ASGHAR FARHADI - 2011
Prima scena del film: marito e moglie seduti in uno spoglio
ufficio espongono le rispettive ragioni a proposito della loro separazione. Lo
sguardo è rivolto ad un giudice che lo spettatore non vede perché coincidente
con la macchina da presa in soggettiva.
Giudice e giudizio saranno uno dei temi ricorrenti che
legano insieme una storia fatta di molteplici nodi emotivi che riproducono la
quotidianità dell’esistenza. Lo spettatore entra nella vita dei protagonisti,
nei loro appartamenti, all’ospedale, in tribunale, a scuola, in macchina, in
banca.
La camera non molla un attimo i personaggi, i gesti, i
volti, gli ambienti, gli oggetti. Famiglie borghesi e popolari di Teheran alle
prese con i problemi di tutti i giorni: incomprensioni coniugali, il rapporto
con i figli, i genitori anziani da accudire, il lavoro. Ma siamo in Iran, e
alla lista si aggiunge anche la religione e il suo peso nei rapporti tra i
sessi.
Motivo religioso a parte, il regista deterritorializza il
film, il quale è sì iraniano ma vuole proporsi come un film universale, che
racconta l’uomo, la famiglia, la società di oggi, a Tokio a Parigi a San Paolo.
È utile a tal fine il dualismo sociale reso dal contatto/contrasto tra la
famiglia borghese e la famiglia popolare. Sono i loro comportamenti, il
reticolo relazionale, gli ambienti in cui vivono che tracciano, visivamente, le
diverse realtà e lo fanno in maniera naturale, senza le sottolineature
sociologiche o intellettualistiche in cui sarebbe caduto un cineasta europeo
impegnato.
Asghar Farhadi ha un tocco asciutto, sicuro, leggero
nell’affrontare temi complessi, pesanti. Doti da grande regista oltre che
sceneggiatore di talento. Altro pregio di questo miracolo di film è proprio il
perfetto connubio tra scrittura e regia. C’è un testo scritto, fatto di
dialoghi credibili, tempi narrativi giusti, uso sapiente delle ellissi; c’è una
regia che aderisce perfettamente alla storia e mantiene coerenza stilistica
anche nelle pause narrative. Anzi, è l’uso della macchina da presa in tali
pause ad assumere funzione narrativa muovendosi emozionalmente “a spalla” sui
personaggi o, al contrario, restando impassibilmente immobile.
Infine gli attori, tutti pienamente nelle rispettive parti,
tanto da ricevere il premio all’intero cast all’ultimo Festival di Berlino,
pure questo segno di una regia dalle idee chiarissime. Come nella scena finale,
in cui bastava un minuto in più per mandare all'aria tutto quanto e invece il
regista ascolta il nostro ripetuto invito a chiudere e chiude in tempo. Una
separazione è un film su cui bisognerà tornare.