cinema

lunedì 30 giugno 2014

STATO ISLAMICO DELL'IRAQ E DEL LEVANTE

CALIFFATO DI DĀ’ISH - GIUGNO 2014

Milizie dell'ISIS dalla Siria verso l'Iraq, gennaio 2014 - foto AP/dpa bild.de


È stato proclamato il Califfato  dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis, in arabo Dāʻish). Da mesi la frontiera tra Iraq e Siria era di fatto inesistente. Da mesi i gruppi sunniti in lotta con Assad acquartierati nella città siriana di ar-Raqqah  operavano insieme ai qaedisti iracheni. Ad inizio 2014 insieme hanno dato vita alla reconquista dell’Iraq, culminata con l’espugnazione di Mossul. I kurdi confinati a nord nel territorio di Kirkuk, gli sciiti arroccati sulla linea di Baghdad, gli islamisti hanno avuto vita facile. 
Sul loro cammino hanno razziato e sparso sangue con furore medievale, intanto continuavano ad arrivare finanziamenti dal Golfo in funzione anti Teheran.  Obama ha riallacciato i rapporti con gli Ayatollah ed ha ufficialmente inviato qualche centinaia di Advisors assieme al segretario di Stato John Kerry. Tony Blair ha fatto discutere con una presa di posizione coraggiosa che rivendicava l’opportunità della guerra contro Saddam e l’inopportunità della politiche di Obama in Iraq. La totale assenza dell’Occidente ha portato ad un nuovo disastro e questa volta le conseguenze sono effettive. Proviamo a schematizzare:

per la prima volta da quando nel 1967 Israele ha ridefinito i confini del proprio stato, sono saltate le frontiere tra due stati sovrani stabilite dalla comunità internazionale;

il jihadismo sovranazionale ha una base territoriale ampia e pienamente controllata;

il territorio  del Califfato è ricco di enormi riserve di idrocarburi e controlla le rotte del petrolio via terra che vanno dal Golfo al Mediterraneo e alla Turchia;

il Califfato si presenta come un detonatore pronto ad innescare reazioni a catena in Libano, Giordania, Palestina;

migliaia di jihadisti da tutto il mondo sunnita stanno accorrendo verso il Califfato per sostenere la causa islamista e ciò creerà una nuova fratellanza nel nome del terrore come già accaduto nell’Afghanistan ‘sovietico’;

l’Isis ha allargato la frattura interislamica.

Questo per restare entro i limiti del perimetro geopolitico della questione, aggiungendo soltanto che esiste anche l’angoscioso fatto delle migliaia di morti e dei milioni di profughi.

Nella sua analisi Blair faceva notare come nei confronti del Medio Oriente l’Occidente non abbia avuto una linea chiara e univoca:

Iraq: abbattimento del regime con invio si truppe sul suolo e tentativo di ricostruzione politico-istituzionale del paese (con prematuro ritiro della presenza di truppe americane e appoggio di un governo settario come quello di al-Maliki).

Libia: abbattimento del regime senza la presenza di eserciti stranieri nel paese e nessun tentativo di regime-change ( il risultato è stata l’instabilità politica interna e l’esportazione dell’instabilità oltre confine, vedi Mali).

Siria: nessuna azione da parte dell’Occidente, guerra civile permanente e nascita dell’Isis con tutte le conseguenze citate.


Non c’è da stare tranquilli.

Carta da The Economist, giugno 2014

lunedì 23 giugno 2014

HOUSE OF CARDS

GLI INTRIGHI DEL POTERE - 2013


“Ci sono due tipi di dolore, quello che ti rende forte e il dolore inutile, ovvero quello che è solo sofferenza. Io non ho pazienza per le cose inutili. Momenti simili richiedono qualcuno che agisca, che faccia il lavoro spiacevole, la cosa necessaria. Ecco, niente più dolore”. Su un marciapiede di un quartiere residenziale di Washington D. C., il Congressman Francis Underwood ha appena ucciso il cane dei vicini con le proprie mani. Il cane era appena stato investito da un’auto e l’attore Kevin Spacey pronuncia queste parole rivolgendosi allo spettatore. Questo è l’ormai celeberrimo inizio della serie TV House of Cards, trasmessa in Italia da Sky Atlantic con il sottotitolo poco efficace Gli intrighi del potere.

La serie ha riscosso un ottimo successo negli USA ma sta ottenendo ancora più successo all’estero. Cercare di mettere a nudo il cinismo e la doppiezza degli uomini del potere è un tema che, specie dopo lo scandalo Watergate, è diventato un sottogenere cinematografico e televisivo. Memorabile Wag The Dog di Berry Levinson con le star De Niro-Hoffman, dove la materia della manipolazione scientifica della realtà a fini politici veniva svolta in chiave ironica. In House of Cards gli autori si mantengono sul dramma a tinte fosche sia a livello di racconto che di uso della fotografia. Le diverse tracce di racconto sono noir e anche i risvolti di sesso assumono una connotazione di cupa disperazione. Gli esterni sono spesso nuvolosi e la tonalità prevalente è quella di un grigio seppiato. A parte la sala ovale con i suoi bianchi laccati, gli interni sono dominati dalle tinte smorzate. In particolare, il lussuoso appartamento di Underwood e consorte, dove il legno di infissi e mobilio assorbe, smorzandola, ogni fonte di luce.

La serie è scritta benissimo, ha due protagonisti, la coppia Underwood, e pochi personaggi corollari. La struttura è quindi compatta e le vie di fuga narrative, tipiche delle serie tv, sono limitate e tutte riconducibili al filone principale che è la conquista del potere. Negli episodi non ci sono storie secondarie, mini plot e divagazioni verso personaggi marginali ma tutto è funzionale ai coniugi Underwood il cui rapporto è la vera forza della serie. Ovviamente il centro della scena è occupato da Kevin Spacey, ma episodio dopo episodio è la moglie, Claire Underwood, interpretata dall’ottima Robin Wright, che riesce a porsi allo stesso livello del marito. Anzi, è proprio la strana natura della loro relazione di coppia l’elemento più riuscito della serie.

Altro punto di forza, anche se meno originale e di più facile presa, è il dialogo che si crea tra Underwood e lo spettatore. Nel bel mezzo di una scena il protagonista si estranea e si rivolge a chi sta guardando. Questo espediente risulta particolarmente riuscito nel momento in cui Francis sta giurando in qualità di Vicepresidente degli Stati Uniti:  “Giuro di assumere questo incarico liberamente, senza alcuna riserva mentale o qualsiasi scopo non legale” a questo punto la dichiarazione viene sospesa, Francis ci guarda e afferma “Ad un passo dalla Presidenza, senza che nemmeno un elettore abbia messo la croce sul mio nome. La democrazia è veramente sopravvalutata”. Segue il resto del giuramento.


Come ogni serie che si rispetti, c’è il rischio dipendenza.

giovedì 12 giugno 2014

ANDREI ZVYAGINTSEV

IL RITORNO - 2003


Una narrazione inevitabilmente circoscrive uno spazio di tempo limitato. C’è un tempo anteriore ai fatti narrati e ci sarà un tempo futuro. Andrei Zvyagintsev racconta qualche giorno di una 'memorabile' vacanza estiva di due fratelli adolescenti, Ivan e Andrei e noi restiamo attoniti per la sicurezza espressiva di un regista esordiente che ha sì alle spalle maestri come Eisenstein, Tarkovski e Sokurov ma che senza esitazioni, fin dalle prime immagini, si impone come Autore.

C’è quindi una storia che occupa qualche giorno ed è narrata con rigore, secondo una scansione che comprende un prologo, lo svolgimento e un finale a cui segue una breve appendice extrafilmica, per uno schema a – B – c (d). Il prologo si apre con lo stesso motivo del ‘drowning by water’ con cui si chiude il finale ad incorniciare il segmento centrale, un viaggio (quest) per terra e per acqua che oscilla tra bildungsroman, giallo di suspense, dramma psicologico.

Ma il valore aggiunto, che fa de Il ritorno un capolavoro, è che il regista riesce a non esaurire la sua opera nei limiti imposti dalla durata filmica (tempo di 105 minuti) e dal supporto su cui viene proiettato (fotogramma/schermo) ma supera questa bidimensionalità per aprire spazi “prima” e “dopo” di fronte ai quali lo spettatore viene lasciato senza guida. Il regista ha, in tal senso,  costruito Il ritorno con un inizio e una fine chiari, certi. Tra inizio e fine tutto è credibile, profondo, emotivamente coinvolgente e sorprendente. Giunti  al fondo nero su cui appaiono i titoli di coda la storia è indubbiamente finita ma subito si aprono i vuoti: quello della storia che precede l’inizio e quello della storia che segue la fine. Ormai siamo catturati entro lo spazio narrativo raccontato e ci assalgono l’horror vacui e il senso di vertigine di fronte a queste storie non scritte. Siamo come Ivan sulla torre, sconvolto dal vuoto sotto di sé.


È una sensazione di angoscia sia per la mancanza di risposte circa il passato che per i dubbi su cosa riserverà il destino ai protagonisti dopo l’esperienza vissuta. Noi siamo entrati nel racconto e fatalmente il racconto è entrato in noi.