cinema

mercoledì 1 luglio 2015

GREXIT

BREVE RASSEGNA STAMPA

Novembre 2011, non ieri


Sono anni ormai che sul caso Grecia i media strillano che si è giunti alle ore decisive, al punto di non ritorno. Usa questa espressione, “point of no return”, Paul Krugman nel suo ultimo editoriale sul New York Times. Secondo il principe degli opinionisti economici, l’euro è un “terrible mistake” e ciò che sta succedendo ad Atene è diretta conseguenza di quell’errore. Quindi, il popolo greco dovrebbe votare no al prossimo (?) referendum ed uscire dalla moneta unica, perché “The euro trapped Greece in an economic straitjacket”. Krugman fa poi l’esempio di due paesi, Canada e Islanda, i quali, grazie alla loro indipendenza monetaria, sono riusciti a superare una grave crisi. Giusto a titolo di inciso, il Canada è una grande economia ben organizzata e ricca di risorse naturali; l’Islanda è un paese di 300.000 abitanti con una consolidata tradizione di civismo anche economico: con il paese mediterraneo hanno poco a che fare. Per la Grecia, restare nell’Eurozona, conclude Krugman, significherebbe morire di austerità e, dal momento che il danno di un’eventuale Grexit si è già consumato negli ultimi anni, tanto vale uscire e riconquistare l’indipendenza.

Sul Guardian è un altro guru, Joseph Stiglitz, ad intervenire. Anche per Stiglitz il popolo greco dovrebbe votare no al prossimo (?) referendum, ma secondo lui il problema non riguarda tanto questioni economiche e di denaro quanto aspetti legati al potere e alla democrazia. La cura a base di austerità ha finito per peggiorare e compromettere le condizioni del paziente e i miliardi utilizzati per un salvataggio che non è mai avvenuto, sono serviti principalmente per pagare i “private-sector creditors, including German and France banks”. Per Stiglitz i creditori ufficiali (la Troika) non hanno necessità così impellenti di riavere il denaro prestato, quindi la rigidità mostrata ha un’altra motivazione. Il progetto euro, continua Stiglitz, non ha nulla di democratico, mentre la vittoria di Syriza è stata una grande affermazione di democrazia e molti dei leaders europei vorrebbero vedere soccombere Tsipras. Votare no significa, per la Grecia, riprendere il suo futuro nelle proprie mani.


Anche Bernard-Henri Lévy si auspica un’uscita della Grecia dall’euro, non sulla base dell’esito referendario, ma a seguito di una definitiva chiusura, da parte dell’Europa, delle trattative. Il filosofo francese, sul Corriere della Sera, esprime poi un giudizio durissimo sul leader greco, definito “un demagogo incendiario che sta portando il proprio popolo nel baratro”. 

martedì 30 giugno 2015

BATTISTA GUARINI

IL PASTOR FIDO - 1587

Jacob Van Loo, Amarilli incorona Mirtillo, 1650

La favola pastorale ‘tragicomica’ è un genere letterario, dalla vita breve ma di successo, che si afferma nel secondo Cinquecento. In quegli anni, proprio la tragicommedia contribuisce ad alimentare un confronto che vede schierarsi i letterati pro o contro quel nuovo genere, nel più ampio contesto del dibattito sulle teorie poetiche di Aristotele. 

Battista Guarini, diplomatico attivo in varie città dell’Italia settentrionale, partecipando al dibattito, si schiera contro il canone aristotelico, in aperta polemica con il Castelvetro. Dopo gli scritti dottrinali, Guarini mette in pratica le sue teorie letterarie con Il Pastor fido, tragicommedia in cinque atti, pubblicata a Venezia nel 1590. 

Opera interessante, scritta in una lingua ‘italiana’ piana e scorrevole, in cui si alternano endecasillabi e settenari. Ricca di artifici retorici (soprattutto figure etimologiche, polisemie, ripetizioni e chiasmi) che però non ostacolano la lettura, la quale procede secondo una musicalità che anticipa il melodramma.

Ma l’interesse del Pasor fido, più che linguistico o storico-letterario, si trova nell’arditezza di certi contenuti. Innanzi tutto, a detta dello stesso Guarini, l’opera deve andare incontro alle aspettative del pubblico. Il Pastor fido  ha come scopo principale l’intrattenimento e, per farlo, deve avvincere, sorprendere e non deludere.

Da una parte si offre al pubblico ciò che esso si aspetta, dall’altro l’autore deve introdurre delle varianti capaci di sorprenderlo. In questo calcolato gioco con il lettore/spettatore, rivestono una efficace utilità le allusioni erotiche, in certi passaggi particolarmente spregiudicate.

Mi ha colpito, per esempio, l’esposizione di una teoria dongiovannesca dell’amore fatta da uno dei caratteri principali della favola, Corisca, personaggio già settecentesco, quando afferma, atto I, scena terza:

La gloria e lo splendor di bella donna
l’aver molti amanti.
Rifiutare un amante […]
è peccato e sciocchezza;

Far degli amanti quel che delle vesti:
molti averne, un goderne e cangiar spesso.
Che ‘l lungo conversar genera noia,
e la noia disprezzo e odio alfine.

Sempre a proposito degli amanti, la libertina Corisca ribadisce:

Amo d’averne
gran copia, e li trattengo, e honne sempre
uno per mano, un per occhio, ma di tutti
il migliore e il più comodo nel seno;
e quanto posso più, nel cor nessuno.

Capolavoro di ambigua sensualità la prima scena del secondo atto. I due pastori, uno giovane, il pastor fido  Mirtillo, l’altro anziano, Ergasto, parlano di come Amore abbia colpito Mirtillo, il quale racconta l’esperienza del suo primo bacio. Un gruppo di giovani ninfe, tra le quali l’amata Amarilli, si dilettano in uno strano gioco amoroso. Amarilli viene così introdotta:

Tra queste ella si stava
sì come suol tra le violette umili
nobilissima rosa;
e poi che in quella guisa
state furono alquanto,
levossi una donzella…

Forse il Leopardi apprezzò questo passaggio.

Dunque le donzellette, nella fresca radura, decidono di fare una gara: “si contenda tra noi di baci”. E le giovani cominciano a scambiarsi baci. L’imberbe Mirtillo, nascosto ed eccitato, pensa di introdursi nel gioco, “cambiato in ninfa”. Accolto come vergine, partecipa al gioco erotico. Segue una sensuale descrizione della bocca di Amarilli, dei baci e della proclamazione della vincitrice, tra sospiri, rossori e sguardi in fiamme.

Altro episodio ‘tragicomico’ molto divertente è un tentativo di stupro da parte di un satiro sdentato nei confronti di Corisca, la quale riesce a liberarsi dalla ferina presa lasciandogli tra le mani la parrucca.

Alla fine, la favola pastorale celebrerà l’amore fedele, in linea con i dettami della Controriforma, ma per tutti i cinque atti la celebrazione voluttuosa dell’amore non si è certo mostrata aderente alla morale tridentina.

 
Antoon Van Dyke, Amarilli e Mirtillo, 1631


giovedì 25 giugno 2015

DANIEL PATRICK QUINN

LAVORI RECENTI 2014 - 2015

One More Grain: Quinn & Blick

Dietro  alle composizioni musicali contemporanee è sempre più frequente scorgere mappe che possono riprodurre luoghi situati ad angoli opposti del mondo. Con la world music questo è diventato comune. Gli incontri tra artisti di paesi diversi e le contaminazioni tra i vari generi costituiscono il tratto precipuo della contemporaneità musicale. Per Daniel Patrick Quinn questo discorso può valere in maniera esemplare, ma solo se ci si ferma alla superficie fenomenica. In realtà, il suo profilo di compositore ‘globale’ è molto più complesso.

Musicista totale e non propenso al compromesso, il trentacinquenne Daniel Patrick ha realizzato, come solista, una manciata di lavori tra il 2003 e il 2007, oltre a qualche collaborazione con altri musicisti. Tutt’altro che prolifico, quindi. Tanto che, deluso dal music system contemporaneo, decide di cambiare vita e trasferirsi a Giava. In Indonesia vive insegnando inglese e scrivendo di vulcani. Sono anni di immersione nella cultura locale, in cui la musica ha un ruolo decisivo. E qui sta la differenza tra il fascino e la facilità della citazione esotica e il farsi invece assorbire totalmente da un patrimonio di conoscenze lontano dal proprio. Scelta esistenziale, quindi, più che estetica.

Rientrato nel Regno Unito e stabilitosi nelle Ebridi, Quinn innesta il suo vissuto indonesiano alla tradizione folklorica delle isole scozzesi. A questo connubio si aggiunge la propria formazione basata su un eclettismo che va dal pop-rock all’ambient, passando per il minimalismo. Il frutto di queste sollecitazioni si vede sette anni dopo l’ultimo lavoro solista, ed è il sorprendente Acting The Rubber Pig Redux del 2014.  Segno di un rinnovato entusiasmo, dopo meno di un anno Quinn fa uscire, con un vecchio sodale come il trombettista Andrew Blick, un nuovo album a nome One More Grain.


 Ed è proprio il caso di parlare di entusiasmo. La voglia e il gusto di comporre e di suonare si palesa in ognuna delle nove tracce di Grain Fever ed è una gioia l’ascolto di questa musica ispirata.

mercoledì 24 giugno 2015

ET IN ARCADIA EGO

GUERCINO / NICOLAS POUSSIN

Guercino, I pastori d'Arcadia Barberini

Va attribuita al Guercino la paternità del motto Et In Arcadia Ego, iscritto sulla base di un monumento funebre rivolto allo sguardo dell’osservatore nella tela I pastori d’Arcadia, dipinta tra il 1618 e il 1622. Quadro che colpì molto Nicolas Poussin, tanto che qualche anno dopo si cimentò anch’egli nello stesso soggetto e riportò l’identica iscrizione. Nel 1638 il pittore francese dipinse un’altra versione dei Pastori d’Arcadia, con la solita scritta. Da allora la sentenza latina e i tre quadri sono diventati oggetto di un vero e proprio culto esegetico, nel quale si sono sbizzarriti interpreti che hanno dato origine a percorsi di lettura che annodano tutti i luoghi comuni dell’iconografia esoterica. Evidentemente il semplice memento mori associato ad uno dei topoi per eccellenza della cultura secentesca, quello dell’ambientazione arcadico-pastorale, era troppo semplice per giustificare le tre tele che, invece, nasconderebbero verità inenarrabili. O meglio, narrabili solo per gli iniziati capaci di intendere. Fatto sta che a seguito dell’interpretazione dei Pastori d’Arcadia, gruppi di illuminati hanno cominciato a scavare nelle campagne di Rennes-le-chateau alla ricerca del corpo di Gesù Cristo…

Poussin, I pastori d'Arcadia Chatsworth House

Poussin, I pastori d'Arcadia Louvre




venerdì 19 giugno 2015

EUGENIO MONTALE

OSSI DI SEPPIA - 1927





Quante volte avrò letto gli Ossi di seppia? Come Dante e Leopardi, Montale è il poeta della vita, a cui si torna ripetutamente. Ma a differenza di Dante e Leopardi, che non deludono mai, ad un certo punto Montale ha iniziato a perdere lo smalto. E se nell’adolescenza la scoperta degli Ossi aveva i segni della folgorazione e nella gioventù si consolidava quale opera assoluta, con l’età matura l’indiscutibilità del suo valore veniva sempre più messa in discussione.

Certo Montale resta fondamentale nella storia della poesia italiana tra le due guerre, ma come ‘opera complessiva’ gli Ossi sono andati progressivamente ridimensionandosi, soprattutto se presi nel contesto della poesia universale.

Ho appena riletto gli Ossi. In limine ha una chiusa notevole: “ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine…” ma il resto si colloca in un solco post pascoliano con una seconda strofa micidiale (frullo, volo, eterno grembo, crogiuolo). Ne I limoni, invece, dopo aver creato una bella oggettivazione paesaggistica, l’incanto si inceppa in un ridondante metaforismo (vv. 26-29), per chiudersi con un raccapricciante “le trombe d’oro della solarità”. Ancora più patetico il finale di Corno inglese. Di Esterina resta l’immagine “il lacciòlo – per fortuna non lacciuolo – d’erba del fanciullo”. Anche se a ripensarci la doppia specificazione fa molto poeta alle prime armi. Minstrels meglio lasciar perdere. Si salva l’esercizio retorico dell’Epigramma per Camillo Sbarbaro. Si può fare a meno degli altri Movimenti.

Eccoci alla sezione degli Ossi di seppia veri e propri e qui siamo di fronte ad un poeta che commette pochi passi falsi. Questi sono, per la precisione, Ciò che di me sapete, Tentava la vostra mano la tastiera, Debole sistro al vento. Tra gli altri diciannove componimenti, tutti notevoli, spicca una scaglia poetica bellissima, Valmorbia. Mediterraneo è, al contrario, tutto da scartare.

La sezione Meriggi e ombre si apre con il narrativo Fine dell’infanzia seguito dall’ormai cliché di Agave sullo scoglio. Un episodio minore, Vasca, immette a tre liriche decisamente didascaliche. Puri esercizi di stile vuoti e consunti. La seconda parte di Meriggi e rappresentata da Arsenio, in giustificata solitaria evidenza. La poesia è importante e pienamente riuscita. Della terza parte vanno citate Casa sul mare e Delta, mentre il colloquio con la tristezza di Incontro è illeggibile. Poco significativa anche la conclusiva Riviere.


domenica 24 maggio 2015

CANNES 2015

CRONACHE DA LA CROISETTE



Il cuore del festival di Cannes sono i critici accreditati. Sbadigliano e bofonchiano tra loro al buio delle proiezioni, chiacchierano tra loro  e non sbadigliano, schermati da occhiali scuri, al Le Claridge. Ognuno attento ai concorrenti della nazione di appartenenza. Così i francesi si schierano con Jacques Audiard e con La loi du marché. Gli inglesi parlano solo di Amy e tifano Roth e Caine. Gli italiani si inorgogliscono per il trio delle meraviglie e gli americani hanno già assegnato l’Oscar a Carol e a Cate Blanchett.

Qui a Cannes sembra che i film si guardino sulle sezioni specifiche dei siti della stampa qualificata (Le film francais, The Guardian, Variety…):  si consultano le pagelle, si contrano le stelle assegnate. Bel festival, comunque.

Tra i film visti, ruffiano ma pregevole l’ungherese, opera prima, Saul fia. Sicura la nomination come miglior film straniero ai prossimi Oscar. Relegato alla Quinzaine  Green Room del talentuoso Jeremy Saulnier, del quale avevamo apprezzato il precedente Blue Ruin. Ha un futuro da cult. Da un autore in ascesa, uno che affonda: il supponente Noè non ci aveva mai convinto. Perfetto come narcothriller Sicario.

Il meglio, però, arriva dall’Oriente. Cinema puro e innovazione per Nie yin niang del maestro cino-taiwanese Hou Hsiao-Hsien, il wuxia che si eleva oltre il genere. Con il tripartito Shan he gu ren siamo di fronte ad un nuovo affresco di Jia Zhang-ke a definire, compiutamente, la Cina odierna.


Manierismo, gli italiani. Moretti che rifà – molto bene, tra l’altro – Moretti; Garrone che rifà Pasolini; Sorrentino che rifà Fellini. Una giuria ‘ecumenica’ darebbe la Palma a Mia madre. Personalmente, la darei a Nie yin niang. Più verosimilmente, la vittoria andrà allo stucchevole Carol.



martedì 19 maggio 2015

TORQUATO TASSO

LA GERUSALEMME LIBERATA






Rileggendo la Gerusalemme Liberata sono rimasto colpito dall’atmosfera cruenta e sanguinaria del canto nono. Alcuni passaggi anticipano eccessi che diverranno comuni nella produzione letteraria dal Settecento in poi, fino alle recenti trasgressioni trash e gore, che per certi critici costituiscono la cifra più significativa della letteratura contemporanea.

Il canto si apre con la presenza di un infido mostro infernale che istiga 
l’eroe Solimano ad assalire, nottetempo, l’esercito cristiano addormentato. Ecco come Tasso descrive il momento che precede la battaglia:

Ma già distendon l’ombre orrido velo
che di rossi vapor si sparge e tigne;
la terra in vece del notturno gelo
bagnan rugiade tepide e sanguigne;
s’empie di mostri e di prodigi il cielo,
s’odon fremendo errar larve maligne    IX 15

Bello il contrasto tra le tinte cupe, nere di ombre e i tocchi rossi dei vapori e della rugiada, addirittura sanguigna. Inoltre, il cielo notturno si riempie di spaventose creature. Tale scorcio inquietante tanto lungi dal cantare chiaro dell’Ariosto! All’opposizione coloristica si affianca il motivo sonoro prodotto dalle larve maligne che da insinuante si fa fragoroso con l’inizio dell’assalto:

Dan fiato allora a i barbari metalli
gli Arabi, certi omai d’essere sentiti.
Van gridi orrendi al cielo, e de’ cavalli
co ’l suon del calpestio misti i nitriti.
Gli alti monti muggír, muggír le valli,
e risposer gli abissi a i lor muggiti,   IX 21

Ma è con lo svolgersi della campagna che il Tasso si lascia andare ad un crescendo macabro e sanguinario. Molte, infatti, le descrizioni di amputazioni sulle quali il poeta indugia quasi voluttuosamente. Tra queste, il massacro di Latino e dei suoi cinque figli, che vengono infilzati uno ad uno davanti agli occhi del padre. Il primo “tra i cigli parte il capo e tra le gote”, poi “Caggiono entrambi, e l’un su l’altro langue / mescolando i sospiri ultimi e ’l sangue.” Ancora, ad un altro figlio, Solimano “gli urta il cavallo addosso e ’l coglie in guisa / che giù tremante il batte, indi il calpesta.” Restano i due gemelli e “a l’un divide / dal busto il collo, a l’altro il petto incide.”

Infine, il feroce Solimano non può risparmiare il padre:

e ’l ferro ne le viscere gli immerse.
Il misero Latin singhiozza e spira,
e con vomito alterno or gli trabocca
il sangue per la piaga, or per la bocca.  IX  38

Il canto prosegue con altre descrizioni di mutilazioni e traumi. Tra le quali questa, inferta dalla bella Clorinda al cristiano Gerniero, in cui una mano mozzata continua ad agitar le dita come moncon di coda di serpente:

La destra di Gerniero, onde ferita
ella fu già, manda recisa al piano:
tratta anco il ferro, e con tremanti dita
semiviva nel suol guizza la mano.
Coda di serpe è tal, ch’indi partita
cerca d’unirsi al suo principio invano.  IX  69

Clorinda e gli altri guerrieri continuano a fare stragi e decapitano, trapassano, conficcano, il tutto tra sangue che sgorga a fiumi e scintillar di lame, finché “L’aurora intanto il bel purpureo volto / già dimostrava dal sovran balcone” e, sul finire del canto, appare un drappello di cavalieri:

nova nube di polve ecco vicina
che folgori di guerra in grembo tiene,
   ecco d’arme improvise uscirne un lampo
che sbigottí de gli infedeli il campo.
 Son cinquanta guerrier che ’n puro argento
spiegan la trionfal purpurea Croce.  IX  91 – 92

Che divertimento leggere la Liberata!






Immagini: Matteo Stom, Venezia XVII secolo, due Battaglie notturne
Vittore Carpaccio, San Giorgio e il drago, 1502 

martedì 12 maggio 2015

MICHEL HOUELLEBECQ

LE PARTICELLE ELEMENTARI - 1998



Le particelle elementari finisce quando avrebbe dovuto cominciare. Il romanzo parte da un’idea interessante. Il genere umano, come lo conosciamo oggi, non esiste più. È stato sostituito da una nuova specie di immortali a cui si è pervenuti grazie alle ricerche di biologia molecolare sviluppate da Michel Djerzinski. Houellebecq descrive, in parallelo, le vite del biologo e di suo fratello, per parte di madre, Bruno.

Tramite Michel e Bruno viene attraversata la seconda metà del Novecento, con particolare riferimento ai decenni Settanta e Ottanta, quelli che evidentemente lo scrittore conosce direttamente.

Delle vicende biografiche dei due protagonisti, Houellebecq ci squaderna nei minimi dettagli la vita sessuale. Iperattiva per Bruno, quasi astinente quella di Michel. Lo scopo è di testimoniare non la decadenza, ma la fine della civiltà occidentale. Simboli di un tale sfacelo e conseguente inizio di una nuova era sono il sesso e il vitalismo che si trasfigurano nel narcisismo e nella morte. Non a caso tutti i personaggi del romanzo sono segnati da una brutta fine. Tre suicidi e un internamento in un ospedale psichiatrico.

Tracciando il percorso esistenziale dei due fratelli, Houellebecq ha modo di ricapitolare quanto accaduto sulla scena intellettuale francese. Con “perfida destrutturazione” vengono  passati in rassegna tutti i suoi miti culturali. ”La risibilità globale in cui erano improvvisamente precipitati, dopo decenni di insensata sopravvalutazione i lavori di Foucault, Lacan, Deridda, Deleuze…aveva gettato discredito sull’insieme degli intellettuali che si definivano di scienze umane”, commenta il Narratore. Il quale fa dire a Philippe Sollers: “Tutti i grandi scrittori sono dei reazionari. Balzac, Flaubert, Baudelaire, Dostoevskij: reazionari”. In un simile sfascio culturale non poteva mancare il recupero di Nietzsche. “Ho una visione nicciana della vita. Nicciana sullo scadente”, blatera Bruno.

Houellebecq fa di tutto per rendersi antipatico, sfidando il lettore con pugni tirati a destra e a manca, da buon snob decadente. Ma il romanzo deve essere giudicato di per sé, indipendentemente dall’autore. In questo caso, contrariamente a Sottomissione, Le particelle elementari è, a voler essere indulgenti, un mezzo fallimento.


giovedì 7 maggio 2015

LIBANO - SIRIA

OFFENSIVA HEZBOLLAH  
5 MAGGIO 2015



Tfail è un villaggio libanese che si trova in una lingua di territorio incuneata all’interno della Siria. Il confine, segnato solo sulle mappe, è a qualche centinaio di metri dalle case del villaggio. Zona grigia, enclave e terra di nessuno, con la guerra civile siriana quest’area ha visto intensificarsi scontri tra le varie fazioni in lotta e continui attraversamenti di confine. Soprattutto di milizie sciite che dal Libano portano attacchi ai rivali di Assad. 

In questa provincia occidentale della Siria sono attivi gli islamisti di Al Nusra, affiliati ad Al Qaeda. Si ripropone, per tanto, il solito scontro tra sciiti e alawiti da una parte e i sunniti dall’altra. Nel mezzo i circa duemila abitanti di Tfail. Isolati per diversi mesi, nell’ottobre del 2014 sono stati raggiunti da un convoglio della Croce Rossa libanese, dopo trattative che hanno coinvolto Hezbollah, leader sunniti, forze governative di Beirut e Damasco. Ma subito dopo l’intervento, gli scontri sono ripresi e hanno lasciato sul campo diverse vittime. 

L’ultimo di questi scontri porta la firma di Hezbollah. Due giorni fa, sono caduti, in un’imboscata, almeno una quindicina di miliziani di Al Nusra. Gli sciiti libanesi, secondo fonti della sicurezza di Beirut, riportate dal quotidiano The Daily Star, raggiunto Tfail hanno poi compiuto un’incursione in territorio siriano, nella provincia di Qalamoun, distruggendo una postazione qaedista. 

Lo stesso giorno varie unità di islamisti operanti nella stessa area siriana hanno annunciato, via Twitter, la formazione di una cellula dell’Esercito della Conquista,  gruppo nato da pochi mesi e in espansione nella galassia del terrorismo anti Assad.


 “By the grace of god, the Army of Conquest of Qalamoun has been established from the loyal and truthful members of most factions in Qalamoun,” il twit. La situazione siriana è sempre più complicata.

Milizie Hezbollah

martedì 5 maggio 2015

JERZY KAWALEROWICZ

POCIAG
IL TRENO DELLA NOTTE - 1959


Bianco e nero, camera che dall’alto riprende gente in movimento in una stazione. Scorrono i titoli di testa e parte il jazz della colonna sonora. Non è un film francese di Louis Malle, siamo in Polonia alla fine degli anni Cinquanta e il regista Jerzy Kawalerowicz ci lascia letteralmente a bocca aperta per la bravura con cui dirige questo classico del cinema polacco. È soprattutto il suo modo di usare la macchina da presa che colpisce. A parte qualche angolatura eccentrica, il registra riprende le scene entro limiti strettissimi di movimento. 

Quasi tutto il film è girato negli angusti e affollati spazi del corridoio di un treno o negli scompartimenti. Questi ambienti di ridotte dimensioni vengono ampliati da punti di fuga quali finestrini, specchi o porte di altri scompartimenti che, aprendosi, guidano lo sguardo, oltre i passeggeri, entro nuove quinte. In queste scene la macchina da presa è un occhio, posto ad altezza umana. Un occhio curioso, che sbircia, che scruta le facce, che entra nell’intimità degli altri, oltre le porte socchiuse. Fino all’espediente estremo in cui la macchina da presa coincide con lo specchio al quale la protagonista si avvicina per togliersi un bruscolo dall’occhio.

Anche se è quella che fa la differenza, non c’è solo tecnica di ripresa in Pociag. C’è anche una storia, forse un po’ scontata ed infatti, più del plot narrativo, è interessante l’ambiente relazionale che il film crea. Come in Stagecoach, il viaggio in treno accosta una serie di personaggi, di figure, che nel corso delle ore assumono ruoli precisi, paradigmatici. Il viaggio e la condivisione dell’avventura notturna costruiscono una comunità, destinata a sciogliersi con l’arrivo alla meta, sulle rive del Baltico.


Tutto in questo film è elegante. Fotografia, colonna sonora, gli attori e, naturalmente, la regia, che elude coraggiosamente ogni riferimento ai temi sociali e progressivi cari al cinema d’Oltrecortina. Il facile accostamento a Hitchcock, proposto dalla critica, mi sembra limitato alla circostanza degli ‘sconosciuti in treno’. Del resto, la famosa scuola nazionale di cinema di Lodz, a pochi anni dalla fondazione, costituiva già una delle più importanti officine culturali, non solo della Polonia, ma dell’intera Europa.



domenica 26 aprile 2015

TOMMASO LANDOLFI / OSVALDO LICINI

LA PIETRA LUNARE - 1939
AMALASSUNTE - 1945-1950


“Questo è il cantare uterino di una folle” ebbe a dire Montale del romanzo, ancora inedito, che l’amico Tom gli aveva chiesto di leggere. Effettivamente siamo di fronte ad una follia visionaria, ed anche uterina, costruita con la solita ricercata perfezione linguistica di Landolfi, molto vicina alla prosa leopardiana.

Se per la tematica trattata La pietra lunare turbava Montale, figuriamoci l’accoglienza ricevuta presso la comunità letteraria di quei tardi anni Trenta. Landolfi si spinge ben oltre il limite dell’oscenità consentito e la forza del romanzo è ancora oggi stupefacente quanto poco riconosciuta. (non si capisce perché non vengano proposti nelle scuole superiori brani dell’autore di Pico; un racconto come La moglie di Gogol farebbe innamorare gli studenti…).

Il romanzo ha come protagonista Giovancarlo, “studente ormai del second’anno”, che torna al paese di origine per trascorrervi le vacanze estive. Il suo ingresso a casa dello zio è giocato tutto sul registro di un realismo ironico. Vengono messi in evidenza, come attraverso una lente d’ingrandimento, i parenti seduti attorno al tavolo, le loro espressioni, i comportamenti. Landolfi assegna ad ognuno un tic, un’espressione, un atteggiamento che si reiterano nel corso dell’incontro. Emerge così il vuoto della quotidianità ripetitiva che degenera poi, su maliziosa sollecitazione di Giovancarlo, in una ridda feroce fatta di maldicenze e cattiverie.

Giovancarlo, studente e soprattutto poeta, timido e impacciato, non può che sentirsi estraneo all’ambiente paesano, ma proprio quando la serata volge al termine, ecco l’apparizione di Gurù. Ragazza dagli occhi “accesi di riflessi violacei e profondi” che all’istante ammalia lo studente e d’un subito capovolge la situazione stantia, dominata da un “odore pesante d’avanzi di lavatura di piatti e d’insetti domestici”, per aprire ad un nuovo scenario erotico-fantastico nel quale il naufragar sarà dolce.



Dolci e lunari e inquietanti come Gurù le Amalassunte di Osvaldo Licini, il quale così le descrive: “L’Amalassunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco, perdutamente inabissata tra un seno a l’altro come ogni donna “







martedì 21 aprile 2015

SUFJAN STEVENS

CARRIE & LOWELL - 2015



Come nella più classica tradizione lirica, è il dolore che ispira Sufjan Stevens. Dolore causato da una perdita, quella della madre. L’assenza suscita il ricordo, legato a momenti e luoghi precisi. Carrie&Lowell vive di questi momenti ma non solo.

Il fatto più naturale del mondo, la morte, resta in un angolo oscuro, remoto, indefinito, fino a quando non lo sperimentiamo direttamente. Allora il mistero acquisisce la forza della realtà effettuale e impone domande.

Stevens costruisce il suo ultimo album su queste domande che lo portano a confrontarsi con gli elementi della cultura e della spiritualità. Ecco che, oltre alla situazioni del passato, oggettivate nel paesaggio dell’Oregon, si fanno fitti i riferimenti alle Scritture e alla mitologia classica.

Questo materiale, che è sia concreto che intellettuale, viene assimilato e ricomposto da Sufjan Stevens in chiave esistenziale, in testi che hanno un’origine profondamente personale ma che l’autore, con delicata maestria, riesce a rendere universali.


Le liriche esprimono al meglio questo insieme di ispirazione, le musiche e il canto sono perfettamente funzionali alle intenzioni. Ne scaturisce un album che da subito si afferma come un classico della cultura popolare. Carrie&Lowell supera i confini della ‘musica rock’ e allo stesso tempo ne rimane all’interno. Si può dire che risulta essere tra le manifestazioni più rappresentative di un intero genere, tale da costituirne una delle sue forme canoniche.

lunedì 13 aprile 2015

RAND PAUL

PRESIDENZIALI USA - 2016
RAND PAUL


Il 7 aprile Rand Paul ha ufficialmente dichiarato la sua candidatura per le Presidenziali USA del 2016. Lo ha fatto dal Galt House Hotel di Louisville, in Kentucky. I nomi, in questa storia, sono importanti e forse non del tutto casuali. Rand richiama subito alla mente Ayn Rand, la leader dell’Oggettivismo, tanto caro al deputato Ron Paul, padre del neo candidato repubblicano. Ayn Rand è anche l’autrice del più importante long seller americano, quell’Atlas Shrugged il cui protagonista si chiama John Galt, come l’hotel dal quale Rand Paul ha fatto l’annuncio.

Siamo in pieno zona Libertarian, in quell’area sfocata del Partito Repubblicano che, se da un lato flirta con il Tea Party, dall’altro potrebbe anche accostarsi all’ala più radical dei Democratici. E nel suo discorso di candidatura, Rand Paul ha subito messo in chiaro la propria indipendenza e ha criticato sia i Dem che il GOP, denunciando il clima di consorteria bipartisan che regna nel Congresso (“It seems to me that both parties and the entire political system are to blame. Big government and debt doubled under a Republican administration. And it’s now tripling under Barack Obama’s watch”).
Ma il discorso non è stato esaltante. Paul ha parlato molto di sé, della sua esperienza di chirurgo oculista e della sua campagna umanitaria di operazioni oculari in Guatemala. Ha raccontato della sua adolescenza e dei vari lavori fatti quando era studente, dall’imbianchino al giardiniere. E ha affermato che un individuo deve farsi strada nella vita e nella società grazie alle sue forze e all’autostima, qualità che solo il lavoro e l’autosufficienza possono incrementare. Ed ecco citati i suoi figli, che hanno irrobustito la loro formazione e coscienza di sè anche attraverso il lavoro  (“Self-esteem can’t be given; it must be earned. Work is not punishment; work is the reward”).

Poi il mantra dei tre punti fondamentali della sua concezione politica: “justice, opportunity and freedom”, ripetuto varie volte nel corso di un  discorso deludente e poco concreto. Ma capace di infiammare gli accoliti. Senz’altro la raccolta di fondi avrà un buon avvio.

Hillary Clinton, per ora, non ha molto da temere da questo Rand Paul. Ma siamo solo all’inizio, anzi, al pre-inizio e c’è ancora un anno e mezzo prima del novembre 2016. 

sabato 11 aprile 2015

MANDARINI

MANDARIINID / TANGERINES
ZAZA URUSHADZE - 2013


Le dramatis personae sono quattro. Il vecchio Ivo, centro della narrazione e Margus, il proprietario dei mandarini, entrambi estoni; un mercenario ceceno; un soldato georgiano. Luogo dell’azione, una vallata della Georgia, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Situazione di guerra. Comunità in lotta per la terra, in un contesto plurietnico come quello del Caucaso.

I fatti si svolgono tra la casa di Ivo e il vicino agrumeto di Margus, un posto completamente fuori dal tempo e dallo spazio che la nitida fotografia rende suggestivo e quasi favoloso. Verde della vegetazione, marroni del legno e del fango, l’arancio dei mandarini. In questo piccolo mondo semplice e immutabile irrompe la guerra con l’ottusità e le convinzioni dogmatiche che le sono proprie, che fanno di ogni parte in campo quella che è convinta di detenere  ragione e verità assolute.

Tra le quattro persone che sono costrette a convivere nella spoglia casa di Ivo e a dividere il suo povero cibo, si crea, con il passare dei giorni, una certa intimità, che stempera l’odio violento iniziale e si traduce in una scontrosità più di maniera che effettiva. Dopo tutto ognuno deve mantenere la propria posizione dettata dalle differenze di etnia e di religione. Ma la saggezza di Ivo, fatta di ironiche sottolineature e di amabile sarcasmo, impedisce che la situazione degeneri.

Sarà di nuovo la guerra, con le sue incursioni improvvise, a destrutturare l’equilibrio che, tenacemente, il vecchio Ivo stava imponendo.


Sappiamo già che qualcosa andrà storto. Sappiamo anche che il film vuole trasmettere il solito messaggio contro la violenza e la guerra, ma il regista riesce a dosare con leggerezza e grande umanità gli espedienti del racconto. E quando, sui titoli di coda, la macchina da presa si innalza, in campo sempre più esteso, sul paesaggio georgiano all’imbrunire, anche il nostro animo si solleva da terra, felice ed emozionato per aver visto questo film.



domenica 5 aprile 2015

GEORGES SIMENON

L'UOMO DI LONDRA, 1933





Louis Maloin è addetto agli scambi alla stazione marittima di Dieppe, dove

attraccano i traghetti che provengono dall’Inghilterra. Fa il turno di notte

e la sua vita segue, al minuto, lo stesso ritmo da anni.

“Avevano cenato alle sette, come al solito”. 
 
“La sera quando usciva, sempre alla stessa ora, esattamente alle otto meno sei…”.
“Alle otto meno due minuti passava davanti alla stazione. Alle otto meno un minuto saliva la scala che lo portava al suo gabbiotto. Era un posto davvero piacevole, il miglior punto di osservazione di tutta la città”.

“Di solito andava a letto subito dopo mangiato, si alzava verso le due”.
“Di solito, quando rientrava, mangiava un piatto di carne e un po’ di patate riscaldate, ma stavolta…”.
“Cercò di dormire come gli altri giorni, ma dopo neppure un’ora si alzò”.
“Di solito Maloin non si vestiva per il pranzo. Ma questa volta comparve sulla soglia della cucina con l’abito della domenica”.

Con questi semplici mezzi espressivi, Simenon manifesta l’essenza del romanzo. La ripetitività esistenziale (“al solito”, l’ora esatta) e l’evento che interrompe il corso scandito della quotidianità (“ma stavolta”). Ai quali si aggiunge il “punto di osservazione”, vero stilema del romanzo, che viene raccontato ‘visivamente’.

Gli accadimenti, specie nella prima metà del libro, la migliore, sono visti. Simenon conduce la narrazione secondo un procedimento che è filmico. Dalla cabina di Maloin lo sguardo spazia sulle banchine del porto, sulla stazione, sulla città. Ma la genialità dello scrittore belga sta nel fatto che le scene più importanti avvengono di notte e con la nebbia. Quindi si vedono e non si vedono. E quando non si riescono a vedere, si odono, attraverso i rumori, le voci, le sirene. C’è, inoltre, un momento importante del racconto, in cui non volendo far vedere, si crea uno schermo di vapore che appanna i vetri “del miglior punto di osservazione della città”, rendendo impossibile la visione.

La seconda parte del romanzo è forse meno coinvolgente, ma ha il pregio di anticipare certe situazioni che Camus avrebbe narrato ne Lo straniero qualche anno più tardi. Come Meursault anche Maloin si fa trascinare dagli eventi e dal caso. “Quel che più lo irritava era che le cose sarebbero potute andare diversamente. Tutto era dipeso da una serie di circostanze.”
Anche ne L’uomo di Londra c’è un avvocato assegnato d’ufficio che afferma: “Mi permetto di dirle che non ne ha imbroccata una”. E anche per Maloin come per Meursault: “Tutti sono d’accordo nel giudicare rivoltante il suo cinismo”.

Ovviamente, non si tratta di cinismo, ma questo lo sappiamo noi, Maloin e Simenon.







martedì 31 marzo 2015

BRISTOL SOUND

SCENA MUSICALE DI BRISTOL 
1979 - 1991



Oltre l’estuario c’è il Galles di Dylan Thomas e di John Cale. A Bristol, nella taverna dell’Ammiraglio Bembow, Jim Hawkins vide entrare “un vecchio marinaio, alto, forte, dal viso abbronzato, dal codino incatramato falling over the shoulder of his soiled blue coat”.

Intorno al 1976 anche tra i kids di Bristol si diffondeva il morbo del rinnovamento musicale. Alla discarica il sinfonismo e la psichedelica, basta l’incazzatura contro il mondo per mettere su una band e urlare in faccia ad altri incazzati la propria rabbia e la propria sfiducia. God Save e The Clash 1977 sono lo spartiacque generazionale. Se lo hanno fatto Lydon e Joe lo può fare chiunque. Anche a Bristol. Si forma così il Pop Group, ed esplodono le bombe.

Due album micidiali e altri pezzi sparsi di estrema potenza e bellezza come Genius or lunatic, She’s beyond good and evil, Color blind che innascano un’autodistruzione creativa. Schegge del Pop Group genereranno altri capolavori come il folle jazz isterico di Rip Rig and Panic o l’hop industriale di Stewart and Maffia, che vanno a pescare l’inno Jerusalem, di William Blake, e lo fanno diventare il vertice programmatico del collettivo.

È nell’humus fertilissimo di Bristol, città natale di Robert Wyatt, che nascerà, tra fine ’80 e l’inizio dei ’90, il trip hop che nelle sonorità dub di Stewart irrobustirà le proprie radici. Il frutto è Blue lines dei Massive Attack. Gli angoli si sono smussati, il suono è vellutato ma sotto la levigatura ribolle lo spirito bristoliano dei quindici anni precedenti.

Le tappe

1979 – Y, The Pop Group
1980 – For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, The Pop Group
1980 – We Are Time (Compilation), The Pop Group
1981 – God, Rip Rig & Panic
1982 – Jerusalem, Mark Stewart & The Maffia
1983 – Learning To Cope With Cowardice, Mark Stewart & The Maffia

1991 – Blue Lines, Massive Attack



sabato 28 marzo 2015

SOTTOMISSIONE

A PROPOSITO DI UN ROMANZO



Molto interessante la polemica intercorsa recentemente sul Corriere tra Ernesto Galli della Loggia e Elisabetta Sgarbi a proposito di una certa pavidità mostrata dagli editori francesi e italiani del romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq. Secondo l’opinionista del Corriere, Flammarion e Bompiani – e lo stesso Houellebecq – hanno rivelato paura di apparire islamofobi nel non dichiarare apertamente, connotandolo negativamente, il termine Islam nella presentazione del romanzo al pubblico. Termine che, citando della Loggia  “è rigorosamente bandito sia dalla quarta di copertina dell’edizione originale di Flammarion sia dalla bandella della traduzione italiana di Bompiani. Ci sono state repliche e controrepliche da parte degli interessati (Sgarbi e della Loggia, Corriere della Sera 13, 14, 15 marzo…). 

Innanzi tutto Bompiani ha avuto il merito di pubblicare quello che rimane, polemiche e successo a parte, uno dei più importanti romanzi usciti negli ultimi anni. Penso che a Galli della Loggia sia sfuggito questo. Si tratta di un’opera letteraria, dalla struttura poetica molto complessa, che sviluppa una tesi che va oltre l’ambito ‘artistico’, come ogni opera degna di questo nome di solito fa. Un romanzo ben scritto e di sostanza che riesce ad illuminare aspetti riguardanti la società di cui è frutto.


Sottomissione è un esercizio di stile. Un ottimo esercizio di stile, che si muove prima di tutto all’interno del genere romanzo, all’interno, quindi, della letteratura. Poi c’è dell’altro. Molto altro. Come altro c’è nel Candide, in Justine, in  À rebours.  Molti critici hanno parlato di Sottomissione come se fosse un saggio, mettendone in rilievo aspetti non supportati da rigorosità scientifica e risultanti, di conseguenza, approssimativi.  Non è questa la lente con cui dovrebbe essere letto e valutato Sottomissione.  C’è da dire, però, che ogni lettore di un testo ha tutta la libertà di interpretare il testo come vuole ma certe prese di posizione appaiono pretestuose. Comunque, il fatto che un romanzo susciti reazioni è una testimonianza della sua importanza.