cinema

martedì 27 dicembre 2011

ASGHAR FARHADI - parte 1

UNA SEPARAZIONE  
ASGHAR FARHADI - 2011



 
Prima scena del film: marito e moglie seduti in uno spoglio ufficio espongono le rispettive ragioni a proposito della loro separazione. Lo sguardo è rivolto ad un giudice che lo spettatore non vede perché coincidente con la macchina da presa in soggettiva.

Giudice e giudizio saranno uno dei temi ricorrenti che legano insieme una storia fatta di molteplici nodi emotivi che riproducono la quotidianità dell’esistenza. Lo spettatore entra nella vita dei protagonisti, nei loro appartamenti, all’ospedale, in tribunale, a scuola, in macchina, in banca.
La camera non molla un attimo i personaggi, i gesti, i volti, gli ambienti, gli oggetti. Famiglie borghesi e popolari di Teheran alle prese con i problemi di tutti i giorni: incomprensioni coniugali, il rapporto con i figli, i genitori anziani da accudire, il lavoro. Ma siamo in Iran, e alla lista si aggiunge anche la religione e il suo peso nei rapporti tra i sessi.
Motivo religioso a parte, il regista deterritorializza il film, il quale è sì iraniano ma vuole proporsi come un film universale, che racconta l’uomo, la famiglia, la società di oggi, a Tokio a Parigi a San Paolo. È utile a tal fine il dualismo sociale reso dal contatto/contrasto tra la famiglia borghese e la famiglia popolare. Sono i loro comportamenti, il reticolo relazionale, gli ambienti in cui vivono che tracciano, visivamente, le diverse realtà e lo fanno in maniera naturale, senza le sottolineature sociologiche o intellettualistiche in cui sarebbe caduto un cineasta europeo impegnato.
Asghar Farhadi ha un tocco asciutto, sicuro, leggero nell’affrontare temi complessi, pesanti. Doti da grande regista oltre che sceneggiatore di talento. Altro pregio di questo miracolo di film è proprio il perfetto connubio tra scrittura e regia. C’è un testo scritto, fatto di dialoghi credibili, tempi narrativi giusti, uso sapiente delle ellissi; c’è una regia che aderisce perfettamente alla storia e mantiene coerenza stilistica anche nelle pause narrative. Anzi, è l’uso della macchina da presa in tali pause ad assumere funzione narrativa muovendosi emozionalmente “a spalla” sui personaggi o, al contrario, restando impassibilmente immobile.
Infine gli attori, tutti pienamente nelle rispettive parti, tanto da ricevere il premio all’intero cast all’ultimo Festival di Berlino, pure questo segno di una regia dalle idee chiarissime. Come nella scena finale, in cui bastava un minuto in più per mandare all'aria tutto quanto e invece il regista ascolta il nostro ripetuto invito a chiudere e chiude in tempo. Una separazione è un film su cui bisognerà tornare.

domenica 25 dicembre 2011

NIETZSCHE / SAVINIO / HITCHENS

CORRISPONDENZE

Hitchens con il VicePresidente Sandinista del Nicaragua


È solo un caso che proprio in questi giorni si sovrappongano certe letture o meglio, che in certe letture s’incrocino certe tematiche.

God is not great non è un testo polemico, la polemica contro di esso e contro Christopher Hitchens è stata alimentata da  determinati lettori, magari senza aver neppure letto il libro.

In realtà, oltre a dire cose su Dio e sulla religione indiscutibili per qualsiasi persona dotata di un minimo di libertà intellettuale, lo scrittore inglese ci affascina con i suoi ricordi d’infanzia, con gli aneddoti e le testimonianze raccolte in una vita piena di incontri ed esperienze. Hitchens è innanzi tutto un comunicatore efficace e un appassionato di letteratura; resta viva in lui la qualità dell’insegnante che sa trasmettere ai suoi allievi la curiosità scevra da pregiudizi. E questo è evidente anche in God is not great, nel quale lo scrittore è critico non tanto nei confronti di Dio ma verso le ragioni dei credenti di tutte le religioni, e Hitchens afferma “the mildest criticism of religion is also the most radical and the most devastating one. Religion is man-made”.

Hitchens s’incrocia, molto singolarmente vista la distanza tra i due autori, con la Nuova Enciclopedia di Alberto Savinio, libro che da qualche mese staziona sul comodino. Il geniale artista ha voluto compilarsi un suo proprio dizionario declinando voci, in ordine alfabetico, che compongono un universo intimo che potrebbe essere l’archetipo di un contemporaneo blog. Il testo/ipertesto può essere consultato a caso e questo è stato il primo approccio ovvero leggerlo/rileggerlo alfabeticamente voce dopo voce, come sta avvenendo attualmente. Il piacere è sempre ‘inenarrabile come bere un flûte di Les Mesnil’ come direbbe divertito ed estasiato l’amico Roberto.

Ogni voce dell’enciclopedia è una sorpresa ma anche una conferma: Savinio ci sorprende sempre e sempre conferma il piacere di condividere la sua straordinaria intelligenza (dal latino intelligentem, participio presente di intelligere, che ha discernimento e facoltà di ben intendere e giudicare).

Si giunge, per esempio, alla voce NIETZSCHE, in cui si affrontano temi quali il fascismo, il nazismo e l’accusa mossa al pensatore tedesco di aver ispirato le violenze nazifasciste. Con la massima leggerezza Savinio riesce ad affermare concetti definitivi come questo: “L’uomo intellettualmente ineducato è finalista. Crede che ogni cosa quaggiù ha un fine. Questo presupposto è anche la ragione della religione. È anche il movente psichico che mantiene in vita Dio”. Ed ecco che parlando di Nietzsche Savinio trova il modo, mezzo secolo prima, di agganciarsi, in lettura parallela, a Christopher Hitchens.

Alberto Savinio, Una strana famiglia, 1947


Roger et Angélique, 1931
Battaglia di centauri, 1930

martedì 20 dicembre 2011

ENZO JANNACCI / FABIO FAZIO

SPECIALE CHE TEMPO CHE FA
VENGO ANCH'IO - 19 DICEMBRE 2011




Grande serata di tv quella di lunedì 19 dicembre. Lo spettacolo allestito da Fabio Fazio è il vero evento televisivo dell’anno. Per molti motivi. Intanto si è trattato di uno spettacolo che ha saputo coniugare divertimento e commozione e toccare le giuste corde di questi due sentimenti è alquanto difficile. Fazio ci è riuscito grazie al supporto di professionisti in libertà, quindi, anche se legati a tempi di scena ben definiti,  svincolati dai tipici ruoli delle apparizioni televisive. Grande l’abilità di Fazio nel far sentire “a casa” i convenuti che comunicavano l’impressione di partecipare a una festa di famiglia.

Ma il merito principale della riuscita della trasmissione sta nella grandezza del festeggiato, lo straordinario Enzo Jannacci. Molto invecchiato rispetto a quell’ultima apparizione tv che io ricordi, sempre da Fazio qualche anno fa, la quale resterà nella memoria come un momento di surreale, estraniante, godibilissimo ‘non sense’ televisivo carico di senso.

Invecchiato ma con la solita voce, alta e schietta, e una sempre divertita ironia nello sguardo vivissimo. Molti i momenti riusciti, praticamente quasi tutti: Paolo Rossi con Me lo dicevi prima, Irene Grandi con Ci vuole orecchio, Albanese e Vengo anch’io, Teocoli - Il dritto, il sempre giullaresco Dario Fo, J-Ax con una versione punk della straordinaria Veronica, l’irresistibile Massimo Boldi, la divertita Ornella Vanoni.

Orchestra diretta da un simpatico, appassionato, commosso, Paolino Jannacci. Infine la chiusura riservata ad Enzo, al suo barbun e a Quelli che…corale. Si va a letto felici.


domenica 18 dicembre 2011

GEORGE CLOONEY

LE IDI DI MARZO
GEORGE CLOONEY - 2011





 la forme d'une ville  
Change plus vite, hélas! que le coeur d'un mortel

Charles Baudelaire


Guardando Le idi di marzo, e pensando al repentino cambiamento che avviene nel cuore di Stephen Meyers, i versi di Baudelaire dovrebbero suonare quanto meno stonati. A dire il vero, siamo più propensi, chissà perché,  a dare ragione al poeta francese anzichè a George Clooney e agli altri due sceneggiatori…
Come per il tassista in Collateral di Michael Mann, la personalità, le idee, la visione del mondo di un adulto compiono un cambiamento totale (U-turn direbbero gli inglesi) nel giro di poche ore. Veramente poco verosimile.

Campagna presidenziale americana, la gerarchia degli incarichi, le mosse degli avversari, l’arrivismo e il cinismo esasperati. Niente di nuovo: Le idi di marzo riesuma il film ‘che mette a nudo il sistema’, con tanto di discorsi pubblici sull’etica e sulla bella politica che coprono il marciume e l’abiezione morale dilaganti dietro la belle facciate intonacate di fresca innocenza. Tutto già visto e sentito, secondo un copione abbastanza logoro.

Eppure il film funziona. Sarà perché segue fedelmente il genere così da offrire allo spettatore ciò che egli richiede o grazie alle performance di Gosling, Seymour Hoffman e Giamatti, comunque sia, si tratta di un buon prodotto di intrattenimento. E sono proprio le scene che vedono in campo i tre consulenti a tenere in piedi il film, nonostante alcuni errori di ideazione/realizzazione piuttosto gravi. Cerchiamo di puntualizzare quelli più lampanti:

- già evidenziata l’inverosimiglianza dell’U-turn di Stephen che, per citare il nostro critico di riferimento, MRM, costituisce il verme nella mela;

- Morris / Clooney risulta con poco spessore. L’attore subisce il personaggio, senza caratterizzarlo, tranne che nella scena nelle cucine del ristorante, la quale ci offre motivo di rimpianto per quello che poteva essere il film se si fosse osato di più. D’accordo che nei film impegnati i politici devono assumere i panni di fantocci manovrati da consiglieri spregiudicati, ma qui, come già in Ghost Writer di Polanski, il probabile Presidente risulta anche troppo ripassato a colpi di pialla. Ma forse la piattezza, oltre che ideologica, è la geniale trovata del regista per far risaltare le doti degli altri attori? Il dubbio non ci sfiora;

- la scena dell’incontro al comitato elettorale tra Stephen e Molly è costruita su uno sciropposo e fastidioso dialogo: seduzione da spot pubblicitario o da serie TV per teenagers. E si tratta di una scena importante, che deve definire il protagonista ed aprire una fondamentale linea narrativa. Clooney regista si guardi attentamente l’incontro tra Gosling e Irene in Drive e ne tragga motivi di riflessione;

- altro clamoroso errore di regia il finale. Gosling è perfetto ma il contesto (situazione carica di sovrasenso simbolico) e soprattutto il sonoro sanciscono inequivocabilmente la modestia del regista;

- infine la colonna sonora. Si sceglie il compositore à la page e si accetta un commento musicale pesante, banale, privo di qualsiasi dialettica con il meccanismo filmico.

Eppure il film funziona. E si ricorderà soprattutto per i dialoghi che hanno come protagonista Giamatti. La scena del secondo incontro tra i consulenti rivali, a parte l’imbarazzante ingenuità di Stephen è da antologia.

domenica 11 dicembre 2011

CHECCO ZALONE

RESTO UMILE WORLD TOUR
APOLOGIA DI CHECCO



Luca Medici è bravo, molto bravo. Oltre ad essere naturalmente simpatico ha anche notevole intelligenza dell’animo umano. Luca Medici è appassionatamente curioso e fino ad ora può sinceramente affermare di essere rimasto umile. L’umiltà di Luca emerge nelle interviste, accompagnata da una certa timidezza “giapponese” che lo porta quasi a scusarsi delle malefatte di Checco. È infatti la schizofrenia il tratto che si impone con forza di fronte alla strana coppia Luca/Checco.

Per certi versi tale dualismo si può riscontrare anche in Albanese, ma solo in apparenza, perché a differenza di Luca, Albanese è controllatissimo ed è sempre intelligibile, dietro alla maschera di un Cetto, l’attore e la consapevolezza delle proprie capacità. Dietro alle maschere di Albanese c’è sempre e sempre si avverte l’autocompiacimento, il ‘ma-come-sono-bravo’.

Dietro agli sdoppiamenti al cubo di Luca (perché Luca si sdoppia in Checco il quale si sdoppia nel personaggio di turno) c’è innanzitutto divertimento, poi c’è il dubbio. Checco non è mai pienamente sicuro, ha sempre dei dubbi che rivelano un’umanità schietta che ce lo rende ancora più simpatico.

I due appuntamenti tv di Zalone sono stati grande televisione. In due serate così piene di trovate è naturale che il livello non riesca a mantenersi sempre ai massimi, ma lo standard medio è veramente notevole, con vertici di assoluta genialità. Tra questi Saviano, la ormai classica parodia dei Modà, il duetto con Silvestri, per fare qualche esempio.

Senza contare che lo show ci ha fatto conoscere un musicista talentuoso, specie al piano: memorabile il duetto con Al Jarreau. E non c’è solo questo. Un aspetto importante nella comicità di Checco è la sua scorrettezza, camuffata da volgarità apparente. Se altri comici sono rassicuranti e in fondo prevedibili –infatti rassicurano perché fanno esattamente quello che noi ci aspettiamo– Checco destabilizza, sfidando lo spettatore a giocare col fuoco. Per esempio Checco è urticante quando ridicolizza i miti della sinistra perché lo spettatore di sinistra avverte  che la pungente satira viene da un corpo estraneo al proprio mondo e la digerisce male.

Scorrettissima in tal senso la parodia di Servizio Pubblico con un Santoro che manda a Londra la racchia, scorrettissimo il Vendola delle pari opportunità liriche o lo zio di Avetrana (ma chi avrebbe avuto il coraggio di proporlo? Il bollito Benigni, ormai una parodia di se stesso?) e ancora, le battute sul jazz, sui neri, sugli Indios e via dicendo.

Con Checco è stato divertente anche leggere i critici televisivi (l’Espresso, la Repubblica, e il letteratissimo Walter Siti su La Stampa), decisamente spiazzati da un comico che non appaia a Ballarò, da Fazio o dalla Dandini.


mercoledì 7 dicembre 2011

MUSICA: MY BEST OF 2011


UN ANNO DI ASCOLTI




Buon anno, questo 2011. Almeno dal punto di vista musicale. Decisamente migliore del 2010. Diversi i dischi interessanti ascoltati e soprattutto incoraggiante il fatto che si tratta in molti casi di debutti o seconde uscite.

Tra gli inossidabili due nomi su tutti: i Radiohead e Keith Jarrett. Chiaro, si va sul sicuro, però non è sempre detto. Per esempio The King of Limbs non è un capolavoro ma almeno un paio di pezzi sono notevoli e quindi è senz’altro da citare, indipendentemente dal brand che ormai rappresenta il gruppo di Oxford. Per Jarrett il discorso è diverso. Con l’album Rio il pianista torna ai massimi livelli, tanto che egli stesso è stato travolto da un insolito entusiasmo alla fine dell’esecuzione delle 15 improvvisazioni che costituiscono il disco. Rio è forse il vero evento dell’anno.

E veniamo alle ‘novità’. Tra gli esordi si segnala James Blake, talentuoso giovincello che, si spera, regalerà ulteriori sorprese. Dal Mali, clamoroso scrigno di gioielli musicali, arriva il debutto di Fatoumata Diawara, una Sade meno patinata e più sanguigna. Restando nell’ambito della World Music, freschissimo il secondo album del chitarrista Aurelio Martinez, crossover tra Africa e Caribe. Opera seconda anche per Justin Vernon. Il suo Bon Iver è forse il miglior disco dell’anno. Da segnalare, en passant, i divertimenti ‘electro-hip-pop’ di AraabMUZIK e il piacevole neoreggae  di Natty, già apprezzato compagno di viaggio di Nitin Sawhney, di cui si ricorda il convincente Last Days of Meaning.

Panorama italiano: poco o nulla. Giusto tre segnalazioni. La canzone sanremese Yanez di Van de Sfroos, la compilation orchestrale Magnifique di un sorprendente Peppino di Capri e il vero cult dell’anno, la band bolognese Lo Stato Sociale. Imperdibile il loro secondo EP Amore ai tempi dell’Ikea.
Justin Vernon




Per chiudere, un video che, per un geografo come me, non poteva passare inosservato

domenica 27 novembre 2011

FANTAGEOPOLITICA DELL'EUROPA

NIALL FERGUSON
WALL STREET JOURNAL - 19 NOVEMBRE 2011


Sul WSJ di sabato 19 novembre, lo storico Niall Ferguson ha pubblicato un gustoso quanto provocatorio articolo sul futuro dell’Europa. Ripreso interamente dal Foglio di mercoledì 23 novembre, nei giorni successivi è stato citato in numerosi articoli e interviste su varie testate nazionali. Proprio questa mattina ne parla sul Corriere anche il banchiere svizzero Antonio Foglia.
Propongo le illustrazioni che accompagnano l’articolo del WSJ e una mia elaborazione cartografica che ne rappresenta il contenuto.


Peter Arkle - WSJ



Mark Nerys - WSJ
Gi italiani lavoreranno come camerieri o giardinieri per i tedeschi, i quali avranno tutti una seconda casa nella Holyday Belt


Getty Images - WSJ





giovedì 24 novembre 2011

SAWHNEY / BRIAN ENO / CABARET VOLTAIRE

ON THE SAME HILL - 1978
FOURTH SHOT - 1979





L’ascolto di Say you will, dall’ultimo album di Nitin Sawhney, ha innescato una miccia. Il suono del sarod nell’incipit del brano, prima del cantato, mi ha riportato, istantaneamente, ad un preciso momento, sepolto tra gli anni.

Musica della memoria. Giornate fredde di quando il freddo non si sentiva. Music for films, copertina ruvida, pesante, musica a creare ambienti. E l’ambiente era la camera picta blu Klein, aperta al bosco, oltre il canale. Tappezzeria sonora che anticipava le chill room e tra le modulazioni minimali un pizzicato di corda sovraesposto. Ed erano scosse lungo la schiena. On the same hill è il lampo che illumina, la fiamma che riscalda.

Sono passati molti anni, una trentina, ma l’istante di quell’ascolto lontano, in amichevole compagnia, è tornato all’avvio di Say you will. Non c’è un diretto legame tra Sawhney e Brian Eno ma l’aura dei due brani è la stessa, almeno per il mio inconscio se piacevoli ricordi, anzi, tutta una stagione, addormentati in un angolo della memoria, sono tornati a destarsi.

Ma i ricordi sono mercurio vivo e zampillano in ogni direzione. Say you will risveglia On the same hill, l’esatto momento di un suo ascolto, quell’ambiente che rimanda subito ad un altro ambiente, il My Clubbino. Un buio pomeriggio invernale,  sul piatto Mix-up dei Cabaret Voltaire. Fuori la pioggia, la musica a riempire il nostro rifugio con i cupi rumori della civiltà industriale, il suono continuo, lacerante come lama che s’infila nel tessuto emozionale. Fourth shot, giornate di sex (più immaginato che fatto), drugs (viste consumare dagli altri) e rock’n’roll (questo sì, consumato ad overdosi), giornate che andavano a formare un’esistenza.

Appare Mnemosine, richiamata da qualche nota di sarod.

Say you will. Take the fall
Lose your pride. Lose it all
Walk away. Let it go
Smile again. Let it show
Say you will
Time will pass you by

Say you will, Nitin Sawhney
Last days of Meaning, 2011

Nitin Sawhney

domenica 20 novembre 2011

NITIN SAWHNEY

LAST DAYS OF MEANING
NITIN SAWHNEY - 2011




È da qualche anno che seguo Nitin Sawhney e adesso mi gusto il suo ultimo lavoro. Lavoro molto meditato, un concept che segue i pensieri e gli stati d’animo di Donald Meaning, un incattivito uomo del nostro tempo che vive rinchiuso in casa a inveire contro il mondo. Un uomo solo, abbandonato dalla moglie che gli ha lasciato un registratore con un demotape che contiene la serie di canzoni che costituisce l’album. Le canzoni, intervallate dalle imprecazioni di Meaning, interpretato dal grande attore John Hurt, ricostruiscono un’esistenza, un percorso che si chiuderà proprio con un’apertura verso il mondo, la luce, il sole. Last days è un bel disco, il più maturo del compositore inglese. L’idea del concept riprende quanto già sperimentato in London Undersound del 2008, album interessante ma non pienamente calibrato. Anche lì c’era l’idea di intervallare le traks da interludi, in quel caso situazionali-ambientali  rumoristici, legati alla metropolitana londinese.

Questo progetto è invece più omogeneo, studiatissimo in ogni particolare, con alcuni brani davvero belli. Nitin è autore dei testi, delle musiche, produce, arrangia e suona vari strumenti (chitarre, basso, banjo, ukulele, piano, programmazioni elettroniche…). La strumentazione è ampia e policroma e va dagli archi classici alle percussioni agli strumenti della tradizione indiana. Impeccabili tutti i collaboratori, cantanti e musicisti, tra i quali spicca il giovane ma già riconosciuto ‘grande Maestro’ Soumik Datta, virtuoso del sarod, strumento a corde dell’Hindostan.

Musicalmente l’album è il tipico crossover di Sawhney, sia tra vari generi musicali che tra aree geografiche e culturali. Si parte con un diabolico blues con tanto di armonica e la potente voce di Yolanda Quartey e a seguire brani che mescolano oriente e occidente, ambient e cadenze urban, ballate pianistiche e pop songs etnoelettroniche.

Last Days of Meaning va ascoltato tutto di seguito per coglierne l’impianto unitario di base sul quale si innestano i veri episodi esistenziali. Tra di essi mi piace ricordarne in particolare due, Say you will, con un sarod che mi ha istintivamente riportato a un brano di Eno del 1978 a cui sono molto legato; Taste the air con Natty vocalist a ripetere il miglior brano di London Undersound, Days of fire.

mercoledì 16 novembre 2011

CREDIT CRUNCH AL CINEMA

MARGIN CALL
J. C. CHANDOR - 2011




A: film sul mondo della finanza e del denaro ne sono stati fatti molti ma questo è forse il primo tentativo di spiegare quanto sia successo in America tra 2007 e 2008.

B: e non si tratta di un documentario come l’eccellente Inside Job. Questo è proprio un film. Anzi, sembra quasi una pièce teatrale.

A: unità di tempo, luogo ed azione, secondo il canone. Tutto si svolge in 24 ore nella sede di una grande società finanziaria dai vetri dei piani alti della quale si domina lo skyline di Manhattan. Il giorno più lungo di una non nominata Lehman Brothers.

B: non si tratta della Lehman ma sicuramente quanto è successo quel 15 settembre ha influenzato certamente l’oscuro regista che si è anche scritto la sceneggiatura. Una vera sorpresa.

A: il credit crunch dall’interno, dagli uffici high tech, dai consigli di amministrazione convocati d’urgenza, colletti bianchi con le cravatte allentate.

B: l’inizio è sconvolgente. Dialoghi ai minimi termini, gesti e sguardi eloquenti. Con professionalità chirurgica si licenziano interi settori operativi. I dipendenti riempiono gli scatoloni e lasciano il posto di lavoro.

A: le prime sequenze hanno colpito anche me. Penso però che i caratteri siano un po’ schematici e si capisce subito quale sarà il ruolo del geniale mago dei numeri. Però la scelta del regista di procedere per sottrazione l’ho trovata molto intelligente. J. C. Chandor si mantiene sul filo della storia, senza concedersi nessuno scostamento. Come diceva il grande Carver della propria scrittura: ”io non taglio fino all’osso, taglio fino al midollo”. E qui tutto ciò che non ha a che fare con l’unità drammatica rimane fuori.

B: con una eccezione, l’apertura finale sul privato di Sam, ma è un attimo. Sì, hai ragione. Il film taglia via ogni accenno alle vite private, ai rapporti interpersonali. C’è solo l’analisi spietata dell’evento.

A: in realtà i rapporti tra i vari personaggi reggono il film però sono quasi deumanizzati. I personaggi sono funzioni , tra l’altro distribuite secondo livelli gerarchici ben definiti.

B: definiti ma precari, mobili. Come ogni gerarchia si può anche salire, come si può scendere.

A: sì, ma sempre in relazione all’azienda. In questo senso parlavo di deumanizzazione.

B: ma questa è la forza del film. E anche la sua presa di posizione contro il sistema. Margin Call è uno straordinario film di denuncia che lascia la bocca amara, molto amata.

A:  mi viene in mente un breve testo teatrale di Dürrenmatt, La caduta. Tutto un altro contesto, anzi, opposto, ma il ‘midollo’ posto alla luce del sole è lo stesso.

B: eccellente il cast. A me è piaciuto molto Stanley Tucci e il suo personaggio presente/assente, anche questo ben noto espediente narratologico.

A: bravo Tucci e bravo Kevin Spacey, gli altri piuttosto piatti, con un Jeremy Irons al minimo sindacale. Comunque un film che mi è piaciuto, con qualche riserva. Regista da tenere d’occhio.

B: a me è proprio piaciuto. Se penso ad un altro film ‘aziendale’ tutto interni, Il grande capo, dell’insopportabile – e inguardabile – Von Trier, non ho il minimo dubbio a definire Margin Call un gran bel film.

A: si tratta di due film profondamente diversi, e già che ci siamo, citiamo l’ottima serie TV The Office. Però su Von Trier siamo d’accordo.


domenica 6 novembre 2011

GAETANO CARLO CHELLI / MAURO BOLOGNINI

L'EREDITA' FERRAMONTI
1884 / 1976




Gaetano Carlo Chelli, pubblicista nato a Massa nel 1847, dopo aver agitato la sonnolenta vita culturale apuana, nel 1874 si trasferisce a Roma dove frequenta i circoli della Destra storica e diventa amico dell’editore Angelo Sommaruga.

Liberale, anticlericale e antisocialista, nella Roma umbertina conduce vita disinvolta tra politici, giornalisti, letterati. La realtà ricca di fermento della novella capitale d’Italia ispira a Chelli una serie di racconti e romanzi, tra i quali spicca L’eredità Ferramonti, pubblicata nel 1884.

Chissà se Luchino Visconti conosceva il romanzo. Forse lo avrebbe trovato letterariamente troppo modesto da stimolare i suoi interessi come invece è accaduto a Mauro Bolognini da cui  ha tratto un film che ha come impronta proprio quella di Visconti.

Un padre di fronte ai suoi tre figli affronta rudemente la questione della spartizione del patrimonio. La ‘roba’ è all’origine di un odio reciproco che porta alla divisione rancorosa dalla famiglia, al tutti contro tutti. La sorella avida e mediocre, il parassita bon vivant, l’inetto, i figli. Burbero e autoritario il padre. In questo gruppo di famiglia in un interno entra in scena Irene, la sposa dell’inetto e i frantumi familiari si ricompongono per poter di nuovo deflagrare.

I personaggi si muovono in interni ricostruiti con esattezza filologica, dove specchi moltiplicano i punti di vista, sullo sfondo della Roma in trasformazione di fine Ottocento. Il paesone campagnolo sta diventando il centro politico dell’Italia unita tra appalti, ministeri e mediocri politici cisalpini, speculazioni.

Il tipo di narrazione rimanda al testo e si inserisce nel milieu culturale positivista: l’interesse si concentra sullo studio di un carattere, quello di Irene, che senza alcuno scrupolo mette in atto la propria strategia esistenziale. Nel contempo vengono registrate le reazioni che il carattere principale scatena negli altri elementi della storia, senza mai dimenticare il più ampio contesto storico-sociale.

Bolognini riesce a tenere in mano i vari fili dell’ordito con efficacia anche grazie all’insieme della troupe che dà il giusto contributo in ogni aspetto. Eccellenti i costumi, le scenografie, gli arredi. Non convenzionale e riuscita la fotografia che fa di Roma una città intrisa di umidità, dominata dagli smorzati colori fangosi a contrasto con i toni carichi degli interni. Particolarmente adeguata la scelta dei sei attori principali, tra i quali risplende una bellissima Dominique Sanda, che il regista riprende avendo come riferimento la pittura del periodo.

lunedì 31 ottobre 2011

EMIL CIORAN / GIANFRANCO RAVASI

IL DEMIURGO CATTIVO - 1969 /
LECTIO MAGISTRALIS 11 OTTOBRE 2011



L’amico Gianpaolo  mi ha suggerito di leggere un articolo sull’Osservatore Romano di Monsignor Gianfranco Ravasi.

Il cardinale, in occasione del conferimento di una laurea honoris causa da parte dell’Università di Bucarest, intrattiene l’uditorio con una lectio magistralis che omaggia due grandi intellettuali rumeni del Novecento. La scelta del cardinale è sorprendente.

Le chiare e competenti riflessioni non hanno per oggetto figure quali Mircea Eliade o Petre Tutea, come ci si sarebbe potuti aspettare ma Emil Cioran e Eugène Ionesco e basterebbe questa scelta a dar immediata prova dell’acume intellettuale del cardinale.

L’intervento è piacevole e stimolante, tanto che sarà opportuno leggere i citati testi di Ionesco (Note e contronote, Diario in briciole, La lezione). Oltre ad aver ispirato interessanti percorsi di approfondimento altro merito dell’articolo è quello di poter tornare su un autore di culto come Cioran, riavvicinato, dopo molti anni, proprio un paio di mesi fa.

Alla luce della recente lettura de Il demiurgo cattivo, la scelta di Ravasi è particolarmente apprezzabile perché il suo giudizio sull’opera dell’esule rumeno è quello di un ammirato ed attento lettore. E questo nonostante la feroce critica nei confronti del cristianesimo. Partendo dal Nietzsche della Gaia Scienza, in questa collezione di saggi brevi Cioran afferma che “la creazione è una colpa, voluta da un dio infelice e cattivo, un dio maledetto, essa è l’opera di un dio senza scrupoli, un dio tarato ”. In un altro passo Cioran critica anche gli atei, i quali “ricorrendo all’invettiva dimostrano di prendere di mira qualcuno. La loro emancipazione è meno completa di quel che pensano: si fanno di dio esattamente la stessa idea di chi ci crede ”. Con le sue apparenti invettive contro dio Cioran sembra porsi tra le schiere degli atei ma esse non sono tali perché il fine della sua critica, che più che critica è una desolata constatazione, è l’esistenza umana. È la disperazione di un pensatore che cerca qualcuno a cui attribuire la colpa della propria afflizione esistenziale.

Proprio su questo ‘non ateismo’ Ravasi sofferma la lente attraverso la quale interpretare la figura del grande rumeno, giungendo all’acuto giudizio: “Cioran è, quindi, un ateo-credente sui generis. Il suo pessimismo, anzi, il suo negazionismo riguarda piuttosto l'umanità. L'uomo ti fa perdere ogni fede, è una sorta di dimostrazione della non esistenza di Dio ed è in questa luce che si spiega il pessimismo radicale di Cioran. E qualche volta è difficile dargli torto, guardando non solo la storia dell'umanità, ma anche il vuoto di tanti individui che non ha niente del tragico Nulla trascendente ”. Non c’è che dire, veramente sorprendente il cardinale.

domenica 23 ottobre 2011

VASILIJ GROSSMAN

VITA E DESTINO - parte 2

La prima edizione italiana, 1984


Il luogo principale dell’azione narrativa è Stalingrado sotto l’assedio dei nazisti. Il tempo è l’autunno del 1942. I protagonisti sono i componenti di una famiglia russa. Il narratore segue dall’alto e dall’interno le decine di personaggi, tra principali e corollari e si concede prolessi e analessi, per cui il tempo si dilata al periodo pre-bellico, in particolare alla ‘collettivizzazione’ del 1937, fino ad alcuni riferimenti al dopoguerra. Anche il campo geografico dell’azione si amplia e dal Volga arriva al Caspio, agli Urali, a Mosca, con qualche puntata fino a certi luoghi della Germania hitleriana. Gli ambienti sono i più diversi. C’è il lager tedesco, quello sovietico, il laboratorio di fisica e la centrale elettrica, le postazioni militari, la Lubjanka, la città assediata. E ci sono i commenti, le considerazioni, i pensieri riportati in prima persona dai vari personaggi ma anche dallo stesso narratore.

Grossman rimane all’interno della grande tradizione realista russa ed ha come riferimento Guerra e Pace. Due infatti sono i temi strutturali del romanzo, come lo erano nell’opera tolstoiana. La vita e la Storia. Per tutte le quasi novecento pagine è la vita articolata nelle sue magmatiche sfaccettature che si presenta davanti al lettore. Vita che si oggettivizza nella prassi quotidiana o prende forma di rielaborazione del vissuto che consente la formulazione di verità. I personaggi o l’autore grazie all’esperienza giungono alla conoscenza e il lettore viene reso partecipe di questo dipanarsi dei destini e delle consapevolezze come se assistesse in sala operatoria ad una operazione. Ma non è la freddezza del chirurgo a segnare il tratto distintivo del romanzo quanto la passione dello scienziato che sta sviluppando la teoria che inseguiva da anni. E materia di questa teoria è l’altro tema fondamentale, la Storia. E se in Guerra e pace la riflessione si focalizzava sul periodo napoleonico, in Vita e destino il nodo problematico non può che essere il Comunismo.

E così le singole vite dei vari Štrum, Krymov, Mostovskoj, Ženia si intrecciano alle vicende storiche e rendono possibile una tremenda conclusione: le idee di Lenin che avevano portato alla grande rivoluzione del 1917 si sono trasformate nello Stalinismo e il Comunismo sovietico si è sovrapposto, fino alla coincidenza, con il Nazismo. Questa è la verità che i vari personaggi, tutti profondamente comunisti giungono a percepire ma che da veri proletari leninisti non vogliono accettare.

La coincidenza tra l’URSS di Stalin e la Germania nazista è invece teorizzata senza la minima angoscia dal rappresentante delle SS Liss, direttore del Lager tedesco, dove si svolge una delle tante scene strepitose del romanzo, l’interrogatorio tra Liss e l’eroe bolscevico Mostovskoj.

Tra i numerosi momenti di grande letteratura che questo romanzo ci offre, uno particolarmente significativo è l’ultima lettera prima dell’esecuzione che l’ebrea Anna Semenova immagina di scrivere al figlio, il fisico Štrum. Pagine che andrebbero lette a scuola.
L'edizione Adelphi del 2008


giovedì 20 ottobre 2011

VASILIJ GROSSMAN

VITA E DESTINO - parte 1
VASILIJ GROSSMAN - 1960

Alexander Deineka, L'assedio di Sebastopoli, 1942


Un mese, c’è voluto quasi un mese per leggere Vita e destino. La vita è libertà dice Grossman, in questo caso la vita diventa letteratura e, seguendo il sillogismo, si potrebbe concludere che la letteratura è libertà.

Leggere questo romanzo è stato un ritorno al passato, ad analoghe imprese di lettura giovanili: Guerra e pace, Delitto e castigo, Oblomov, Zivago. Come questi capolavori Vita e destino si impone sin dalle prime pagine come ‘classico’, nel segno della grande tradizione realista russa. Si tratta infatti di un libro profondamente russo, anzi, esso rappresenta il romanzo-testimonianza di un’epoca. Per conoscere e comprendere a fondo il periodo staliniano basta seguire le vicende e i pensieri di uno qualunque dei personaggi di questa immensa ‘fabrica’ narrativa. Il comunista Grossman ha costruito un’opera comunista in cui vengono narrate, con tecnica da soap televisiva ripresa da Tolstoj, le vite di ‘eroi’ comunisti.

All’inizio risulta complicato orientarsi tra le molte locations, tra i numerosi personaggi: come la vita, il romanzo di Grossman è vario e affollato. Ma bastano poche pagine per rendersi conto che siamo di fronte ad un capolavoro, ad una costruzione tentacolare che stringe a sé, avvince e non permette di staccarsene. Ecco che la letteratura diventa vita, ecco che il lettore accompagna i destini di questi uomini e donne, individui che emergono progressivamente dalle masse e assumono distinte e complesse personalità.

Nel romanzo non ci sono solo le storie dei singoli nello scenario della Grande Storia. Inevitabilmente nella narrazione si rispecchia la biografia dell’autore. E come per il varie volte citato poeta Mandel’stam, vittima e successivamente mito delle epurazioni staliniane, anche Vita e destino diventa vittima e mito delle epurazioni degli anni ’60. Proprio perché la letteratura è libertà, il romanzo di Grossman doveva essere distrutto, non doveva restarne alcuna traccia.

Per nostra fortuna, amici dello scrittore hanno rischiato la vita per salvare il manoscritto. I microfilm, molti anni dopo la morte dello scrittore, sono passati attraverso la cortina di ferro e negli anni ’80 il romanzo è stato pubblicato in Occidente.

Il comunista Grossman, scrittore ufficiale al seguito dell’Armata Rossa, pur sconfitto in vita, con il suo romanzo ha contribuito a distruggere il socialismo reale, una delle più assurde e tragiche esperienze della Storia dell’Uomo.
Alexander Deineka, Futuri piloti, 1939

Alexander Deineka, Espansione urbana a Mosca, 1949




giovedì 13 ottobre 2011

JAMES BLAKE

JAMES BLAKE - 2011




Con l’omonimo album d’esordio di James Blake siamo al post dubstep!

Il ragazzo aveva inciso qualche EP che Pitchfork, la webzine di riferimento per la ‘best new music’, aveva inserito tra le migliori uscite dell’ anno scorso. Francamente eccessivo il giudizio dei sommi critici americani, i brani del giovane inglese lasciavano sì trapelare qualche buona idea sommersa però da un insistito tessuto sonoro tutto sommato monotono e poco originale.

Ma ecco che all’inizio del 2011 esce il primo album e il talento supposto trova modo di dispiegarsi in tempi più lunghi e meditati e il risultato è un album sorprendentemente maturo e convincente.

Si diceva che siamo al superamento del dubstep, che resta come impostazione di fondo ma qui la ricerca da un lato sfronda la ripetitività delle prime prove, dall’altro va in profondità verso una musica che crea volume, tridimensionalità.

Quest’opera prima può essere definita di ingegneria sonora. I brani hanno una struttura semplice e ben definita che lascia molti spazi vuoti che acquistano consistenza grazie ai suoni, i quali si oggettivano proprio in virtù del loro contrasto con gli attimi di silenzio, con le pause, le dilatazioni. Le tracce di James Blake sono moduli architettonici, cubi che si riempiono di suoni e silenzi, pieni e vuoti. L’album si costruisce come edificio. In questa architettura la voce di James si declina in varie sfumature, con o senza l’aiuto dell’elettronica e del vocorder, voce che è il tratto distintivo del disco. Accanto ad essa si avvicendano i vari strumenti, nel segno della variazione e procedendo quasi per sottrazione in modo da caratterizzare ogni traccia.

Un solido frame work su cui si dispiegano minimalisti contrappunti melodici. Questa volta l’accordo con Pitchfork è pieno: quella di James Blake è ‘best new music’.

Stesse idee chiare negli ottimi video!



p.s. questo disco e bon iver sono i dischi che ho maggiormente ascoltato quest’estate. ho saputo con sorpresa che james blake e justin vernon hanno realizzato un brano in collaborazione per la bbc, mandato in onda il 24 agosto. collaborazione, per me che apprezzo i due musicisti, molto gradita. Sembra proprio che le cose non avvengano mai per caso. cercherò di saperne di più e magari di riuscire a sentire qualcosa. certo, un disco in coppia sarebbe molto interessante. aspettiamo, chissà.

martedì 11 ottobre 2011

GUIDO MORSELLI

DIVERTIMENTO 1889
GUIDO MORSELLI - 1975



Il libro è un oggetto che non si dematerializzerà. Ciò significa che l’ ebook si diffonderà ma non potrà sostituire il testo fatto di carta e inchiostro. Anche perché un libro non è solo ciò che vi si legge ‘dentro’ ma qualcosa che ha un peso, occupa uno spazio, ha consistenza fisica e toccarlo, sfogliarlo, tenerlo tra le mani e guardarlo sono tutti gesti che hanno potere evocativo ed estendono il suo contenuto letterario.

Per certi libri questo valore aggiunto è particolarmente significativo. È il caso di Divertimento 1889. Intanto è un romanzo di Guido Morselli, autore amato oltre che per la sue ineccepibili capacità di narratore anche per l’aura che emana la sua vicenda biografica. Morselli è uno dei rari beautiful losers della letteratura italiana. Morto suicida dopo il solito rifiuto di pubblicazione, i suoi romanzi sono stati pubblicati solo dopo la sua morte. Ma il libro, inteso come oggetto, ha per me un altro valore. Era nella libreria fin dalla sua uscita, nel 1975, con la riproduzione da ‘signorina Felicita’ sulla copertina azzurrina. Il libro mi ha seguito nei vari andirivieni abitativi fino alla sua scomparsa. Niente, perse le sue tracce da una ventina d’anni. Ultimamente mi è tornato in mente e l’ho ricomprato, la veste grafica è cambiata, però il piacere di esserne tornato in possesso è stato grande, anche se resta il rimpianto per quella prima edizione. Ma libro-oggetto a parte, le pagine contengono una storia…

Il romanzo ricrea l’atmosfera di fine Ottocento, l’ambiente socio-politico e culturale utilizzando gli stilemi e la struttura dell’operetta galante. Tradimenti, equivoci, travestimenti, colpi di scena. I personaggi sono il re Umberto I e il suo entourage burocratico-cortigianesco, fatto di caratteri che rappresentano l’Italia unita (un toscano, un bolognese, un piemontese, un calabrese, la veneta) con i tipici addentellati morselliani mitteleuropei. La vicenda si svolge infatti in Svizzera tra le amenità del tourisme nascente. Le trovate dell’intreccio si susseguono a ritmo incalzante con intelligenti risvolti psicologici e di erotismo mai troppo sottolineati. Morselli non solo ha un gusto sopraffino ma mantiene anche piena padronanza della materia che tratta e soprattutto ha straordinarie capacità nell’uso della lingua. La lingua in questo Divertimento è duttile, si adegua perfettamente alle situazioni e ai personaggi con mimetismo mai pedante. Tutto resta lieve e gli inserimenti in tedesco, in francese o nei vari dialetti italici non sono mai caricati ma vengono utilizzati come svolazzi connotanti. Niente da dire, Divertimento 1889 è un gran bel divertimento ed un’ulteriore prova del supremo talento incompreso di Guido Morselli.


mercoledì 5 ottobre 2011

DAVID CRONENBERG / FRIGIDAIRE

CRASH / RANXEROX
1996 / 1982




James Ballard è scrittore visionario e senz’altro la sua iniziale produzione di fantascienza può considerarsi ‘classica’, con capolavori come il celebrato Vento dal nulla, letto in un’ormai introvabile edizione Urania, o il bellissimo Now: Zero. Successivamente l’interesse dello scrittore inglese si è spostato verso l’indagine dell’inconscio con risultati letterari non all’altezza del suo primo periodo. Comunque Crash, per la tematica trattata, costituisce un momento significativo nella bibliografia di Ballard e, considerato per l’appunto il tema, quasi inevitabile l’incontro con David Cronenberg, l’autore, tra l’altro, di Fast Company.
Il film spiazza e lascia interdetti. Nel mettere le mani in una materia come il sesso e le macchine, Cronenberg sceglie il distacco freddo ed esteticamente questa può essere una scelta condivisibile. I  cinque caratteri del film finiscono per sperimentare quasi tutte le possibilità di accoppiamento tra di loro come un pilota alle prese con il collaudo del parco macchine dell’officina, coerentemente con lo spirito del film. Solo che dopo un’apertura magistrale, il risultato risulta ripetitivo, senza un vero e proprio sbocco narrativo. Gli accoppiamenti e gli incidenti finiscono per avvolgersi su loro stessi annoiando. Per trasmettere il ‘senso’ della storia più che sufficiente la  prima scena, con il seno sul lucido metallo e un anulingus filmato con una fotografia da sala operatoria.
Buona la trovata dello show che ripropone incidenti famosi, ma il resto è accademia stanca. Un esempio per tutti: il rapporto tra Spander/Ballard e Arquette/Gabrielle in auto, le protesi che si incastrano tra sedile e volante, il primissimo piano delle cicatrici rientra in pieno nel contesto visivo/visuale postmodernista che nel 1996 era ormai archiviato da tempo, se già appariva datato in Wild at Heart di Lynch del 1990.
Ho visto Crash solo ora (ai tempi dell’uscita avevo sentore di rancido), stimolato dal bellissimo Drive, e devo dire, nonostante sia un estimatore di Cronenberg, che il film di Refn è decisamente superiore anche se si tratta di due prodotti decisamente diversi.
Per restare in tema postmoderno, la visione di Crash non ha potuto non farmi tornare alla mente un vero capolavoro di quella stagione. Era il 1982 e rimasi sconvolto dalle immagini che ripropongo, altro che Crash. Tamburini e Liberatore anticipano Cronenberg di tre lustri! (e magari alle immagini assocerei come colonna sonora i Throbbing Gristle).