cinema

sabato 30 ottobre 2010

DAVID MICHÔD

ANIMAL KINGDOM
DAVID MICHÔD - 2010


L’esordiente regista e sceneggiatore David Michôd, dopo un lavoro di scrittura durato diversi anni, decide di confezionare il suo prodotto di fiction come se fosse un documentario/saggio. Animal Kingdom potrebbe avere come sottotitolo “Per un’etologia del criminale”.             
Anonima città contemporanea fatta di quartieri residenziali con giardino, periferie non strutturate, supermercati e fast food gestiti da asiatici. Siamo a Melbourne, Australia, e lo sguardo distaccato dell’adolescente Joshua ci mostra la sorda violenza e l’affetto animalesco che sorreggono un branco familiare. La strutture gerarchica del branco fa capo ad una eccezionale figura matriarcale verso la quale convergono tutte le pulsioni dei componenti del clan. Madre e nonna che ha il volto di Jacki Weaver, quasi una Deneuve fortemente segnata dalla vita ma tenera con i figli che incita e che consola, anche con baci sulla bocca troppo insistiti per essere solo manifestazioni di tenerezza.
La famiglia Cody ha una marcata propensione ad allargarsi e ad accogliere nipoti, fidanzate, amici che insieme ai tre figli, tutti e tre ben caratterizzati, scatenano dinamiche che il regista segue con passo felpato, facendo attenzione a non farsi notare dagli “animali” osservati nel loro ambiante naturale.
Siamo all’opposto di Pulp Fiction. Il tema è simile: morti per overdose, traffici illeciti, omicidi ma lo stile è completamente diverso. Colonna sonora non invadente, ritmo rallentato con uso dello slow-motion, mancata sottolineatura dei momenti di forte tensione. Sembra che il regista usi la tecnica della sottrazione. Pure essendo infatti la materia trattata ricchissima di personaggi, storie, situazioni, la resa è quasi improntata al minimalismo. Esemplare la scena iniziale con Joshua attonito davanti ad un quiz show mentre la madre muore sul divano. Lo spettatore attende una scossa, un’esplosione, una trovata filmica invece non accade nulla. Interviene asetticamente la pubblica assistenza, la madre muore e Joshua con un solo guanto da cucina calzato resta con lo sguardo perso verso il televisore. La macchina da presa è quella dell’etologo che sta studiando il regno animale.

mercoledì 27 ottobre 2010

HEIMITO VON DODERER

L'OCCASIONE DI UCCIDERE
HEIMITO VON DODERER - 1938

È un vero piacere quando si legge un libro ben scritto, scorrevole,che ha l’impianto teorico di un classico ma che riesce al tempo stesso a catturare l’attenzione come un romanzo di genere. L’occasione di uccidere è tutto questo.

Heimito Von Doderer è un tipico autore della mitteleuropa novecentesca. Ha letto e meditato Proust e la grande letteratura russa dell’Ottocento, e manifesta un amore non dichiarato ma evidente nei confronti del Goethe romanziere.
L’occasione di uccidere è innanzi tutto una biografia, il racconto di una vita e il termine vita ricorre con frequente incidenza nelle oltre trecento pagine che narrano appunto la storia del protagonista, un fortunato commerciante a cui tutto fila liscio come su un binario bene oliato, per usare le parole del libro.
La struttura è quella di una grande sinfonia in quattro movimenti con dei veri e propri temi e leit motiv che tornano e ritornano. Von Doderer sembra quasi applicare al romanzo la teoria dell’Eterno Ritorno, ben prima di Milan Kundera.
Il protagonista è alla ricerca della verità, è come il Siddharta di Hesse un ‘Suchende’, anche se inizialmente inconsapevole. Cos’è che Conrad sta cercando? Senz’altro il Tempo Perduto e nel corso del romanzo anche la propria dimensione esistenziale. Vi è poi la svolta in chiave giallo di un colpevole da identificare così che Conrad si ritrova nei panni di un investigatore dilettante che cerca di smascherare l’autore dell’omicidio di una femme fatale avvenuto nove anni prima.
Con un narratore che come nei Demoni di Dostoevskij dirige l’orchestra con onniscienza mai troppo invadente e raffinata ironia, il romanzo si spiega in un crescendo di suspence e maestria. Un saggio di grande letteratura e come nei gialli più riusciti, la soluzione della quête si trova già nella prima delle quattro parti in cui si divide il libro, ma scivola via inavvertita. Il lettore dovrà poi tornare sui suoi passi, a conferma che le cose ritornano.

sabato 23 ottobre 2010

MARNIE STERN

MARNIE STERN
MARNIE STERN - 2010

Scrive musica e testi, canta e suona ruvidi accordi di chitarra. Marnie Stern, from NYC manda in campo il suo terzo album sostenuta dalla batteria elettricamente low fi di uno scatenato Zach Hill. La coppia fa scintille. L’album ha alle spalle l’esperienza del suicidio di Ash, ex boyfriend di Marnie e la sua presenza ancora tangibile aleggia soprattutto nei testi, a partire dall’esplicita For Ash che come un fulmine apre la serie dei brani. Fulminante è comunque l’aggettivo più appropriato per le composizioni della Stern, in tutto 10 per un total time di poco più di mezz’ora. Ma non è certo la relativa brevità dell’opera, che contiene un’arrabbiatura creatrice da far impallidire album zeppi di tracce inutili, a svalutare il risultato, anzi, vista l'intensità la durata è giusta, un disco più lungo non avrebbe retto altrettanto bene all'ascolto.
Probabilmente la rabbia urlata e suonata hanno qualcosa a che fare con l’evento che ha preceduto la composizione delle canzoni, comunque la trentaquattrenne americana  è veramente prodigiosa e anche un po’ naif in questa sua irruenza con quelle schitarrate che sembrerebbero seventies ma che sono qualcosa di nuovo e di diverso, ascoltare per esempio Gimme. Chitarra batteria e canto urlato si intrecciano quasi melodicamente in Cinco de mayo con repentini crescendo della voce controbilanciati dal finale discendente della ritmica.
Caratteristica presente anche in Risky biz in cui la batteria decelera per consentire alla voce di restare in primo piano a scandire frammenti di frasi. In certi passaggi emergono certi bagliori Banshees, in particolare in Building a body, ma il mood complessivo del disco è un rock da power band senza fronzoli, forse poco differenziato ma salutare, che si chiude con la bellissima The things you notice, chitarra basso e voce, emozione pura.


giovedì 21 ottobre 2010

THOMPSON / WINTERBOTTOM

THE KILLER INSIDE ME
JIM THOMPSON - 1952
MICHAEL WINTERBOTTOM - 2010

Jim Thompson, bisogna partire da lui. Scrittore maledetto, negli anni Cinquanta riesce finalmente a pubblicare The killer inside me, che aprirà la strada ad altri cult novels che lo porteranno a collaborare con Stanley Kubrick. Sua la sceneggiatura di Orizzonti di gloria e suoi i dialoghi di Rapina a mano armata. Se non bastasse, scriverà Gateaway per Peckinpah e fermiamoci qui. Winterbottom realizzando questo The killer inside me sceglie di trascrivere fedelmente il romanzo, ricostruendo le atmosfere fifties fin dai bei titoli di testa e dalla colonna sonora.

Si può dire che il Texas non è un paese per giovani e nemmeno per belle ragazze. Come nelle storie di Thompson, la disperazione sorda e ottusa fa agire i personaggi, in questo caso lo sceriffo Lou Ford, un misto di Forrest Gump e Chigurth, l’assassino di No country for old men. Ma a differenza di essi qui manca la leggerezza del primo e il simbolismo del secondo. Lou agisce, è azione pura, senza profondità. E qui Winterbottom segna il ‘tradimento’ nei confronti di Thompson. Nello scrittore i personaggi sono sempre rosi dal dubbio, dal senso di colpa, come nel bellissimo A hell of a woman. Esprimono un malessere esistenziale che in Lou è completamente assente. Tutti lo amano, forse perché lui non ama nessuno e, con un background di psicologismo semplicistico che fa risalire all’infanzia le turbe del giovanotto, scatena momenti di violenta e indifferente follia, particolarmente feroci nei confronti delle sue amanti. Winterbottom non risparmia nulla allo spettatore, accondiscendendo al suo lato voyeuristico già attuato nel porno 9 songs. Non è facile digerire la violenza nei confronti di una splendida Jassica Alba, la cui bellezza è uno dei punti forti del film. Per il resto il regista inglese dimostra una capacità notevole a ricreare l’ambiente polveroso e provinciale di una piccola città anni Cinquanta ma manca qualcosa. La storia è girata senza sfumature, non c’è evoluzione nei personaggi, si sa già tutto dall’inizio, come tutti sanno che è Lou il colpevole. In questo Texas manca una spruzzatina di McCarthy e di Lansdale, ecco cosa manca e forse sì, bastavano i titoli di testa e Jessica Alba.

martedì 19 ottobre 2010

AUTISTICO GIALLO

LO STRANO CASO DEL CANE UCCISO A MEZZANOTTE
MARK HADDON - 2003
Un romanzo multitasking. Christopher è un ragazzo autistico che si trova coinvolto nell’uccisione del cane della vicina. Il drammatico episodio gli suggerisce di scrivere un libro giallo, che narra le vicende di un novello Sherlock Holmes alla ricerca dell’assassino.

‘Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte’ ha in realtà come oggetto quello di calarsi all’interno di Christopher e provare a dare l’idea di come si presenta e rappresenta il mondo dal suo particolare e problematico punto di vista. Ma è anche e soprattutto un romanzo sulla comunicazione. Nel libro l’autore, che è un illustratore per ragazzi, utilizza diverse strategie comunicative. C’è innanzi tutto la cornice del libro giallo che Chris sta scrivendo, con le note a piè di pagina e i suggerimenti della sua insegnante. Entro la cornice vengono narrati episodi autobiografici, che andranno sempre più acquisendo peso per giungere a cambiare il genere del romanzo. Entrano nel racconto anche emoticons e altri linguaggi iconici oltre a diversi codici comunicativi come mappe, diagrammi, formule matematiche, sviluppo di problem solving.
Nonostante la sua condizione di  isolamento, Christopher è dotato di eccezionali capacità speculative che lo portano ad affrontare, nella sua mente, temi come la formazione dell’universo, la differenza tra il concetto di tempo e quello di spazio, l’uso di figure retoriche nelle conversazioni quotidiane degli ‘altri’. La sua logica, la sua memoria, la sua rigida razionalità ne fanno un genio che si è formato più che con i rapporti interpersonali con le nozioni accumulate dalla TV (documentari, film, telefilm), dai libri, dal computer, e proprio come un computer anche Christopher s’impalla e ha bisogno del Ctrl-Alt-Canc per riavviarsi subito. Questo potrebbe essere il vero ‘La solitudine dei numeri primi’.

domenica 17 ottobre 2010

BEN AFFLECK

THE TOWN
BEN AFFLECK - 2010

Bank-job movie lo chiamano negli USA, il film si apre, come da manuale, con la rapina. Il passo successivo è la presentazione dei personaggi e del loro spazio di vita: il quartiere.

Come in molti film americani il quartiere rappresenta un mondo a parte. Qui siamo a Charlestown, Boston e Affleck vuole rimarcare l’importanza dell’ambientazione da ricavarne il titolo del film.
Charlestown è il regno dei rapinatori i cui abitanti sono in prevalenza di origine irlandese e da buoni irlandesi vanno al pub e seguono i sermoni del prete, anche i giovani ladroni che non disdegnano di far rispettare le buone regole ai nuovi bruti delle case popolari a colpi di bastone. Il quartiere è una comunità, una famiglia. I ‘ragazzi’ si muovono entro le mura di questa famiglia allargata dove tutti si conoscono ‘da sempre’, come dice Krista, l’anello debole. Mura che proteggono e danno sicurezza ma allo stesso tempo soffocano e così quando il protagonista decide di mollare tutto e lasciare the town, gli equilibri si rompono, le consolidate certezze vengono meno e la storia procede verso il suo epilogo.
Film di buona sceneggiatura e diretto senza sbavature né colpi di genio, si mantiene sui binari di una decorosa professionalità. Avrebbe infatti potuto facilmente scivolare verso un eccesso di machismo violento o, all’opposto, nel sentimentale, passi falsi che Affleck evita. Non evita purtroppo una recitazione monocorde e inespressiva e questo è il punto debole del film.


Ah, annotazione personale, il negozio di fiori mi ha ricordato un altro negozio di fiori, gestito da un certo Numero Uno, ma questo non ha nulla a che vedere col film.

giovedì 14 ottobre 2010

ALDO MORO, L'AFFAIRE - Parte 2

SE SARA’ LUCE SARA’ BELLISSIMO
AURELIO GRIMALDI - 2004


Grimaldi si impegna. Raccontare il rapimento di Aldo Moro avventurandosi per strade non battute non è un’impresa facile. E così decide di scrivere una sceneggiatura con al centro un filone principale, quello dei cinquantacinque giorni della prigionia, e un altro che cerca di seguire tanti segmenti situazionali paralleli. Così c’è la professoressa o i sindacalisti che si dichiarano né con lo stato né con le Brigate Rosse e vengono espulsi da scuola e sindacato. C’è il dibattito sul compromesso storico tra militanti di base in una sede del PCI. C’è la brutalità della tortura fisica e psicologica messa in atto dalle forze dell’ordine. C’è il potere con le sue trame e i suoi personaggi. C’è la quotidianità dei brigatisti. Ne risulta un film frantumato, con trovate di scrittura interessanti ma il regista non riesce a approfondire nemmeno uno dei molti spunti narrativi toccati.
Certo proporre una sequenza non sistematica di piccole storie implica un minimo grado di difficoltà se poi anche gli attori non riescono quasi mai ad essere convincenti il film non ci guadagna. Si salva l’ispettore Crollo, molto efficace nell’interrogatorio della professoressa.

BUONGIORNO, NOTTE
MARCO BELLOCCHIO - 2003


Quello di Bellocchio è senz’altro il migliore dei film sul caso Moro, nel quale il tocco d’autore è subito percepibile nella scelta della focalizzazione non tanto sull’episodio cruciale, quanto su un personaggio ‘marginale’ al fatto storico.
Protagonista infatti Chiara/Anna Laura Braghetti, la sua esistenza scissa in diversi ruoli che nello svolgimento filmico non riuscirà più a gestire. Chiara è divisa tra l’ambiente di lavoro, la famiglia, la prigione del popolo. Nella prigione del popolo è ulteriormente sdoppiata nella figura della vicina sposata con un marito che non è il suo vero compagno e la militante dapprima convinta poi perplessa. In più c’è il rapporto claustrofobico con gli altri brigatisti, con il Presidente, in un gioco di gabbie dentro altre gabbie nelle quali gli uomini ‘reali’ non hanno la fortuna degli uccelli, che possono volare via, né le possibilità dei sogni, che possono ribaltare la realtà. 
Dal punto di vista temporale Bellocchio non racconta solo i cinquantacinque giorni del sequestro, ma fa iniziare il film ben prima del 16 marzo 1978, dal momento in cui viene scelto l’appartamento, spazio drammatico ed esistenziale nel senso di luogo dove si svolge il dramma e luogo delle esistenze segregate di carcerieri e prigioniero.
Bellocchio come al solito farcisce il film di molti piani di interpretazione e le linee da seguire sono molteplici. Tra questa: Chiara e il collega di lavoro, Chiara e il Presidente, Chiara e i brigatisti, il comunismo sano della resistenza, il comunismo malato dell’intransigenza, i diversi linguaggi visivi utilizzati eccetera. Il regista vuole sottolinearle tutte, finendo per appesantire visione e dopo visione. E c’è anche una sceneggiatura a moltiplicare i rimandi e a sovrapporsi alla realtà.
Molto riuscita la scena in cui viene freddamente declamata l’ideologia dogmatica per bocca di Lo Cascio/Moretti, personaggio ‘condannato’ dal regista. Non condanna invece Chiara, come se ci potessero essere brigatisti buoni e brigatisti cattivi.

mercoledì 13 ottobre 2010

FRIEDRICH NIETZSCHE

UMANO. TROPPO UMANO
FRIEDRICH NIETZSCHE – 1879
Bruce Nauman, Human/Need/Desire, 1983
Scritto tra Sorrento e Sankt Moritz dal 1876 al 1879, Umano, troppo umano è il primo testo in cui Nietzsche utilizza la tecnica dell’aforisma. Ciò consente di edificare una struttura concettuale suscettibile di ripensamenti. Quasi un’opera aperta nella quale l’aforisma è un modulo speculativo su cui è possibile ritornare nel corso dell’itinerario testuale e ridefinirlo attraverso altri aforismi.
Al centro di Umano vi è la ragione, la ferma convinzione che la ragione possa dare forma allo spirito libero, a colui che svela le illusioni che circondano e ingannano l’esistenza attraverso la contemplazione e l’intelligenza di fenomeni sociali, morali, religiosi.
Grande iconoclasta, lo spirito libero vola oltre l’apparenza della rappresentazione artistica e in polemica con Richard Wagner, Nietzsche riconosce che la vita ha bisogno di inganno ma colui che lo riconosce come vincolo e se ne libera vive una gioia improvvisa, “un desiderio di andar via, non importa dove, ad ogni costo”.
L’uomo, attraverso la ragione, acquisisce la consapevolezza che è salutare sbarazzarsi delle false certezze codificate dalla storia e tra queste soprattutto quelle trasmesse dal cristianesimo, con i suoi ‘pregiudizi’ morali. Nietzsche si dichiara un immoralista ed afferma che il mondo non è né buono né cattivo e che bisogna liberarsi di tale concezione del mondo ed andare ‘al di là del bene e del male’. Per fare ciò è necessario tornare alla illogicità della natura.
Umano, troppo umano, dopo le brillanti prove ‘strutturate’ giovanili, segna l’inizio del periodo delle grandi opere nietzschiane con la potente esortazione a spezzare le catene costituite dalle idee morali, religiose e metafisiche.

Bruce Nauman, The true artist helps the world, 1967 

domenica 10 ottobre 2010

JOHNNIE TO

JOHNNIE TO
Scorciatoie filmografiche - parte 3













Si giunge a Mad detective del 2007, girato a quattro mani assieme al sodale Ka-Fai Wai, e To riesce ancora a sorprenderci. Nel prologo viene presentato il ‘mad detective’ Bun che riesce a risolvere i casi grazie al metodo Stanislavskij di immedesimazione con le vittime e le conseguenze sono ovviamente estreme. Dopo un salto temporale l’ormai ex detective viene utilizzato per risolvere un difficile caso dal giovane ispettore Ho, che ad inizio carriera era rimasto impressionato dal metodo investigativo di Bun. Espulso dalla polizia Bun vive circondato dalle materializzazioni delle sue visioni. Egli infatti ha la facoltà di vedere e credere reali le varie personalità che convivono nello stesso individuo. Sullo schermo sono quindi presenti personaggi sia reali che immaginati dal protagonista in un continuo gioco di specchi che trova perfetta corrispondenza concettuale, visiva e cinefila nella scena finale. Nel caso da risolvere torna il motivo dell’arma d’ordinanza perduta che rappresenta anch’esso una scissione tra l’uomo e la sua estensione identificativa, e le identità nel corso del film si moltiplicano, forse anche troppo.

Due anni dopo To è presente alla Croisette per presentare il suo nuovo film ‘francese’ Vendicami.
Francese perché questa volta il genere da omaggiare è il polar melvilliano, mai trascurato ma qui esplicitamente omaggiato. In particolare il film di riferimento è Le samourai, titolo orientale per un Delon molto zen che avrebbe dovuto essere il protagonista di Vendicami, rimpiazzato da un Johnny Hallyday dalla perfetta faccia dallo sguardo asimmetrico.
Dopo un inizio agghiacciante, il film procede per i consueti binari, con le solite belle sparatorie, i convivi e le interazioni tramite linguaggi non verbali tra i ‘ragazzi del gruppo’. Anche qui vale la regola che quando viene inquadrata una pistola essa sparerà e allo stesso modo una pallottola conficcata in testa non tarderà a produrre i suoi effetti, così si scivola quasi in film parallelo, incosciente, svagato. Resta l’impressione che Vendicami non sia un film pienamente riuscito nonostante siano presenti tutti gli ingredienti del cinema di To. Affiorano tracce di stanchezza e ripetitività.

sabato 9 ottobre 2010

DAVID BYRNE ARTO LINDSAY TOM ZÉ

DAVID BYRNE  ARTO LINDSAY  TOM ZÉ











Il progetto Luaka Bop, l’etichetta world music fondata da David Byrne, lega tre significative figure della scena musicale contemporanea. Tra i bacini di raccolta della Luaka Bop, il più significativo resta senz’altro il Brasile, luogo che ha spesso ispirato Byrne nelle sue produzioni discografiche. Sull’asse Brasile-New York figura centrale non poteva che essere Arto Lindsey, vissuto tra il paese sudamericano e la No New York dei tardi ‘70, vero apripista per le scorribande carioca della testa parlante. E in terra brasilera, oltre ai ‘soliti’ mostri sacri di fama mondiale, non poteva non avvenire l’incontro con Tom Zé. Nordestino del Sertao, a San Paolo si ritrova nel giro Tropicalia assieme a Veloso e Gil ma seguirà strade più sperimentali rispetto a quelle del mainstream brasiliano. Scelte difficili tra la filologia musicale, la riscoperta del samba e le contaminazioni con il rock anglosassone più eterodosso.

BEST
TALKING HAEDS - REMAIN IN LIGHT, 1980. Album fondamentale. L’esperienza wave dei precedenti dischi si fonde con le suggestioni etno-evocative di Eno. Disco in cui non viene messo in discussione il formato-canzone, che resta quello pop, ma che musicalmente rappresenta il raggiungimento della perfezione nell’innesto di soluzioni colte e meditatissime a travolgenti istintività dionisiache.
ARTO LINDSAY – INVOKE, 2002. Non un disco rivoluzionario come poteva essere la musica dei DNA verso la fine dei Settanta, Invoke rappresenta il momento più riuscito della ricerca di un percorso capace di amalgamare l’avanguardia newyorchese con il tropicalismo brasiliano. L’atmosfera di fondo è quella acquatica dei mari del sud, dove i suoni, i rumori, le interferenze, giungono come da liquide profondità struggenti. Effetto avvolgente e musica che accarezza nei passaggi dall’inglese al portoghese.
TOM ZÉ - THE HIPS OF TRADITION, 1992. Primo album in studio per la Luaka Bop dopo quasi dieci anni di silenzio, il disco rappresenta al meglio la decisa personalità di Zè. Diciotto tracce che testimoniano le varie sfaccettature di un universo musicale fatto di tradizione, di approfondimento e di curiosità. La tipica vena malinconica brasiliana è stemperata da una irrequietezza pacata che porta Tom a seguire motivi insoliti in ogni direzione, usando una ricca strumentazione e molteplici soluzioni vocali, nel segno di una concentrazione che riesce a dare spessore a brani quasi sempre inferiori ai tre minuti.

giovedì 7 ottobre 2010

PAUL WELLER

WAKE UP THE NATION
PAUL WELLER - 2010

L’ex kid si diverte. Un divertimento nervoso il suo, quello che ha caratterizzato una carriera irrequieta costellata da numerosi momenti di fresca intensità. Ed è proprio la freschezza che colpisce in questo Wake up the Nation, esortazione anche politica a svegliarsi.
Lo spirito è quello di The gift, un rock’n soul bianco come mood complessivo dal quale affiorano sentori di ottimo pop, anche danzante come nella irresistibile Alm high, con un occhio al Miami sound della KC & the Sunshine band. Altre canzoni, altri spunti in un compendio che comprende il Motown elettrico, tastiere alle volte honky tonk altre che ricordano gli Actractions di Steve Nieve, classico rock’n’ roll, voce graffiante sia negli acuti che nei toni più confidential e perfino una modulazione del cantato alla Byrne in 7&3 (she loves me tender and she loves me strong…), o la ritmica ripresa dalla hit Black is black (Up the dosage), e si potrebbe continuare.
Insomma un disco vario, fatto di canzoni brevi, in media poco oltre i due minuti con un paio di strumentali (uno dei quali rimanda alle colonne sonore di commedie sentimentali anni sessanta), che si ascolta molto volentieri.
È bello constatare che nel 2010 piacevoli sorprese possano giungere da chi oltre trent’anni fa urlava ‘In the city there’s a thousand things I want to say to you’.

martedì 5 ottobre 2010

LEONARDO SCIASCIA

L'AFFAIRE MORO
LEONARDO SCIASCIA - 1983

All’interno della vasta bibliografia sul caso Moro molti sono i titoli degni di nota, tra di essi i due saggi di Sergio Flamigni, in particolare Convergenze parallele, Eseguendo la sentenza di Giovanni Bianconi e soprattutto i libri di Giuseppe Fasanella tra i quali l’inquietante Il misterioso intermediario - Igor Markevic e il caso Moro scritto con Giuseppe Rocca nel 2003 Edizioni Einaudi e al centro di poco chiare vicende editoriali. Ma il più ‘bello’ di tutti è senza dubbio L’affaire Moro di Leonardo Sciascia.

La penna di Sciascia è un questo suo volumetto leggera ed ispirata, la leggerezza dell’uccello e non della piuma, per citare Valéry. E infatti come un uccello la lingua arguta di Sciascia spazia per campi aerei che sono letteratura ma non dimentica mai l’obiettivo, che è quello di una missione civile. Deputato radicale, nel 1982 lo scrittore siciliano presenta nell’ambito della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di Via Fani una relazione di minoranza di esemplare chiarezza e incisività. Nel testo ‘privato’ L’affaire Moro, uscito per Sellerio nel 1978-1983, Sciascia si pone nel solco del suo più tipico e riuscito genere di scrittura, la cronaca storica vista attraverso la lente d’ingrandimento del fine letterato.
Subito in apertura l’omaggio a Pasolini ma anche una presa di distanza dal troppo sanguigno autore friulano. Sciascia resta un illuminista e anche in questo ‘elzeviro’ è sempre presente, più o meno dichiarata, la sua critica al marxismo.
Il libro procede seguendo tutte le fasi del sequestro, evidenziando incongruenze, contraddizioni e dubbi. Dubbi che invece non turbarono mai la posizione assunta dai due partiti di massa dell’epoca, DC e PCI, sullo sfondo del Compromesso storico.
Attenta è l’analisi testuale delle lettere di Aldo Moro, e qui Sciascia raggiunge risultati altissimi dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, la qualità della sua scrittura.
La lettura del libro è avvincente, come in tutte le ricostruzioni in chiave ‘gialla’ di Sciascia che trova, come sempre, il modo di citare i ‘suoi’ autori Stendhal, Pirandello, Manzoni e Savinio.

domenica 3 ottobre 2010

ALDO MORO, L'AFFAIRE - Parte 1

IL CASO MORO - 1986
GIUSEPPE FERRARA

Il caso Moro è il primo dei film che cercano di raccontare il ‘caso’ per eccellenza della storia repubblicana.
I fatti vengono narrati in maniera cronachistica, con ampio uso delle le fonti mediatiche del tempo, facendo riferimento alle dichiarazioni dei terroristi nei processi e al libro ‘I giorni dell’ira’ di Robert Katz.
Nel film i brigatisti risultano abbastanza anonimi e infatti nei titoli si preferisce non attribuire loro identità anagrafiche. Per i politici, invece, il regista si sforza di individuarli e renderli immediatamente riconoscibili e il risultato fa pensare alle ricostruzioni di trasmissioni tipo Chi l’ha visto. Anche Volonté appiattisce la sua recitazione cercando di far prevalere quella nota malinconica di Moro che, dopo la famosa foto con la stella gialla, è diventata un luogo comune. Si adegua comunque anch’egli al clima generale di una recitazione incolore.
Un film-cronaca che resta decisamente a metà del guado e s’impantana non avendo la finezza e la complessità del cinema d’autore né l’incalzare scomodo dell’inchiesta.

PIAZZA DELLE CINQUE LUNE –2003
RENZO MARTINELLI

Più che a un film siamo di fronte a una fiction televisiva. La fuga accelerata della macchina da presa sugli edifici, i dialoghi che didasca-licamente spiegano allo spettatore i fatti, la recitazione standard e poco convinta degli attori di chiara fama ne fanno un tipico prodotto da intrattenimento televisivo, anche internazionale.
Si sceglie il punto di vista retrospettivo. Sono trascorsi venticinque e questo consente di proporre alcune ‘deviazioni’ emerse, o meglio, ipotizzate nelle inchieste successive al rapimento. Interessante ma poco sviluppata – e d’altronde con tale sceneggiatura non sarebbe stato possibile – la pista che porta alla scuola di lingue Hyperion di Parigi, col ‘solito’ Murray Abraham a dare volto all’uomo del mistero. La storia è comunque messa insieme con del nastro adesivo che aderisce poco e numerosi sono infatti gli scollamenti, specie nel finale. Molto belle le locations ma per questo il merito va a Montepaschi, le cui insegne tornano nelle inquadrature, e che compare tra i ‘promotori’ del film. Ah, per chiudere, scontata la password.

TOM FORD

A SINGLE MAN
TOM FORD - 2009
Film rallentato. La perdita improvvisa della persona amata lascia un vuoto nella vita di un maturo professore universitario inglese.
California, 1962, piena crisi cubana, che ritorna a più riprese per dare un tocco realistico ad una vicenda che di realistico ha ben poco. Tutto è finto, lindo e curatissimo, è pulita perfino la macchia d’inchiostro sulle lenzuola o il volto insanguinato del compagno morto in un incidente.
La ricostruzione delle atmosfere sixties è soltanto un continuo set fotografico per rivista patinata e la villa in cui abita il protagonista è completamente fuori luogo. Evidentemente a Ford interessava l’impatto figurativo degli interni in legno con vista su un giardino perfetto, come perfetti sono i personaggi di contorno, tutti ovviamente bellissimi e pronti per la sfilata.
Il ritmo come si diceva è rallentato, per dar modo al pubblico di gustare la costruzione delle scene, quasi fossero appunto foto in movimento. Emblematica quella in cui fa da sfondo ai due attori il gigantesco cartellone di Psycho. Ford non si fa mancare niente e allora ecco i due amanti in bianco e nero nel ricordo. Per esprimere le concezioni estetiche del regista bastava qualche scatto di Bruce Weber accompagnato dalla musica di Nyman, in A single man sostituito dal bravo compositore polacco Abel Korzeniowski ma l’effetto Greenaway è solo sfiorato. E pensare che il film è tratto dal libro autobiografico di Christopher Isherwood, ma quelle erano altre atmosfere, che sono genialmente presenti anche in certi versi di Auden, non nel film di Tom Ford.

venerdì 1 ottobre 2010

CAMILLO BENSO DI CAVOUR

VITA DI CAVOUR
ROSARIO ROMEO - 1984
Storico siciliano di impostazione crociana, Rosario Romeo (1924-1987) è da considerarsi uno dei massimi studiosi del Risorgimento. Questa Vita di Cavour offre la possibilità di rispolverare, a duecento anni dalla nascita del conte e in piena incombenza delle celebrazioni dell’unità, un periodo rimosso dalla coscienza collettiva, in particolare dagli anni settanta in poi. Campo di valori considerati di destra, il risorgimento è stato addirittura demonizzato con l’ascesa del movimento leghista per tornare in auge negli ultimi anni proprio come risposta agli insulti padani, in un contesto che ha più del bar che della riflessione approfondita. Eppure la cinquantina d’anni che va dal 1815 all’unità è stata ricca di fermenti ideologici e crogiolo di esperienze che avrebbero lasciato a lungo tracce nella storia nazionale per buona parte del secolo successivo.

Romeo ricostruisce quel periodo attraverso la biografia dell’uomo più rappresentativo, rimasto un po’ schiacciato da figure mitizzate quali Garibaldi o Mazzini, ma che può senza dubbio essere considerato l’artefice dello stato italiano. In questo saggio mirabile si entra in profondità nel pensiero del Cavour uomo, si segue passo passo la sua formazione attraverso un uso esemplare delle fonti (lettere, scritti, interventi alle assemblee, dati statistici relativi al patrimonio personale, opinioni di contemporanei). Vengono sottolineati e documentati i percorsi intrapresi dal conte, partendo dal precoce democraticismo passando al liberalismo alla francese fino al pragmatismo anglosassone, sempre avendo come principio l’idea dello stato laico e stimando il progresso tecnico promosso dalla libera iniziativa individuale come la molla per migliorare il benessere collettivo, obiettivo sempre al centro del suo agire.
E così dal privato si passa all’uomo pubblico, al politico, allo statista, quel Camillo che a soli 19 anni, già inserito nella struttura burocratica del regno sabaudo, scriveva alla zia :”capirete che mi è impossibile che io possa stare per molto tempo in una carica che mostra col fatto a quali tristi conseguenze si giunga quando non si pensa ad altro che ad essere graditi od accetti a chi comanda”.
Grazie alla magistrale lucidità di Romeo, alla sua partecipazione distaccata alle vicende narrate, questa Vita di Cavour resta un classico della storiografia italiana, ingiustamente poco frequentato in un dibattito che per troppo tempo ha privilegiato le tesi gramsciane o la militanza clericale.

INTERPOL

INTERPOL
INTERPOL - 2010


Da più di una decina d’anni on stage, gli Interpol si sono guadagnati fama di epigoni delle sonorità darkeggianti del post punk inglese tra settanta e ottanta. Grande interesse da parte della stampa specializzata e del pubblico più attento a fiutare e ad anticipare la cult band del futuro, per poter dire io li ascoltavo dall’esordio. In realtà Interpol è un progetto floscio fin dall’inizio. Se sono stati scomodati i Cure (non capisco a quale proposito) che comunque non sono e non furono, tranne qualche canzone azzeccata, quella straband di cui si parla, proporre il paragone con i Joy division è completamente fuori dal mondo e non basta certo una front cover in nero a fare Bauhaus!

In questo quarto album omonimo, il solco seguito è molto più banalmente quello di gruppi tipo Cult, con qualche ammiccamento del cantante a certe posture vocali alla Michael Stipe al quale rimane lontano mille miglia (ma forse è solo una questione di accento dell’East America) e aggiornamenti colti, non riusciti, alla Radiohead.
Il disco scorre via monotono, senza sussulti significativi e anche quando i primi accordi lascerebbero presupporre un brano finalmente memorabile, lo sviluppo introduce note sbagliate e nuova frustrazione per l’ascoltatore (vedi Safe without).
Il risultato è un disco che cerca di adattare cupe e cariche atmosfere rock con le tendenze indie emerse negli anni zero, un compendio alternativo per teenagers sul depresso andante abituati ad ascoltare i Placebo.