Il cuore
del festival di Cannes sono i critici accreditati. Sbadigliano e bofonchiano tra
loro al buio delle proiezioni, chiacchierano tra loro e non sbadigliano, schermati da occhiali
scuri, al Le Claridge. Ognuno attento ai concorrenti della nazione di
appartenenza. Così i francesi si schierano con Jacques Audiard e con La
loi du marché. Gli inglesi parlano solo di Amy e tifano Roth e Caine. Gli italiani
si inorgogliscono per il trio delle meraviglie e gli americani hanno già
assegnato l’Oscar a Carol e a Cate Blanchett.
Qui a Cannes
sembra che i film si guardino sulle sezioni specifiche dei siti della stampa
qualificata (Le film francais, The Guardian, Variety…): si consultano le pagelle, si contrano le
stelle assegnate. Bel festival, comunque.
Tra i film
visti, ruffiano ma pregevole l’ungherese, opera prima, Saul fia. Sicura la nomination
come miglior film straniero ai prossimi Oscar. Relegato alla Quinzaine Green Room del talentuoso Jeremy Saulnier, del
quale avevamo apprezzato il precedente Blue Ruin. Ha un futuro da cult. Da un
autore in ascesa, uno che affonda: il supponente Noè non ci aveva mai convinto.
Perfetto come narcothriller Sicario.
Il meglio,
però, arriva dall’Oriente. Cinema puro e innovazione per Nie yin niang del
maestro cino-taiwanese Hou Hsiao-Hsien,
il wuxia che si eleva oltre il genere. Con il tripartito Shan he gu ren siamo
di fronte ad un nuovo affresco di Jia Zhang-ke a definire,
compiutamente, la Cina odierna.
Manierismo,
gli italiani. Moretti che rifà – molto bene, tra l’altro – Moretti; Garrone che
rifà Pasolini; Sorrentino che rifà Fellini. Una giuria ‘ecumenica’ darebbe la
Palma a Mia madre. Personalmente, la darei a Nie yin niang. Più verosimilmente,
la vittoria andrà allo stucchevole Carol.
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