cinema

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martedì 7 ottobre 2014

TRUE DETECTIVE

SERIE TV HBO - 2013




Louisiana, area del Delta. Atmosfera appiccicosa, sudaticcia. C’è un omicidio, probabilmente un serial killer, ci sono due detective dai caratteri opposti. C’è un’indagine federale sugli stessi detective e qui la vicenda si complica. Proprio come il corso del Mississippi in prossimità della foce, anche la storia segue rivoli diversi, meandri apparentemente morti. Il ritmo rallenta, il tempo, inteso come durata, si dilata. Il racconto entra nelle menti dei caratteri, si fa introspettivo. E ci sono i paesaggi del profondo Sud, intrisi di spiritualità fervente, di miseria e di squallore. E c’è il commento musicale, country-blues, naturalmente. 

True Detective è un labirinto, i sentieri si biforcano, tornano al punto di partenza, tracciano depistaggi circolari, catturano e innervosiscono perché il meccanismo pare che si inceppi, che lo svelamento non avvenga. E proprio quando la verità sembra vicinissima si è di nuovo riportati indietro di molte caselle.  

Guardando i primi episodi della serie TV che ha come slogan la frase “touch darkness and darkness touches you back”, già culto negli USA, ho pensato a Twin Peaks ma poi, riflettendo mi sono accorto che l’ovvio accostamento era solo di superficie. True Detective è molto più profondo e inquietante. 

Se l’omicidio che apre la serie è sì terribile ma dopo CSI potremmo definirlo standard, è l’ordinarietà dei contesti umani che disturba: la famiglia del detective ‘senior’ Marty, l’ambiente di lavoro, dei colleghi al distretto, i quartieri popolari fatti di case prefabbricate e roulotte, i bar e le stazioni di servizio, i complessi industriali in mezzo agli acquitrini. Tutto questo viene rappresentato senza il minimo intento di fare sociologia, è solo un pezzo di “vera” America mai visto in una serie TV. 

E allora non è Lynch il riferimento giusto. Bisogna cercare in altro territorio, quello della letteratura: McCarthy, Lansdale e Ellroy, eccoli i punti di contatto. 

lunedì 23 giugno 2014

HOUSE OF CARDS

GLI INTRIGHI DEL POTERE - 2013


“Ci sono due tipi di dolore, quello che ti rende forte e il dolore inutile, ovvero quello che è solo sofferenza. Io non ho pazienza per le cose inutili. Momenti simili richiedono qualcuno che agisca, che faccia il lavoro spiacevole, la cosa necessaria. Ecco, niente più dolore”. Su un marciapiede di un quartiere residenziale di Washington D. C., il Congressman Francis Underwood ha appena ucciso il cane dei vicini con le proprie mani. Il cane era appena stato investito da un’auto e l’attore Kevin Spacey pronuncia queste parole rivolgendosi allo spettatore. Questo è l’ormai celeberrimo inizio della serie TV House of Cards, trasmessa in Italia da Sky Atlantic con il sottotitolo poco efficace Gli intrighi del potere.

La serie ha riscosso un ottimo successo negli USA ma sta ottenendo ancora più successo all’estero. Cercare di mettere a nudo il cinismo e la doppiezza degli uomini del potere è un tema che, specie dopo lo scandalo Watergate, è diventato un sottogenere cinematografico e televisivo. Memorabile Wag The Dog di Berry Levinson con le star De Niro-Hoffman, dove la materia della manipolazione scientifica della realtà a fini politici veniva svolta in chiave ironica. In House of Cards gli autori si mantengono sul dramma a tinte fosche sia a livello di racconto che di uso della fotografia. Le diverse tracce di racconto sono noir e anche i risvolti di sesso assumono una connotazione di cupa disperazione. Gli esterni sono spesso nuvolosi e la tonalità prevalente è quella di un grigio seppiato. A parte la sala ovale con i suoi bianchi laccati, gli interni sono dominati dalle tinte smorzate. In particolare, il lussuoso appartamento di Underwood e consorte, dove il legno di infissi e mobilio assorbe, smorzandola, ogni fonte di luce.

La serie è scritta benissimo, ha due protagonisti, la coppia Underwood, e pochi personaggi corollari. La struttura è quindi compatta e le vie di fuga narrative, tipiche delle serie tv, sono limitate e tutte riconducibili al filone principale che è la conquista del potere. Negli episodi non ci sono storie secondarie, mini plot e divagazioni verso personaggi marginali ma tutto è funzionale ai coniugi Underwood il cui rapporto è la vera forza della serie. Ovviamente il centro della scena è occupato da Kevin Spacey, ma episodio dopo episodio è la moglie, Claire Underwood, interpretata dall’ottima Robin Wright, che riesce a porsi allo stesso livello del marito. Anzi, è proprio la strana natura della loro relazione di coppia l’elemento più riuscito della serie.

Altro punto di forza, anche se meno originale e di più facile presa, è il dialogo che si crea tra Underwood e lo spettatore. Nel bel mezzo di una scena il protagonista si estranea e si rivolge a chi sta guardando. Questo espediente risulta particolarmente riuscito nel momento in cui Francis sta giurando in qualità di Vicepresidente degli Stati Uniti:  “Giuro di assumere questo incarico liberamente, senza alcuna riserva mentale o qualsiasi scopo non legale” a questo punto la dichiarazione viene sospesa, Francis ci guarda e afferma “Ad un passo dalla Presidenza, senza che nemmeno un elettore abbia messo la croce sul mio nome. La democrazia è veramente sopravvalutata”. Segue il resto del giuramento.


Come ogni serie che si rispetti, c’è il rischio dipendenza.

martedì 20 dicembre 2011

ENZO JANNACCI / FABIO FAZIO

SPECIALE CHE TEMPO CHE FA
VENGO ANCH'IO - 19 DICEMBRE 2011




Grande serata di tv quella di lunedì 19 dicembre. Lo spettacolo allestito da Fabio Fazio è il vero evento televisivo dell’anno. Per molti motivi. Intanto si è trattato di uno spettacolo che ha saputo coniugare divertimento e commozione e toccare le giuste corde di questi due sentimenti è alquanto difficile. Fazio ci è riuscito grazie al supporto di professionisti in libertà, quindi, anche se legati a tempi di scena ben definiti,  svincolati dai tipici ruoli delle apparizioni televisive. Grande l’abilità di Fazio nel far sentire “a casa” i convenuti che comunicavano l’impressione di partecipare a una festa di famiglia.

Ma il merito principale della riuscita della trasmissione sta nella grandezza del festeggiato, lo straordinario Enzo Jannacci. Molto invecchiato rispetto a quell’ultima apparizione tv che io ricordi, sempre da Fazio qualche anno fa, la quale resterà nella memoria come un momento di surreale, estraniante, godibilissimo ‘non sense’ televisivo carico di senso.

Invecchiato ma con la solita voce, alta e schietta, e una sempre divertita ironia nello sguardo vivissimo. Molti i momenti riusciti, praticamente quasi tutti: Paolo Rossi con Me lo dicevi prima, Irene Grandi con Ci vuole orecchio, Albanese e Vengo anch’io, Teocoli - Il dritto, il sempre giullaresco Dario Fo, J-Ax con una versione punk della straordinaria Veronica, l’irresistibile Massimo Boldi, la divertita Ornella Vanoni.

Orchestra diretta da un simpatico, appassionato, commosso, Paolino Jannacci. Infine la chiusura riservata ad Enzo, al suo barbun e a Quelli che…corale. Si va a letto felici.


domenica 11 dicembre 2011

CHECCO ZALONE

RESTO UMILE WORLD TOUR
APOLOGIA DI CHECCO



Luca Medici è bravo, molto bravo. Oltre ad essere naturalmente simpatico ha anche notevole intelligenza dell’animo umano. Luca Medici è appassionatamente curioso e fino ad ora può sinceramente affermare di essere rimasto umile. L’umiltà di Luca emerge nelle interviste, accompagnata da una certa timidezza “giapponese” che lo porta quasi a scusarsi delle malefatte di Checco. È infatti la schizofrenia il tratto che si impone con forza di fronte alla strana coppia Luca/Checco.

Per certi versi tale dualismo si può riscontrare anche in Albanese, ma solo in apparenza, perché a differenza di Luca, Albanese è controllatissimo ed è sempre intelligibile, dietro alla maschera di un Cetto, l’attore e la consapevolezza delle proprie capacità. Dietro alle maschere di Albanese c’è sempre e sempre si avverte l’autocompiacimento, il ‘ma-come-sono-bravo’.

Dietro agli sdoppiamenti al cubo di Luca (perché Luca si sdoppia in Checco il quale si sdoppia nel personaggio di turno) c’è innanzitutto divertimento, poi c’è il dubbio. Checco non è mai pienamente sicuro, ha sempre dei dubbi che rivelano un’umanità schietta che ce lo rende ancora più simpatico.

I due appuntamenti tv di Zalone sono stati grande televisione. In due serate così piene di trovate è naturale che il livello non riesca a mantenersi sempre ai massimi, ma lo standard medio è veramente notevole, con vertici di assoluta genialità. Tra questi Saviano, la ormai classica parodia dei Modà, il duetto con Silvestri, per fare qualche esempio.

Senza contare che lo show ci ha fatto conoscere un musicista talentuoso, specie al piano: memorabile il duetto con Al Jarreau. E non c’è solo questo. Un aspetto importante nella comicità di Checco è la sua scorrettezza, camuffata da volgarità apparente. Se altri comici sono rassicuranti e in fondo prevedibili –infatti rassicurano perché fanno esattamente quello che noi ci aspettiamo– Checco destabilizza, sfidando lo spettatore a giocare col fuoco. Per esempio Checco è urticante quando ridicolizza i miti della sinistra perché lo spettatore di sinistra avverte  che la pungente satira viene da un corpo estraneo al proprio mondo e la digerisce male.

Scorrettissima in tal senso la parodia di Servizio Pubblico con un Santoro che manda a Londra la racchia, scorrettissimo il Vendola delle pari opportunità liriche o lo zio di Avetrana (ma chi avrebbe avuto il coraggio di proporlo? Il bollito Benigni, ormai una parodia di se stesso?) e ancora, le battute sul jazz, sui neri, sugli Indios e via dicendo.

Con Checco è stato divertente anche leggere i critici televisivi (l’Espresso, la Repubblica, e il letteratissimo Walter Siti su La Stampa), decisamente spiazzati da un comico che non appaia a Ballarò, da Fazio o dalla Dandini.


martedì 30 novembre 2010

DARIO FO / NICCOLO’ MACHIAVELLI

VIENIVIACONME

29 NOVEMBRE 2010



“Sia chiaro: i consigli che il Segretario della Repubblica di Firenze dedicava al Principe in verità non sono a lui rivolti ma alla popolazione intiera del proprio regno. In poche parole si tratta di un vero e proprio machiavello col quale, fingendo di parlare al signore, si vuol dar l’avvisata ad ogni cittadino di come si articola e con quali trucchi si muove la macchina del potere”.


Questa l’introduzione di un Dario Fo in grande forma all’elenco di consigli ‘machiavellici’ proposto a vieniviaconme. Intanto un finalmente! Machiavelli in prima serata è qualcosa di eccezionale e graditissimo. Poi, non è il solito Machiavelli additato come esempio di cinismo diabolico e quindi contrario al buonismo immacolato dei benpensanti. Fo lo dice chiaramente, il pensiero del Segretario, specie quello dei Discorsi e degli Orti Oricellari ha sempre guardato alla repubblica e ad una certa libertà (libertà relativa a quei tempi, si capisce). Era soprattutto il popolo che gli stava a cuore, e anche qui per popolo s’intende sempre una élite. Sono state le tristi vicende della vita a fargli scrivere il Principe, lucido e disperato tentativo per rientrare in gioco, dopo i rovesci di fortuna, la galera e la tortura e l’esilio all’Albergaccio. Troppo compromesso Niccolò. Tutti sapevano della sua grandezza ma anche della sua testardaggine poco incline alla sottile scaltrezza curiale che gioverà tanto al ‘democristiano’ Guicciardini. Ma anche questa volta Machiavelli risulta un po’ tradito dal comunque bel monologo di Fo. Sì perché i consigli non sono Machiavelli ma ancora una volta machiavellismo. Come per l’arcinoto ‘il fine giustifica i mezzi’, anche i cinque consigli enunciati in trasmissione non si trovano nelle pagine del Principe. Sono una rielaborazione, una sintesi machiavelliana non testuale ma va bene ugualmente. Il senso è arrivato.


In conclusione. Pare che il Principe sia uno dei libri preferiti da Silvio Berlusconi, uno di quelli che si tengono sul comodino. È un libro immenso e mai come oggi rileggerlo fa comprendere i meccanismi del potere. È un libriccino però da leggere non per raggiungere e mantenere il potere da parte di un signore ma, come ben dice Fo, per metterlo a nudo. Niente da dire, nonostante gli stenti, la sfortuna e le umiliazioni subite dopo i fattacci di Prato del 1512, Machiavelli aveva compreso tutto ma a lui servì a poco.