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mercoledì 28 maggio 2014

ELEZIONI EUROPEE 2014

GEOGRAFIE ELETTORALI


Dopo l’ubriacatura di cifre e commenti solo un riepilogo ‘spaziale’ dei risultati dei tre principali partiti. Per la prima volta nell’Italia repubblicana, la distribuzione territoriale del voto, può essere definita nazionale. Era già successo con il voto M5S alle politiche del 2013, molto uniforme in tutte le regioni, con PD circoscritto alle solite regioni rosse appenniniche e il PDL più forte al Nord e al Sud. Queste elezioni tendono ad attenuare le differenze tra le tre Italie della Seconda Repubblica (Lega-Forza Italia al Nord; Sinistra-Centro in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche; Forza Italia-Centro Destra al Sud). Il PD è il primo partito in tutte le regioni. Restano connotazioni regionali ma mai come dopo questo turno elettorale l’Italia si ritrova così unita ed omogenea. Elettoralmente parlando…


Voto al PD




Voto al M5S


Voto a FI

domenica 25 maggio 2014

SINISTRA LIBERALE E RADICALE


Europee, i Radicali non partecipano al voto 
Ma finché ci sono loro c’è speranza

Pubblicato da Piero Sansonetti in ‘gli Altri’ il 23 maggio 2014  


Mentre cala il silenzio elettorale e si aspetta l’esito della sfida a tre – fra Renzi, Grillo e Berlusconi – i radicali restano fuori dal voto. E così si realizza il paradosso che, se vuoi parlare di politica, devi uscir fuori dalla contesa elettorale. La politica ufficiale, di Palazzo, è tutta racchiusa in una sfida personalistica, di abilità comunicativa, fra tre leader privi di programmi e di valori ideali; la politica marginale trova sbocco nell’attività radicale che pone sul tappeto grandi questioni come la giustizia, i diritti, il carcere, l’amnistia, la lotta al giustizialismo, il ripristino dello stato di diritto.
Tutto ciò è ancora più paradossale se si pensa che fino a vent’anni fa l’impressione, nell’opinione pubblica, era esattamente opposta alle sensazioni di oggi: c’era Pannella, istrione, grande comunicatore, maestro della politica spettacolo – e che per questo veniva criticato da tutti – contrapposto alla tetraggine delle burocrazie e degli anonimi apparati collettivi di partito.
Come è avvenuta questa metamorfosi? Bisogna tenere conto di tante cose. La prima – essenziale – è quella che ci interessa oggi: non è vero che negli anni ottanta la contrapposizione fosse tra “l’istrione” e “il collettivo” . Succedeva semplicemente che la grande politica dei partiti di massa era sorda alla modernità delle questioni che il partito radicale gettava nell’arena della lotta politica, non riusciva a sentirle né a vederle, e perciò reagiva concentrando lo sguardo sui metodi clamorosi e nuovi, di lotta politica, inventati da Pannella, senza accorgersi della modernità della lotta politica che proponeva. La modernità dei contenuti. Provate oggi a correre con la memoria a quegli anni. Il divorzio e poi l’aborto, la lotta alla fame nel mondo, i diritti dei soldati, dei carcerati, degli omosessuali, delle donne, la battaglia antiproibizionista, l’antimilitarismo… Come si faceva a pensare che fossero questioni marginali, e che nessuna battaglia politica potesse essere condotta – a sinistra – se non in funzione dei diritti sindacali, oppure – a destra – senza rispettare i principi del cristianesimo Vaticano o della grande ideologia conservatrice e post fascista (ordine, disciplina, merito, rispetto)?
I partiti politici di massa, in quegli anni, non colsero in nessun modo il radicalismo profondo del partito radicale. Non capirono che era un radicalismo di sostanza e non di forme, e che poneva due grandi questioni: entrare a pieno titolo nella modernità ed entrare nella democrazia compiuta. Perché in quegli anni, la modernità era considerata un disvalore, e nessuno vedeva i limiti della “democrazia realizzata” con lo Stato Repubblicano e la necessità di farle compiere un salto in avanti, superando le paure, le ragioni di stato, le burocrazie, i barocchismi, gli ideologismi. Paure di che? Semplicemente della libertà. La macchina politica – socialmente formidabile – della prima Repubblica, lodava la libertà ma la temeva, riteneva che avesse bisogno di un involucro, di un sistema collettivo di limitazione e di organizzazione. Amava la libertà organizzata e finalizzata, non concepiva nemmeno la “libertà libera”.
Allora, probabilmente, nacque una frattura profondissima tra politica e modernità. E quella frattura portò la politica a vivere in una dimensione che era interamente interna “al patto di Yalta” e ai suoi automatismi. Caduta l’Europa di Yalta, nell’89, e caduti gli automatismi, la fortezza della politica si sgretolò e fu divorata, in pochi mesi, da nuovi poteri – molto più moderni e molto più spregiudicati, e molto più feroci – tra i quali, prima di tutto, il potere giudiziario.
La crisi politica di oggi nasce da lì. Da quegli errori. E la seconda Repubblica è venuta su riproducendo tutti gli errori della prima. Né la destra di Berlusconi, né la sinistra di Prodi, né quella di D’Alema, né la sinistra radicale, si sono davvero posti il tema dell’ingresso nella modernità. E cioè la necessità di uno sviluppo della civiltà in senso liberale, fuori dagli automatismi del socialismo e fuori dagli automatismi del mercatismo. Anzi, la nuova classe politica ha cercato una mediazione tra socialismo e mercatismo, immaginando che fosse quella mediazione – e dunque la moltiplicazione di difetti e sciagure – la porta per entrare nella modernità.
Così oggi ci troviamo dinnanzi alla politica-immagine, al solito governo di emergenza, e alla presunta opposizione – i grillini – incapace di indicare la prospettiva di una società diversa da quella autoritaria e fondamentalista che è nella mente del loro leader. Mentre la destra berlusconiana e la sinistra renzista non sanno a trovare fra loro nessuna differenza che non sia una differenza nella scelta del personale e del ceto dirigente.

E al margine di questo circo, che ha tirato a fondo e quasi annullato la democrazia politica, resta il drappello coraggioso dei radicali. Ce la faranno? Non so: so che finché loro esistono esiste anche la speranza.

giovedì 22 maggio 2014

ISLAM E DEMOCRAZIA

LIBIA, 19 MAGGIO 2014

Tripoli, 19 maggio 2014. Truppe armate nei pressi del Parlamento. Foto AP

La questione è di quelle che fanno tremare vene e polsi. La democrazia è un bene in assoluto, anche per comunità che nella loro storia non l’hanno mai conosciuta? La domanda è tornata ad imporsi dopo i recenti fatti di Libia ma essa si ripresenta regolarmente in riferimento al mondo islamico a partire dai fatti algerini del 1991.

In quell’anno infatti vennero indette, per la prima volta dall’indipendenza, libere elezioni. Fatto eccezionale in un paese arabo-islamico. L’Algeria aveva un passato recente di stato socialista, militare e laico e in quei giorni la rinascita islamista sembrava dovesse essere circoscritta molto più ad oriente che non lungo le coste del Mediterraneo. Focolai mascherati da resistenza anti sovietica si stavano consolidando in Afghanistan, di fatto ignorati, se non alimentati, dall’Occidente. Il pericolo dichiarato era l’Iran Khomeinista, contro il quale si confidava nell’alleato Saddam Hussein per alzare un firewall che impedisse un’eventuale esondazione islamista verso ovest. In Egitto la fratellanza musulmana era tenuta sotto le sabbie del deserto dai militari, quindi l’Islam integralista era del tutto ignorato. Destava semmai più preoccupazione l’Islam marxista, libico o palestinese che fosse. Quindi grande chance per la democrazia in Algeria ma la vittoria al primo turno delle elezioni nel dicembre del 1991 del Fronte Islamico di Salvezza coincise con la reazione dei militari e con l’inizio della guerra civile.

Da allora la democrazia non ha fatto alcun passo avanti nel mondo arabo-islamico mentre diventava questione all’ordine del giorno l’irresistibile ascesa dell’islamismo e della conseguente minaccia terroristica. Dopo l’11 settembre venne costruita la strategia mediatica dell’Asse del male formato dagli stati canaglia da affiancare agli attacchi all’Afghanistan prima e all’Iraq poi. Strategia che venne successivamente declinata verso il ‘nation building’, una sorta di esportazione della democrazia da parte dei buoni e giusti che non solo non è riuscita ancora a mettere salde radici nei paesi coinvolti ma ha accentuato la contrapposizione tra civiltà.
Si giunge così alla fine del 2010 e allo scoppio della Primavera araba, salutata come l’affermazione della libertà contro i regimi autoritari e come la rivoluzione dei giovani digitali contro le gerontocrazie militari. I risultati di quella ‘emancipazione popolare’ sono davanti agli occhi. Dove ci sono state elezioni, si sono affermati i partiti islamici: Partito Libertà e Giustizia (Fratelli Musulmani) in Egitto, Enneahad in Tunisia. Nello Yemen, dopo la caduta del presidente Saleh nel 2012,  non sono state ancora indette elezioni ma è sempre più forte il partito islamista AQAP.

Per la Libia il discorso è diverso e i fatti degli ultimi giorni sono emblematici. Decapitato il regime di Gheddafi grazie all’intervento armato esterno, il paese nordafricano ha assunto quasi lo status di protettorato nel quale dovevano essere garantiti gli interessi derivati dallo sfruttamento degli idrocarburi. Una democrazia fittizia, retta più che da un partito da un comitato d’affari, l’Alleanza di Forze Nazionali, con la fratellanza musulmana libica in forte crescita. Proprio per contrastare l’ascesa del Partito islamico il 19 maggio scorso si è svolto un film già visto. I militari sono intervenuti prima a Bengasi con un blitz armato contro gli islamisti poi a Tripoli dove il colonnello Fernana ha annunciato in tv la sospensione dei lavori parlamentari.

Per chiudere il cerchio, gli islamisti probabilmente vincerebbero anche in Siria una volta eliminato Assad mentre il caso di Gaza è sotto gli occhi di tutti e West Bank si mantiene relativamente moderata grazie al sostegno economico occidentale.

Per tornare alla domanda iniziale, il problema è che il concetto di stato laico è estraneo alle masse popolari arabo-islamiche anche se per anni è stato travisato dai militari al potere  in un contesto di bipolarismo USA-URSS. Oggi le popolazioni arabo-islamiche sono sempre più lontane da una cultura democratica di tipo occidentale, cosa che noi occidentali non vogliamo capire e che continuiamo ad auspicare persistendo ad interpretare tutto secondo un paradigma eurocentrico. Va da sé che in una condizione di possibilità di esprimere liberamente il proprio voto, in un qualsiasi paese arabo-islamico i portatori di istanze laiche e democratiche sono ineluttabilmente destinati a soccombere.

Islamisti libici. Foto Mohammad Hannon/AP



martedì 6 maggio 2014

DAMON ALBARN

EVERYDAY ROBOTS - 2014



Infine uscì anche il primo album solista. Dopo pop band, cartoon band, clash band, african band, opera project…

Il concept è semplice, quasi banale: l’alienazione quotidiana alimentata dalle nuove tecnologie. E come idea testuale Damon rimane, a parte qualche lampo, in superficie ma Everyday Robots è un CD musicale ed è la musica che deve essere valutata. Ebbene, musicalmente siamo di fronte ad un quasi capolavoro. O meglio, Everyday Robots contiene momenti di altissima qualità che vanno ben oltre gli standard del pop-rock contemporaneo.

L’approccio complessivo è vicino alla musica colta suonata da un cantautore popolare, il che rimanda ad una certa atmosfera progressive. You and Me, per esempio, vero centro dell’album, può essere definita più una suite che non una canzone tradizionale. L’inizio è grave e il cantato è riflessivo e distaccato nel primo verso poi si fa sostenuto e partecipato nella ripetizione del refrain. Sottofondo di sintetizzatori e note cristalline di piano con in evidenza la chitarra acustica su una cadenza ritmica molto discreta ma caratterizzata dallo steel pan. Damon  si perde tra le ombre cadenti di un carnevale caraibico non proprio allegro e tra i ricordi realistici della dipendenza: stagnola, accendino e buco in vena. Al canto subentra un intermezzo musicale dove il piano traccia un’esile linea melodica che si perde in un momento di discordante atonalità per riprendere la melodia e aprire alla seconda parte completamente diversa rispetto alla prima. Nuovo refrain di poche frasi insistentemente ripetute  e un ponte dominato dalla chitarra acustica quasi barocca che riecheggia le visioni rinascimentali dell’opera Dr. Dee. Infine la coda con la ripresa, solo accennata, del tema dell’intermezzo. Sette minuti che superano ogni produzione musicale uscita in questo 2014.

Il resto dell’album, pur non raggiungendo gli stessi livelli di You and me, è comunque buono e lo si potrebbe definire, utilizzando un’indicazione agogica, mesto con brio, dove il brio riguarda l’unico brano che poco si inserisce nel contesto, Mr. Tembo che se come singolo è una piacevole canzone con molti meriti (coro, atmosfera afro, uso dell’ukulele, recitativo conclusivo a staccare tra gli orecchiabili refrain), risulta quasi spiazzante e, nell’ascolto l’album per intero, fastidiosa.


A parte Mr Tembo e la conclusiva Heavy Seas of Love con Brian Eno, Everyday Robots è un’opera omogenea e coerente in cui Damon si sente a proprio agio e si lascia andare alla sua tipica indolenza crepuscolare. Disco che se ad un primo ascolto può sembrare eccessivamente introvertito e noioso ad un più attento esame si rivela intelligente ed emozionante.

Damon con Kankou Kouyate e Eno a Bamako, Mali