cinema

martedì 27 dicembre 2011

ASGHAR FARHADI - parte 1

UNA SEPARAZIONE  
ASGHAR FARHADI - 2011



 
Prima scena del film: marito e moglie seduti in uno spoglio ufficio espongono le rispettive ragioni a proposito della loro separazione. Lo sguardo è rivolto ad un giudice che lo spettatore non vede perché coincidente con la macchina da presa in soggettiva.

Giudice e giudizio saranno uno dei temi ricorrenti che legano insieme una storia fatta di molteplici nodi emotivi che riproducono la quotidianità dell’esistenza. Lo spettatore entra nella vita dei protagonisti, nei loro appartamenti, all’ospedale, in tribunale, a scuola, in macchina, in banca.
La camera non molla un attimo i personaggi, i gesti, i volti, gli ambienti, gli oggetti. Famiglie borghesi e popolari di Teheran alle prese con i problemi di tutti i giorni: incomprensioni coniugali, il rapporto con i figli, i genitori anziani da accudire, il lavoro. Ma siamo in Iran, e alla lista si aggiunge anche la religione e il suo peso nei rapporti tra i sessi.
Motivo religioso a parte, il regista deterritorializza il film, il quale è sì iraniano ma vuole proporsi come un film universale, che racconta l’uomo, la famiglia, la società di oggi, a Tokio a Parigi a San Paolo. È utile a tal fine il dualismo sociale reso dal contatto/contrasto tra la famiglia borghese e la famiglia popolare. Sono i loro comportamenti, il reticolo relazionale, gli ambienti in cui vivono che tracciano, visivamente, le diverse realtà e lo fanno in maniera naturale, senza le sottolineature sociologiche o intellettualistiche in cui sarebbe caduto un cineasta europeo impegnato.
Asghar Farhadi ha un tocco asciutto, sicuro, leggero nell’affrontare temi complessi, pesanti. Doti da grande regista oltre che sceneggiatore di talento. Altro pregio di questo miracolo di film è proprio il perfetto connubio tra scrittura e regia. C’è un testo scritto, fatto di dialoghi credibili, tempi narrativi giusti, uso sapiente delle ellissi; c’è una regia che aderisce perfettamente alla storia e mantiene coerenza stilistica anche nelle pause narrative. Anzi, è l’uso della macchina da presa in tali pause ad assumere funzione narrativa muovendosi emozionalmente “a spalla” sui personaggi o, al contrario, restando impassibilmente immobile.
Infine gli attori, tutti pienamente nelle rispettive parti, tanto da ricevere il premio all’intero cast all’ultimo Festival di Berlino, pure questo segno di una regia dalle idee chiarissime. Come nella scena finale, in cui bastava un minuto in più per mandare all'aria tutto quanto e invece il regista ascolta il nostro ripetuto invito a chiudere e chiude in tempo. Una separazione è un film su cui bisognerà tornare.

domenica 25 dicembre 2011

NIETZSCHE / SAVINIO / HITCHENS

CORRISPONDENZE

Hitchens con il VicePresidente Sandinista del Nicaragua


È solo un caso che proprio in questi giorni si sovrappongano certe letture o meglio, che in certe letture s’incrocino certe tematiche.

God is not great non è un testo polemico, la polemica contro di esso e contro Christopher Hitchens è stata alimentata da  determinati lettori, magari senza aver neppure letto il libro.

In realtà, oltre a dire cose su Dio e sulla religione indiscutibili per qualsiasi persona dotata di un minimo di libertà intellettuale, lo scrittore inglese ci affascina con i suoi ricordi d’infanzia, con gli aneddoti e le testimonianze raccolte in una vita piena di incontri ed esperienze. Hitchens è innanzi tutto un comunicatore efficace e un appassionato di letteratura; resta viva in lui la qualità dell’insegnante che sa trasmettere ai suoi allievi la curiosità scevra da pregiudizi. E questo è evidente anche in God is not great, nel quale lo scrittore è critico non tanto nei confronti di Dio ma verso le ragioni dei credenti di tutte le religioni, e Hitchens afferma “the mildest criticism of religion is also the most radical and the most devastating one. Religion is man-made”.

Hitchens s’incrocia, molto singolarmente vista la distanza tra i due autori, con la Nuova Enciclopedia di Alberto Savinio, libro che da qualche mese staziona sul comodino. Il geniale artista ha voluto compilarsi un suo proprio dizionario declinando voci, in ordine alfabetico, che compongono un universo intimo che potrebbe essere l’archetipo di un contemporaneo blog. Il testo/ipertesto può essere consultato a caso e questo è stato il primo approccio ovvero leggerlo/rileggerlo alfabeticamente voce dopo voce, come sta avvenendo attualmente. Il piacere è sempre ‘inenarrabile come bere un flûte di Les Mesnil’ come direbbe divertito ed estasiato l’amico Roberto.

Ogni voce dell’enciclopedia è una sorpresa ma anche una conferma: Savinio ci sorprende sempre e sempre conferma il piacere di condividere la sua straordinaria intelligenza (dal latino intelligentem, participio presente di intelligere, che ha discernimento e facoltà di ben intendere e giudicare).

Si giunge, per esempio, alla voce NIETZSCHE, in cui si affrontano temi quali il fascismo, il nazismo e l’accusa mossa al pensatore tedesco di aver ispirato le violenze nazifasciste. Con la massima leggerezza Savinio riesce ad affermare concetti definitivi come questo: “L’uomo intellettualmente ineducato è finalista. Crede che ogni cosa quaggiù ha un fine. Questo presupposto è anche la ragione della religione. È anche il movente psichico che mantiene in vita Dio”. Ed ecco che parlando di Nietzsche Savinio trova il modo, mezzo secolo prima, di agganciarsi, in lettura parallela, a Christopher Hitchens.

Alberto Savinio, Una strana famiglia, 1947


Roger et Angélique, 1931
Battaglia di centauri, 1930

martedì 20 dicembre 2011

ENZO JANNACCI / FABIO FAZIO

SPECIALE CHE TEMPO CHE FA
VENGO ANCH'IO - 19 DICEMBRE 2011




Grande serata di tv quella di lunedì 19 dicembre. Lo spettacolo allestito da Fabio Fazio è il vero evento televisivo dell’anno. Per molti motivi. Intanto si è trattato di uno spettacolo che ha saputo coniugare divertimento e commozione e toccare le giuste corde di questi due sentimenti è alquanto difficile. Fazio ci è riuscito grazie al supporto di professionisti in libertà, quindi, anche se legati a tempi di scena ben definiti,  svincolati dai tipici ruoli delle apparizioni televisive. Grande l’abilità di Fazio nel far sentire “a casa” i convenuti che comunicavano l’impressione di partecipare a una festa di famiglia.

Ma il merito principale della riuscita della trasmissione sta nella grandezza del festeggiato, lo straordinario Enzo Jannacci. Molto invecchiato rispetto a quell’ultima apparizione tv che io ricordi, sempre da Fazio qualche anno fa, la quale resterà nella memoria come un momento di surreale, estraniante, godibilissimo ‘non sense’ televisivo carico di senso.

Invecchiato ma con la solita voce, alta e schietta, e una sempre divertita ironia nello sguardo vivissimo. Molti i momenti riusciti, praticamente quasi tutti: Paolo Rossi con Me lo dicevi prima, Irene Grandi con Ci vuole orecchio, Albanese e Vengo anch’io, Teocoli - Il dritto, il sempre giullaresco Dario Fo, J-Ax con una versione punk della straordinaria Veronica, l’irresistibile Massimo Boldi, la divertita Ornella Vanoni.

Orchestra diretta da un simpatico, appassionato, commosso, Paolino Jannacci. Infine la chiusura riservata ad Enzo, al suo barbun e a Quelli che…corale. Si va a letto felici.


domenica 18 dicembre 2011

GEORGE CLOONEY

LE IDI DI MARZO
GEORGE CLOONEY - 2011





 la forme d'une ville  
Change plus vite, hélas! que le coeur d'un mortel

Charles Baudelaire


Guardando Le idi di marzo, e pensando al repentino cambiamento che avviene nel cuore di Stephen Meyers, i versi di Baudelaire dovrebbero suonare quanto meno stonati. A dire il vero, siamo più propensi, chissà perché,  a dare ragione al poeta francese anzichè a George Clooney e agli altri due sceneggiatori…
Come per il tassista in Collateral di Michael Mann, la personalità, le idee, la visione del mondo di un adulto compiono un cambiamento totale (U-turn direbbero gli inglesi) nel giro di poche ore. Veramente poco verosimile.

Campagna presidenziale americana, la gerarchia degli incarichi, le mosse degli avversari, l’arrivismo e il cinismo esasperati. Niente di nuovo: Le idi di marzo riesuma il film ‘che mette a nudo il sistema’, con tanto di discorsi pubblici sull’etica e sulla bella politica che coprono il marciume e l’abiezione morale dilaganti dietro la belle facciate intonacate di fresca innocenza. Tutto già visto e sentito, secondo un copione abbastanza logoro.

Eppure il film funziona. Sarà perché segue fedelmente il genere così da offrire allo spettatore ciò che egli richiede o grazie alle performance di Gosling, Seymour Hoffman e Giamatti, comunque sia, si tratta di un buon prodotto di intrattenimento. E sono proprio le scene che vedono in campo i tre consulenti a tenere in piedi il film, nonostante alcuni errori di ideazione/realizzazione piuttosto gravi. Cerchiamo di puntualizzare quelli più lampanti:

- già evidenziata l’inverosimiglianza dell’U-turn di Stephen che, per citare il nostro critico di riferimento, MRM, costituisce il verme nella mela;

- Morris / Clooney risulta con poco spessore. L’attore subisce il personaggio, senza caratterizzarlo, tranne che nella scena nelle cucine del ristorante, la quale ci offre motivo di rimpianto per quello che poteva essere il film se si fosse osato di più. D’accordo che nei film impegnati i politici devono assumere i panni di fantocci manovrati da consiglieri spregiudicati, ma qui, come già in Ghost Writer di Polanski, il probabile Presidente risulta anche troppo ripassato a colpi di pialla. Ma forse la piattezza, oltre che ideologica, è la geniale trovata del regista per far risaltare le doti degli altri attori? Il dubbio non ci sfiora;

- la scena dell’incontro al comitato elettorale tra Stephen e Molly è costruita su uno sciropposo e fastidioso dialogo: seduzione da spot pubblicitario o da serie TV per teenagers. E si tratta di una scena importante, che deve definire il protagonista ed aprire una fondamentale linea narrativa. Clooney regista si guardi attentamente l’incontro tra Gosling e Irene in Drive e ne tragga motivi di riflessione;

- altro clamoroso errore di regia il finale. Gosling è perfetto ma il contesto (situazione carica di sovrasenso simbolico) e soprattutto il sonoro sanciscono inequivocabilmente la modestia del regista;

- infine la colonna sonora. Si sceglie il compositore à la page e si accetta un commento musicale pesante, banale, privo di qualsiasi dialettica con il meccanismo filmico.

Eppure il film funziona. E si ricorderà soprattutto per i dialoghi che hanno come protagonista Giamatti. La scena del secondo incontro tra i consulenti rivali, a parte l’imbarazzante ingenuità di Stephen è da antologia.

domenica 11 dicembre 2011

CHECCO ZALONE

RESTO UMILE WORLD TOUR
APOLOGIA DI CHECCO



Luca Medici è bravo, molto bravo. Oltre ad essere naturalmente simpatico ha anche notevole intelligenza dell’animo umano. Luca Medici è appassionatamente curioso e fino ad ora può sinceramente affermare di essere rimasto umile. L’umiltà di Luca emerge nelle interviste, accompagnata da una certa timidezza “giapponese” che lo porta quasi a scusarsi delle malefatte di Checco. È infatti la schizofrenia il tratto che si impone con forza di fronte alla strana coppia Luca/Checco.

Per certi versi tale dualismo si può riscontrare anche in Albanese, ma solo in apparenza, perché a differenza di Luca, Albanese è controllatissimo ed è sempre intelligibile, dietro alla maschera di un Cetto, l’attore e la consapevolezza delle proprie capacità. Dietro alle maschere di Albanese c’è sempre e sempre si avverte l’autocompiacimento, il ‘ma-come-sono-bravo’.

Dietro agli sdoppiamenti al cubo di Luca (perché Luca si sdoppia in Checco il quale si sdoppia nel personaggio di turno) c’è innanzitutto divertimento, poi c’è il dubbio. Checco non è mai pienamente sicuro, ha sempre dei dubbi che rivelano un’umanità schietta che ce lo rende ancora più simpatico.

I due appuntamenti tv di Zalone sono stati grande televisione. In due serate così piene di trovate è naturale che il livello non riesca a mantenersi sempre ai massimi, ma lo standard medio è veramente notevole, con vertici di assoluta genialità. Tra questi Saviano, la ormai classica parodia dei Modà, il duetto con Silvestri, per fare qualche esempio.

Senza contare che lo show ci ha fatto conoscere un musicista talentuoso, specie al piano: memorabile il duetto con Al Jarreau. E non c’è solo questo. Un aspetto importante nella comicità di Checco è la sua scorrettezza, camuffata da volgarità apparente. Se altri comici sono rassicuranti e in fondo prevedibili –infatti rassicurano perché fanno esattamente quello che noi ci aspettiamo– Checco destabilizza, sfidando lo spettatore a giocare col fuoco. Per esempio Checco è urticante quando ridicolizza i miti della sinistra perché lo spettatore di sinistra avverte  che la pungente satira viene da un corpo estraneo al proprio mondo e la digerisce male.

Scorrettissima in tal senso la parodia di Servizio Pubblico con un Santoro che manda a Londra la racchia, scorrettissimo il Vendola delle pari opportunità liriche o lo zio di Avetrana (ma chi avrebbe avuto il coraggio di proporlo? Il bollito Benigni, ormai una parodia di se stesso?) e ancora, le battute sul jazz, sui neri, sugli Indios e via dicendo.

Con Checco è stato divertente anche leggere i critici televisivi (l’Espresso, la Repubblica, e il letteratissimo Walter Siti su La Stampa), decisamente spiazzati da un comico che non appaia a Ballarò, da Fazio o dalla Dandini.


mercoledì 7 dicembre 2011

MUSICA: MY BEST OF 2011


UN ANNO DI ASCOLTI




Buon anno, questo 2011. Almeno dal punto di vista musicale. Decisamente migliore del 2010. Diversi i dischi interessanti ascoltati e soprattutto incoraggiante il fatto che si tratta in molti casi di debutti o seconde uscite.

Tra gli inossidabili due nomi su tutti: i Radiohead e Keith Jarrett. Chiaro, si va sul sicuro, però non è sempre detto. Per esempio The King of Limbs non è un capolavoro ma almeno un paio di pezzi sono notevoli e quindi è senz’altro da citare, indipendentemente dal brand che ormai rappresenta il gruppo di Oxford. Per Jarrett il discorso è diverso. Con l’album Rio il pianista torna ai massimi livelli, tanto che egli stesso è stato travolto da un insolito entusiasmo alla fine dell’esecuzione delle 15 improvvisazioni che costituiscono il disco. Rio è forse il vero evento dell’anno.

E veniamo alle ‘novità’. Tra gli esordi si segnala James Blake, talentuoso giovincello che, si spera, regalerà ulteriori sorprese. Dal Mali, clamoroso scrigno di gioielli musicali, arriva il debutto di Fatoumata Diawara, una Sade meno patinata e più sanguigna. Restando nell’ambito della World Music, freschissimo il secondo album del chitarrista Aurelio Martinez, crossover tra Africa e Caribe. Opera seconda anche per Justin Vernon. Il suo Bon Iver è forse il miglior disco dell’anno. Da segnalare, en passant, i divertimenti ‘electro-hip-pop’ di AraabMUZIK e il piacevole neoreggae  di Natty, già apprezzato compagno di viaggio di Nitin Sawhney, di cui si ricorda il convincente Last Days of Meaning.

Panorama italiano: poco o nulla. Giusto tre segnalazioni. La canzone sanremese Yanez di Van de Sfroos, la compilation orchestrale Magnifique di un sorprendente Peppino di Capri e il vero cult dell’anno, la band bolognese Lo Stato Sociale. Imperdibile il loro secondo EP Amore ai tempi dell’Ikea.
Justin Vernon




Per chiudere, un video che, per un geografo come me, non poteva passare inosservato