cinema

venerdì 25 aprile 2014

LIBERAZIONE!

IMMAGINI DALLA LINEA GOTICA










sabato 19 aprile 2014

BEN WATT

HENDRA - 2014


L’attesa è durata più di trent’anni, tanto il tempo che separa il primo album di Ben Watt, North Marine Drive, da Hendra, uscito qualche giorno fa. Nel 1982 la collaborazione con Robert Wyatt aveva portato alla realizzazione di una manciata di belle canzoni raccolte nell’EP Summer into Winter. L’anno successivo usciva l’album di debutto, acustico e minimalista. Comprai i due dischi a Londra in quell’anno e li conservo gelosamente. Devo dire che non ho mai smesso di ascoltarli e mi sono sempre chiesto quando sarebbe uscito un nuovo album di Watt, ed ecco Hendra.

Ben ha cinquantadue anni e si sente. La vita lascia i segni e spesso non si tratta di fatti positivi. Hendra parla di questo ma lo fa cogliendo il contributo alla crescita personale che le esperienze, seppur negative, producono. “You must have faith in spring” canta Ben anche se “Aprile è il più crudele dei mesi”, oppure, in un’altra canzone, si fa notare la bella frase positiva “…as right, not as wrong, as rain”. E nei testi si parla, oltre che di ricordi ed esperienze personali, di stagioni, di prati e  di scogliere.

Hendra è di facile ascolto, tutti i dieci brani che lo compongono sono piacevoli e misurati. Si può definire un album Seventies, con richiami a John Martyn e Nick Drake nei momenti più introspettivi mentre negli uptempo viene in mente uno spirito quasi americano, tipo Steely Dan. Su questo impasto s’inserisce anche una spruzzata di elettronica alla Eno pre-ambient, per citare lo stesso Ben Watt. A conferma dell’atmosfera ’70 spicca la presenza, in The Levels, di un protagonista di quel periodo, David Gilmour, alla steel guitar a pedale.


Hendra non è un capolavoro di innovazione ma Ben Watt ha composto dieci canzoni piacevolissime che scivolano via come nuvole in un cielo ventoso.


domenica 13 aprile 2014

JIM THOMPSON / JAMES FOLEY

AFTER DARK, MY SWEET - 1955
PIU' TARDI AL BUIO - 1990



Gli stilemi dell’hard boiled ci sono tutti: racconto in prima persona da parte del protagonista che si rivolge ad un non meglio specificato gruppo di ascoltatori; la presenza di una femme fatale che innesca il plot; l’impresa criminale da compiere con i rallentamenti delle complicazioni e le accelerazioni delle incoscienti improvvisazioni; scazzottate e morti violente; momento erotico-sentimentale come tregua prima del concitato svolgersi degli eventi nel finale. Questo è il canovaccio del romanzo dello specialista Jim Thompson che James Foley segue alla lettera.  Ma è nell’atmosfera che il regista tradisce lo scrittore.

After Dark, My Sweet è un notevole romanzo, con gli spigoli vivi e la disperazione propria di Thompson, a cui piace fare descrizioni sommarie di personaggi, ambienti e fatti. La materia trattata resta grezza e ciò rende ambigue le situazioni. Il protagonista-narratore, magistralmente presentato nel romanzo attraverso la scheda personale compilata nell’istituto da cui è fuggito, pur essendo il tradizionale beautiful loser, nello svolgersi della storia  si mette progressivamente a fuoco. Ma la messa a fuoco aumenta le sfaccettature e quindi, paradossalmente, questo rende Kid Collins sempre più ambiguo e inafferrabile.

James Foley lucida il materiale sporco di Thompson e lo fa grazie al direttore della fotografia, Mark Plummer, il quale aumenta la saturazione della luce, come si trattasse di un videoclip anni novanta. Non a caso Plummer, proprio nello stesso periodo del film, stava lavorando con Madonna. L’effetto è uno studiatissimo ‘trasandato da copertina’ che vale sia per i luoghi che per i personaggi,  in maniera eccessiva per Kid Collins. L’ambiguità non si crea lasciando il giardino incolto e la piscina piena di foglie marce o facendo indossare t-shirt sporche e sudate.


Il destino è segnato, Kid lo sa, ma se nel libro il bel finale è costruito passo passo da un consapevole protagonista, nel film l’atto decisivo è lasciato al caso, producendo uno scarto non in linea con lo spirito del romanzo. Sicuramente vince il testo ma va riconosciuto che Foley ha meditato a lungo su come trasporre in film il romanzo e pur con qualche limite il risultato è apprezzabile.


giovedì 10 aprile 2014

THE WAR ON DRUGS / SUN KIL MOON

LOST IN DREAMS - 2014
BENJI - 2014

The War On Drugs - Foto Dusdin Condren


Proprio mentre stavo riconoscendo la grandezza  di Nebraska, escono due nuovi album che con Springsteen hanno molto in comune.

Due band dal nome poco felice che in realtà nascondono due cantautori americani della nuova generazione più propensa ad incamminarsi su strade ben note che tentare ‘sentieri selvaggi’. Si prende quello che passa, dando un’occhiata a qualche testata di riferimento. Per entrambi i lavori le valutazioni sono molto alte (minimo 4 stelle).

The War on Drugs il nome del gruppo, Lost in Dreams l’album, Adam Granduciel l’autore. Ballate generalmente mosse, suono morbido e pulito e profondo, tendenza ad allungare un po’ troppo i tempi. Con la seconda traccia, Red Eyes, Granduciel scopre le carte e appare il Dylan ‘di mezzo’ , quello del periodo fine ‘70 – ’80. In quegli anni Dylan era alla ricerca di nuovi percorsi, esistenziali e musicali e si lasciava affascinare da gente tipo Mark Knopfler o Daniel Lanois. Uscivano dischi molto interessanti come Slow Train Coming e Oh Mercy, che altro non sono se non i sogni in cui Granduciel si perde. Con la terza traccia, Suffering, il ritmo rallenta, arriva Infidels e si affaccia anche Springsteen. Non ci saranno sorprese: banale pop-rock ben suonato e di facile ascolto, fatto di intrecci di chitarre e tastiere e qualche nota di sax per cercare di evitare il continuo ripetersi delle atmosfere e caratterizzare qualche brano. Ma è arduo uscire dalla monotonia complessiva.

Vale lo stesso discorso per Sun Kil Moon, gruppo, Benji, album, Mark Kozelek l’autore. Qui siamo al racconto. La prevalenza è della chitarra con la voce in primo piano per dare evidenza alle storie. Sono storie generalmente tristi in cui si parla di parenti morti, di funerali, di carneficine e casi di cronaca nera oppure di quanto amo mia madre e come voglio bene a mio padre, che belle cose facevo quando ero adolescente. Ma tutto è troppo verboso e compiaciuto. Si salva Ben's My Friend, la bella canzone che chiude un disco ripetitivo e autoreferenziale. I modelli, ancora i soliti cantautori americani e soprattutto Nebraska, restano molto lontani.


È difficile improvvisarsi artisti e mi sbilancio dicendo che di questi due album, dopo le attuali incoronazioni a capolavori, fra qualche anno non resteranno tracce.

Sun Kil Moon - Foto Valerio Berdini

sabato 5 aprile 2014

BRUCE SPRINGSTEEN

NEBRASKA - 1982



Springsteen non mette tutti d’accordo. Molti lo amano incondizionatamente, altri non lo sopportano a priori. Personalmente non mi ha mai interessato, con alcune eccezioni:  parte di The River, la romantica Thunder Road e  soprattutto Nebraska. Per questo disco acustico del 1982, l’etichetta di album rock è riduttiva, è infatti più appropriato   parlare di opera tout court, da porla accanto ai migliori dischi di Dylan, alle poesie di  Ginsberg e ai film di Cassavetes.

Nebraska è diverse cose insieme. Dopo il grande successo commerciale di The River che aveva consacrato Springsteen star assoluta della musica popolare americana, uscire con un album acustico, praticamente chitarra e voce, privo di potenziali hit da lanciare sul mercato, era marcare con un colpo di genio la strategia di definizione del proprio profilo artistico. Ci vuole coraggio a proporre ai milioni di fans in attesa del nuovo disco queste dieci canzoni low-fi, tristi, cupe e spoglie come l’immagine di copertina. Non potava esserci concept-cover più adatta di quella di Nebraska: foto in bianco e nero scattata da un interno di auto, oltre il parabrezza un desolato paesaggio invernale, con una strada che si perde verso il grigio orizzonte. Foto in campo nero con lettere scarlatte ad annunciare titolo e autore.

Nebraska è un album narrativo. I testi dei dieci brani possono benissimo essere letti come una raccolta lirica. Siamo nella tradizione americana  dello storytelling. Si possono scomodare il Far West dei pionieri, il Dust West di Steinbeck, lo spirito della terra che va da Whitman a Guthrie ed altro ancora ma il concetto non cambia. Springsteen ci sta raccontando storie e lo fa scegliendo una tecnica narrativa dove chi racconta lo fa quasi sempre in prima persona. C’è un interlocutore (esempio il ‘sir’ di Nebraska, il ‘judge’ di Johnny 99, il ‘mister’ di State Trooper) ma l’effetto, dovuto anche all’interpretazione di Springsteen, è quello di un dialogo interiore. Bruce racconta a noi storie di personaggi (veri e propri caratteri) che parlano a se stessi. Questi monologhi  esondano dalle singole interiorità e compongono vividi frammenti narrativi.

Chi sono questi caratteri e quali storie rivelano? Coppie di giovani killers, rissosi avventori di bar, gente disposta a fare il lavoro sporco. È l’altra faccia del sogno americano, quello degli sconfitti, degli underdog.  Gli scenari sono geograficamente ben definiti. Si va dal New Jersey ai Grandi Laghi fino alle ‘Badlands’ del Wyoming. Dai paesaggi urbani fatti di ciminiere e ponti-radio alle stazioni di carburante lungo le pianure del Midwest. Le ore sono quelle notturne o poco prima dell’alba, le ‘wee wee hours’ che ricorrono in Open All Night e in State Trooper, le quali canzoni contengono anche il bel verso ‘deliver me from nowhere’. E, sempre a proposito di intrecci, un verso in cui si parla di onestà, (‘I got debts that no honest man can pay) torna in tre canzoni con minime variazioni.

Strumentazione ridotta all’essenziale, tematica dei testi, interpretazione sommessa rendono Nebraska un album unitario ma, e qui sta la forza del capolavoro, le dieci parti che lo compongono si succedono secondo una intelligente alternanza ritmica che evita il rischio della monotonia. Ad un brano lento e disteso segue un brano più mosso generando un movimento sinusoidale che attraversa tutto il disco che peraltro si chiude con un’apertura di orizzonte. Infatti l’ultima traccia, Reason To Believe, non contiene la storia di un unico carattere che narra in prima persona ma si compone di una serie di situazioni diverse in terza persona, delle quali l’ultima è la celebrazione di un matrimonio in riva al fiume. E Bruce Springsteen ci saluta con queste parole: ‘Still at the end of every hard earned day people find some reason to believe’.



 
Luoghi e strade di Nebraska

















mercoledì 2 aprile 2014

JOHN FRANKENHEIMER

52 PICK-UP - 1986
52 GIOCA O MUORI




Quali devono essere le qualità di un buon film? Queste quelle fondamentali:
-         un bravo regista, di esperienza e con la voglia di raccontare storie. Non necessariamente intellettuale o con una weltanschauung da imporre allo spettatore;
-         una storia avvincente che si mantenga sempre in bilico tra il prevedere alcuni sviluppi e sorprendere con altri, così da gratificare lo spettatore che dice sia ‘lo sapevo’ che  ‘non l’avrei detto’;
-         caratteri ben definiti interpretati da attori che si calano nella parte senza pensare di recitare al Lee Strasberg Teather.

52 Pick-Up le possiede tutte e quindi può considerarsi un buon film.

Il regista, John Frankenheimer,  è un mestierante che sa come girare e come dirigere una troupe. Nessuna velleità se non quella di impiegare bene i soldi della produzione (in questo caso Golan&Globus, i due sagaci produttori che badavano al sodo: Bmovies a basso budget-medio incasso-alto profitto)  e la sera bere una birra soddisfatto del proprio lavoro.

La storia è sceneggiata da Elmore Leonard da uno dei suoi numerosi best sellers. Fittissima la sua bibliografia e tanti i film tratti dai suoi romanzi. In questo caso è lo stesso Leonard impegnato in prima persona. Non c’è dubbio, un altro che conosce alla perfezione le regole del gioco. Giusta dose di violenza a sangue freddo e bei nudi femminili, comprendente diverse tipologie di crimine: ricatto, snuff movies, sfruttamento della prostituzione e della pornografia, omicidi e stupri. Insomma, c’è tutto. Con qualche sfizio nell’uso dello ‘schermo nello schermo’ come si trattasse di un De Palma privo dei suoi eccessi stilistici.

I personaggi: qui ce ne sono un sacco, tutti ben caratterizzati , anche quelli minori. L’imprenditore self-made con un passato di militare in Corea che sa usare viti e bulloni. La signora dell’alta borghesia impegnata in politica. Il cattivo numero uno, elegante regista di film porno che sa analizzare un bilancio societario. Il cattivo numero due, compassato e fumato giustiziere uscito di galera che non fa nulla per non tornarci. Il cattivo numero tre, che non è cattivo ma è un debole omosessuale pronto a vendersi al primo offerente. L’avvenente  mezzana che la sa lunga. Tutti nella parte gli attori.

Si potrebbe anche evidenziare un certo maschilismo ma di fronte a Frankenheimer e a Leonard sarebbe banalizzare il film. Anzi, uno dei pregi è che il maschilismo appare naturale, si direbbe intrinseco, non sbandierato. E va tenuto presente che il target è lo spettatore ‘medio’ americano, per il quale Pick-Up è perfetto, senza starci troppo a riflettere sopra.

Annotazioni a matita

John Frankenheimer, padre ebreo tedesco, madre cattolica irlandese, ha imparato ad usare la macchina da presa quando era nell’Air Force americana. È morto nel 2002. Molti i film girati, alcuni notevoli. Geniale Seconds del 1966

Menahem Golan, uno dei produttori, ha studiato teatro a Tel Aviv ed è stato pilota dell’ Air Force di Israele. Oltre che produttore ha diretto anche diversi film, tra i quali Delta Force, con Lee Marvin e Chuck Norris.

Roy Scheider, padre wasp, madre cattolica irlandese, da giovane ha disputato diversi incontri di boxe, categoria welter. Tra i molti ruolo, da ricordare quello di Hal, dal film The mith of fingerprints, tratto da una canzone di Paul Simon.


Elmore Leonard, famiglia della Lousiana. Durante la  II Guerra Mondiale faceva parte della US Navy. Autore di culto, si è cimentato in svariati generi. Tra i suoi libri basta citare Jackie Brown, da cui Tarantino ha tratto l’omonimo capolavoro.