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mercoledì 1 luglio 2015

GREXIT

BREVE RASSEGNA STAMPA

Novembre 2011, non ieri


Sono anni ormai che sul caso Grecia i media strillano che si è giunti alle ore decisive, al punto di non ritorno. Usa questa espressione, “point of no return”, Paul Krugman nel suo ultimo editoriale sul New York Times. Secondo il principe degli opinionisti economici, l’euro è un “terrible mistake” e ciò che sta succedendo ad Atene è diretta conseguenza di quell’errore. Quindi, il popolo greco dovrebbe votare no al prossimo (?) referendum ed uscire dalla moneta unica, perché “The euro trapped Greece in an economic straitjacket”. Krugman fa poi l’esempio di due paesi, Canada e Islanda, i quali, grazie alla loro indipendenza monetaria, sono riusciti a superare una grave crisi. Giusto a titolo di inciso, il Canada è una grande economia ben organizzata e ricca di risorse naturali; l’Islanda è un paese di 300.000 abitanti con una consolidata tradizione di civismo anche economico: con il paese mediterraneo hanno poco a che fare. Per la Grecia, restare nell’Eurozona, conclude Krugman, significherebbe morire di austerità e, dal momento che il danno di un’eventuale Grexit si è già consumato negli ultimi anni, tanto vale uscire e riconquistare l’indipendenza.

Sul Guardian è un altro guru, Joseph Stiglitz, ad intervenire. Anche per Stiglitz il popolo greco dovrebbe votare no al prossimo (?) referendum, ma secondo lui il problema non riguarda tanto questioni economiche e di denaro quanto aspetti legati al potere e alla democrazia. La cura a base di austerità ha finito per peggiorare e compromettere le condizioni del paziente e i miliardi utilizzati per un salvataggio che non è mai avvenuto, sono serviti principalmente per pagare i “private-sector creditors, including German and France banks”. Per Stiglitz i creditori ufficiali (la Troika) non hanno necessità così impellenti di riavere il denaro prestato, quindi la rigidità mostrata ha un’altra motivazione. Il progetto euro, continua Stiglitz, non ha nulla di democratico, mentre la vittoria di Syriza è stata una grande affermazione di democrazia e molti dei leaders europei vorrebbero vedere soccombere Tsipras. Votare no significa, per la Grecia, riprendere il suo futuro nelle proprie mani.


Anche Bernard-Henri Lévy si auspica un’uscita della Grecia dall’euro, non sulla base dell’esito referendario, ma a seguito di una definitiva chiusura, da parte dell’Europa, delle trattative. Il filosofo francese, sul Corriere della Sera, esprime poi un giudizio durissimo sul leader greco, definito “un demagogo incendiario che sta portando il proprio popolo nel baratro”. 

domenica 25 maggio 2014

SINISTRA LIBERALE E RADICALE


Europee, i Radicali non partecipano al voto 
Ma finché ci sono loro c’è speranza

Pubblicato da Piero Sansonetti in ‘gli Altri’ il 23 maggio 2014  


Mentre cala il silenzio elettorale e si aspetta l’esito della sfida a tre – fra Renzi, Grillo e Berlusconi – i radicali restano fuori dal voto. E così si realizza il paradosso che, se vuoi parlare di politica, devi uscir fuori dalla contesa elettorale. La politica ufficiale, di Palazzo, è tutta racchiusa in una sfida personalistica, di abilità comunicativa, fra tre leader privi di programmi e di valori ideali; la politica marginale trova sbocco nell’attività radicale che pone sul tappeto grandi questioni come la giustizia, i diritti, il carcere, l’amnistia, la lotta al giustizialismo, il ripristino dello stato di diritto.
Tutto ciò è ancora più paradossale se si pensa che fino a vent’anni fa l’impressione, nell’opinione pubblica, era esattamente opposta alle sensazioni di oggi: c’era Pannella, istrione, grande comunicatore, maestro della politica spettacolo – e che per questo veniva criticato da tutti – contrapposto alla tetraggine delle burocrazie e degli anonimi apparati collettivi di partito.
Come è avvenuta questa metamorfosi? Bisogna tenere conto di tante cose. La prima – essenziale – è quella che ci interessa oggi: non è vero che negli anni ottanta la contrapposizione fosse tra “l’istrione” e “il collettivo” . Succedeva semplicemente che la grande politica dei partiti di massa era sorda alla modernità delle questioni che il partito radicale gettava nell’arena della lotta politica, non riusciva a sentirle né a vederle, e perciò reagiva concentrando lo sguardo sui metodi clamorosi e nuovi, di lotta politica, inventati da Pannella, senza accorgersi della modernità della lotta politica che proponeva. La modernità dei contenuti. Provate oggi a correre con la memoria a quegli anni. Il divorzio e poi l’aborto, la lotta alla fame nel mondo, i diritti dei soldati, dei carcerati, degli omosessuali, delle donne, la battaglia antiproibizionista, l’antimilitarismo… Come si faceva a pensare che fossero questioni marginali, e che nessuna battaglia politica potesse essere condotta – a sinistra – se non in funzione dei diritti sindacali, oppure – a destra – senza rispettare i principi del cristianesimo Vaticano o della grande ideologia conservatrice e post fascista (ordine, disciplina, merito, rispetto)?
I partiti politici di massa, in quegli anni, non colsero in nessun modo il radicalismo profondo del partito radicale. Non capirono che era un radicalismo di sostanza e non di forme, e che poneva due grandi questioni: entrare a pieno titolo nella modernità ed entrare nella democrazia compiuta. Perché in quegli anni, la modernità era considerata un disvalore, e nessuno vedeva i limiti della “democrazia realizzata” con lo Stato Repubblicano e la necessità di farle compiere un salto in avanti, superando le paure, le ragioni di stato, le burocrazie, i barocchismi, gli ideologismi. Paure di che? Semplicemente della libertà. La macchina politica – socialmente formidabile – della prima Repubblica, lodava la libertà ma la temeva, riteneva che avesse bisogno di un involucro, di un sistema collettivo di limitazione e di organizzazione. Amava la libertà organizzata e finalizzata, non concepiva nemmeno la “libertà libera”.
Allora, probabilmente, nacque una frattura profondissima tra politica e modernità. E quella frattura portò la politica a vivere in una dimensione che era interamente interna “al patto di Yalta” e ai suoi automatismi. Caduta l’Europa di Yalta, nell’89, e caduti gli automatismi, la fortezza della politica si sgretolò e fu divorata, in pochi mesi, da nuovi poteri – molto più moderni e molto più spregiudicati, e molto più feroci – tra i quali, prima di tutto, il potere giudiziario.
La crisi politica di oggi nasce da lì. Da quegli errori. E la seconda Repubblica è venuta su riproducendo tutti gli errori della prima. Né la destra di Berlusconi, né la sinistra di Prodi, né quella di D’Alema, né la sinistra radicale, si sono davvero posti il tema dell’ingresso nella modernità. E cioè la necessità di uno sviluppo della civiltà in senso liberale, fuori dagli automatismi del socialismo e fuori dagli automatismi del mercatismo. Anzi, la nuova classe politica ha cercato una mediazione tra socialismo e mercatismo, immaginando che fosse quella mediazione – e dunque la moltiplicazione di difetti e sciagure – la porta per entrare nella modernità.
Così oggi ci troviamo dinnanzi alla politica-immagine, al solito governo di emergenza, e alla presunta opposizione – i grillini – incapace di indicare la prospettiva di una società diversa da quella autoritaria e fondamentalista che è nella mente del loro leader. Mentre la destra berlusconiana e la sinistra renzista non sanno a trovare fra loro nessuna differenza che non sia una differenza nella scelta del personale e del ceto dirigente.

E al margine di questo circo, che ha tirato a fondo e quasi annullato la democrazia politica, resta il drappello coraggioso dei radicali. Ce la faranno? Non so: so che finché loro esistono esiste anche la speranza.

domenica 27 novembre 2011

FANTAGEOPOLITICA DELL'EUROPA

NIALL FERGUSON
WALL STREET JOURNAL - 19 NOVEMBRE 2011


Sul WSJ di sabato 19 novembre, lo storico Niall Ferguson ha pubblicato un gustoso quanto provocatorio articolo sul futuro dell’Europa. Ripreso interamente dal Foglio di mercoledì 23 novembre, nei giorni successivi è stato citato in numerosi articoli e interviste su varie testate nazionali. Proprio questa mattina ne parla sul Corriere anche il banchiere svizzero Antonio Foglia.
Propongo le illustrazioni che accompagnano l’articolo del WSJ e una mia elaborazione cartografica che ne rappresenta il contenuto.


Peter Arkle - WSJ



Mark Nerys - WSJ
Gi italiani lavoreranno come camerieri o giardinieri per i tedeschi, i quali avranno tutti una seconda casa nella Holyday Belt


Getty Images - WSJ





martedì 15 giugno 2010

GEOPOLITICA

EUROPA ALLA DERIVA


RIPOSIZIONAMENTO DEGLI STATI EUROPEI.

REGNO UNITO Finalmente diviso, i recenti disastri economici e di conti pubblici non possono più tenere nascosta l’attrazione fatale verso gli stati del sud.

IRLANDA Anch’essa scivola in basso, sempre più PIGS.

PAESI BALTICI E POLONIA La Nuova Europa più atlantista degli atlantici veleggia verso gli USA lontano dai russi cattivi.

CEKIA La rivoluzione di velluto ha attuato ciò che il Belgio sogna da oltre un secolo, provino a scambiarsi di posto.

BELGIO Al posto della Cekia il Belgio potrà separarsi, come fanno sperare le recenti elezioni.

SVIZZERA Non più un’isola dentro all’UE, condividerà con la Norvegia pil pro capite ed euroscetticismo.

AUSTRIA Scrollata di dosso la Svizzera, un po’ più occidentale e con meno fantasmi mitteleuropei.

SLOVENIA E CROAZIA Ora confinano con la Germania e la Serbia è più lontana.

UKRAINA E BIELORUSSIA La nuova posizione, sul Baltico, orientata verso i Paesi nordici darebbe una mano sulla strada dello sviluppo e del senso civico

KOSSOVO E MACEDONIA Scambio di posizione così il primo non confina più con la Serbia e la seconda non confina più con la Grecia.

ITALIA Ovviamente divisa con il Sud sempre più afro-balcanico.