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martedì 10 dicembre 2013

ASGHAR FARHADI

IL PASSATO - 2013




Dopo il clamoroso exploit di Una separazione, Asghar Farhadi trova capitali francesi e per la prima volta gira fuori dall’Iran. Come già nel film precedente, la famiglia è al centro della storia, scritta e sceneggiata dallo stesso regista.

Molto sicuro di sé, Farhadi gira in Francia come se fosse l’Iran e Parigi non è tanto diversa da Teheran. E già questo non farsi intimidire dal peso del Paese europeo è un punto a suo favore. Di francese c’è solo la brava Bérénice BejoI personaggi infatti hanno le più diverse origini (Samir, Ahmad, Naima, Shahryar, Fouad), come si conviene ad ogni metropoli globale, ma le dinamiche sono sempre le stesse. Donne isteriche e stressate; compagni depressi, assenti e comunque indecisi; figli abbandonati a loro stessi che sviluppano presto gli anticorpi per affrontare il duro squallore della vita. 

Il passato è costruito per slittamenti. Da un personaggio all’altro, da un’interrelazione all’altra (tra due ex compagni, tra due rivali in amore, tra madre e figlia, tra titolare e commessa…) si susseguono a cascata le menzogne, i segreti traditi, le verità taciute, in un sovrabbondanza di situazioni che sono allo stesso modo banalmente quotidiane ed eccessivamente estreme. Il film lascia la sensazione di essere troppo farcito.


Se in Una separazione le due famiglie opposte erano narrate con mano perfettamente equilibrata, il ménage allargato de Il passato è più difficile da tenere sotto controllo.

sabato 14 gennaio 2012

ASGHAR FARHADI - parte 2 / SHIRIN NESHAT

UN FILM / ALCUNI SCATTI




A. Cosa ci vuole raccontare Farhadi?
B. Senz’altro l’Iran di oggi. Come nel precedente About Elly è evidente che il regista desideri dare del suo Paese un’immagine lontana dagli stereotipi. L’Iran dei film di Farhadi è un paese moderno, paradossalmente ‘occidentale’. Sembra che questo sia il problema di fondo.
A. Rappresentare una società evoluta in cui i problemi sono gli stessi delle società sviluppate. Si potrebbe parlare di film ‘glocali’?
B. A parte la bruttezza del termine, sì, perché non possono non essere presenti le peculiarità della realtà locale.
A. Si riferisce alla religione?
B. Non solo. Certo che la telefonata all’autorità religiosa per sapere se è considerato impuro per una donna lavare un anziano ha chiaramente la funzione di ricordare allo spettatore ‘occidentale’ che siamo nel paese degli ayatollah e del resto lo spettatore occidentale si aspetta, quasi pretende, che in un film iraniano si parli di questo. È inevitabile, però il localismo io lo ritrovo nella volontà di seguire una tradizione cinematografica nazionale come elemento identitario. E la scelta è ideologica, poetica e decisamente originale. Direi programmatica.
A. Affermare un’identità nazionale attraverso la cultura, in questo caso il cinema?
B. Esattamente e va evidenziata la portata dirompente di questa scelta. Non si vanno a scomodare le lontane epoche d’oro della cultura farsi o le recenti epopee del risveglio rivoluzionario islamista ne’ quelle contemporanee antiteocratiche. No, Farhadi opta per il cinema, arte moderna e occidentale per eccellenza e quindi antitetica rispetto alla tradizione del suo Paese. Ma proprio il cinema e le arti visive/visuali hanno caratterizzato la vita culturale iraniana degli ultimi decenni.
A. Sta pensando a Kiarostami a Panahi?
B. Certo. Una separazione è una dichiarazione d’amore al cinema iraniano, le citazioni sono palesi. Pensare a Il cerchio è naturale oppure a Close up di Kiarostami. E parlando di cultura visiva iraniana pensavo anche a Naderi, autore a cavallo tra Iran e Stati Uniti o al bravissimo sceneggiatore anglo persiano Hossein Amini. Senza dimenticare Marjane Satrapi e la straordinaria video artista Shirin Neshat.
A. Potrei aggiungere che un libro come Leggere Lolita a Teheran non avrebbe potuto essere scritto in nessun altro paese islamico.
B. Verissimo. È in questo ambiente culturale che si muove Farhadi. La famiglia borghese del film è l’emblema di questa scelta di campo, contrapposta alla famiglia popolare. Nella famiglia borghese c’è assoluta parità di ruoli. Padre madre e figlia sono esattamente sullo stesso piano. Non solo, ma l’opinione della figlia preadolescente è uno dei temi principali e questo è rivoluzionario.
A. Io parlerei di giudizio vero e proprio. La figlia si affianca al giudice.
B. Proprio così. La figlia di 11 anni è caricata di responsabilità morali. O meglio, i genitori coinvolgono la figlia, si sentono giudicati da lei e sviluppano sensi di colpa che conducono alla scena finale.
A. O sarebbe più appropriato parlare di ‘non scena’?
B. È anche questo che rende Una separazione un grande film: la tensione emotiva tra il mostrato/ripreso e il non mostrato/non ripreso. Molti ‘vuoti’ reggono il film. Geniale paradosso per un’arte visiva. Il regista sceglie di non farci vedere i due episodi cruciali.
A. Pensi che finora abbiamo girato attorno al film, che offre molti altri spunti e tutti affrontati con maestria.
B. Proprio per questo possiamo definire Una separazione un capolavoro.


martedì 27 dicembre 2011

ASGHAR FARHADI - parte 1

UNA SEPARAZIONE  
ASGHAR FARHADI - 2011



 
Prima scena del film: marito e moglie seduti in uno spoglio ufficio espongono le rispettive ragioni a proposito della loro separazione. Lo sguardo è rivolto ad un giudice che lo spettatore non vede perché coincidente con la macchina da presa in soggettiva.

Giudice e giudizio saranno uno dei temi ricorrenti che legano insieme una storia fatta di molteplici nodi emotivi che riproducono la quotidianità dell’esistenza. Lo spettatore entra nella vita dei protagonisti, nei loro appartamenti, all’ospedale, in tribunale, a scuola, in macchina, in banca.
La camera non molla un attimo i personaggi, i gesti, i volti, gli ambienti, gli oggetti. Famiglie borghesi e popolari di Teheran alle prese con i problemi di tutti i giorni: incomprensioni coniugali, il rapporto con i figli, i genitori anziani da accudire, il lavoro. Ma siamo in Iran, e alla lista si aggiunge anche la religione e il suo peso nei rapporti tra i sessi.
Motivo religioso a parte, il regista deterritorializza il film, il quale è sì iraniano ma vuole proporsi come un film universale, che racconta l’uomo, la famiglia, la società di oggi, a Tokio a Parigi a San Paolo. È utile a tal fine il dualismo sociale reso dal contatto/contrasto tra la famiglia borghese e la famiglia popolare. Sono i loro comportamenti, il reticolo relazionale, gli ambienti in cui vivono che tracciano, visivamente, le diverse realtà e lo fanno in maniera naturale, senza le sottolineature sociologiche o intellettualistiche in cui sarebbe caduto un cineasta europeo impegnato.
Asghar Farhadi ha un tocco asciutto, sicuro, leggero nell’affrontare temi complessi, pesanti. Doti da grande regista oltre che sceneggiatore di talento. Altro pregio di questo miracolo di film è proprio il perfetto connubio tra scrittura e regia. C’è un testo scritto, fatto di dialoghi credibili, tempi narrativi giusti, uso sapiente delle ellissi; c’è una regia che aderisce perfettamente alla storia e mantiene coerenza stilistica anche nelle pause narrative. Anzi, è l’uso della macchina da presa in tali pause ad assumere funzione narrativa muovendosi emozionalmente “a spalla” sui personaggi o, al contrario, restando impassibilmente immobile.
Infine gli attori, tutti pienamente nelle rispettive parti, tanto da ricevere il premio all’intero cast all’ultimo Festival di Berlino, pure questo segno di una regia dalle idee chiarissime. Come nella scena finale, in cui bastava un minuto in più per mandare all'aria tutto quanto e invece il regista ascolta il nostro ripetuto invito a chiudere e chiude in tempo. Una separazione è un film su cui bisognerà tornare.