiato filosofo più importante del Novecento ha per Paul Celan significanze ambivalenti. Da un lato Heidegger è il pensatore (l’unico riferimento nel testo al filosofo è il vago  eines Denkenden) che ha affrontato il tema del linguaggio il quale costituisce uno dei nuclei fondanti della poetica e dell’espressione lirica di Celan. Dall’altro Heidegger è l’intellettuale del Regime che proprio nella stessa Hütte radunava nazisti per i suoi incontri filosofici, e che mai è tornato sul suo imbarazzante passato.

Una parola di presa di distanza, magari di abiura è ciò che Celan si aspetta salendo alla Hütte. E Heidegger? Con quale spirito si apprestava ad incontrare il sopravvissuto alla Shoah? Era pronto il grande Denkenden a ricevere il poeta che egli stesso considerava il ‘più avanzato di tutti’? Stimato e apprezzato ma anche fonte di fastidioso disagio, è da supporre.

Il 25 luglio del 1967 Celan sale alla Hütte atteso da Heidegger.

L’incontro sarà un non-incontro. Dalla cronaca-poesia e dai numerosissimi saggi interpretativi che la più illuminata critica mondiale ha prodotto su di essa, possiamo dire che tra i due non vi è stata quasi comunicazione.

Todtnauberg è il resoconto di un fallimento, di una speranza che si trasforma in disappunto, di segni dapprima positivi e anche di buon auspicio (i due fiori-emblemi iniziali) che subito dopo aver varcato la soglia della Hütte vengono sostituiti da simboli che testimoniano non solo l’impossibilità di interazione tra il poeta e il filosofo ma anche dolore e morte.

Ogni singola parola, ogni suono, ogni a capo, il prima, il dopo, tutto di questa poesia è stato analizzato ed interpretato. Leggerla e rileggerla è sentirla sempre di più ed ogni lettura è un vivere la storia, quella Grande del Secolo Breve e quella minima, intima ed ugualmente grande, del poeta ‘più avanzato di tutti’ come Heidegger ebbe a dire di Paul Celan.

Arnica ed Eufrasia, nella poesia, primo verso: Arnika, Augentrost
Si tratta di due officinali curative delle articolazioni e degli occhi.
Il nome tedesco Augentrost significa letteralmente balsamo per gli occhi

giovedì 1 marzo 2012

SPIRO

KALEIDOPHONICA
SPIRO - 2012




Base a Bristol, la line-up di Spiro è chitarra, violino, mandolino e fisarmonica. La loro musica potrebbero essere del british folk ma, a detta del chitarrista Jon Hunt, hanno più a che fare con la dance e con il minimalismo classico che con il folk propriamente detto. Però, visti gli strumenti, accostandosi per la prima volta alle loro composizioni il nome che viene immediato alla mente è la Penguin Café Orchestra. Ma è solo la prima impressione perché procedendo con l’ascolto emerge il sostrato ‘classico’ e si evidenziano quelli che sono i principali punti di riferimento del gruppo: il grande Steve Reich innanzi tutto e a seguire Philip Glass, Wim Mertens fino a classici moderni come Béla Bartók, sui quartetti del quale si è formata la violinista Jane Harbour.

È su questa solida base acustica che si sviluppano motivi e ritmi ripetitivi quasi dance, costruiti attorno all’ostinato dei singoli strumenti che si sovrappongono e si intrecciano dando origine a sofisticate e calibratissime composizioni. Eclettismo come cifra distintiva di questo ensamble di folk contemporaneo: studi classici ma anche esperienze trasversali, come testimonia la parabola del mandolinista Alex Vann, partito come batterista in una punk band ed approdato al mandolino passando per la chitarra elettrica. Passato post-punk/new wave per il chitarrista, formazione tipicamente folk per Jason Sparkes all’accordion.

Il risultato è Spiro. Tre album all’attivo, gli ultimi due per la Real World, per la quale hanno partecipato al Womad festival. L’ultimo, Kaleidophonica, appena uscito, segue in parte il percorso del precedente Lightbox del 2009 che conteneva brani bellissimi come i molto à la Peter Greenaway The Darkling Plains o Glittering City, ricchi di suggestioni che potrebbero essere utilizzati da Peter Greenaway per un suo lungometraggio bucolico e malato.

Con Kaleidophonica il quartetto ricrea in studio una live-session e l’impatto è decisamente diretto ed irresistibile, con l’approdo a momenti di pura estasi danzante. Fantastico ed emblematico l’incalzante opening track Yellow Noise con i suoi successivi blocchi di variazioni quasi matematici. Come Bartók e lo stesso Reich dei Tehillim, gli Spiro partono spesso da motivi popolari per innestarvi modulazioni complesse che trasformano l’idea folk in qualcosa di molto concettuale, pur mantenendo accessibilità e melodia.