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venerdì 19 giugno 2015

EUGENIO MONTALE

OSSI DI SEPPIA - 1927





Quante volte avrò letto gli Ossi di seppia? Come Dante e Leopardi, Montale è il poeta della vita, a cui si torna ripetutamente. Ma a differenza di Dante e Leopardi, che non deludono mai, ad un certo punto Montale ha iniziato a perdere lo smalto. E se nell’adolescenza la scoperta degli Ossi aveva i segni della folgorazione e nella gioventù si consolidava quale opera assoluta, con l’età matura l’indiscutibilità del suo valore veniva sempre più messa in discussione.

Certo Montale resta fondamentale nella storia della poesia italiana tra le due guerre, ma come ‘opera complessiva’ gli Ossi sono andati progressivamente ridimensionandosi, soprattutto se presi nel contesto della poesia universale.

Ho appena riletto gli Ossi. In limine ha una chiusa notevole: “ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine…” ma il resto si colloca in un solco post pascoliano con una seconda strofa micidiale (frullo, volo, eterno grembo, crogiuolo). Ne I limoni, invece, dopo aver creato una bella oggettivazione paesaggistica, l’incanto si inceppa in un ridondante metaforismo (vv. 26-29), per chiudersi con un raccapricciante “le trombe d’oro della solarità”. Ancora più patetico il finale di Corno inglese. Di Esterina resta l’immagine “il lacciòlo – per fortuna non lacciuolo – d’erba del fanciullo”. Anche se a ripensarci la doppia specificazione fa molto poeta alle prime armi. Minstrels meglio lasciar perdere. Si salva l’esercizio retorico dell’Epigramma per Camillo Sbarbaro. Si può fare a meno degli altri Movimenti.

Eccoci alla sezione degli Ossi di seppia veri e propri e qui siamo di fronte ad un poeta che commette pochi passi falsi. Questi sono, per la precisione, Ciò che di me sapete, Tentava la vostra mano la tastiera, Debole sistro al vento. Tra gli altri diciannove componimenti, tutti notevoli, spicca una scaglia poetica bellissima, Valmorbia. Mediterraneo è, al contrario, tutto da scartare.

La sezione Meriggi e ombre si apre con il narrativo Fine dell’infanzia seguito dall’ormai cliché di Agave sullo scoglio. Un episodio minore, Vasca, immette a tre liriche decisamente didascaliche. Puri esercizi di stile vuoti e consunti. La seconda parte di Meriggi e rappresentata da Arsenio, in giustificata solitaria evidenza. La poesia è importante e pienamente riuscita. Della terza parte vanno citate Casa sul mare e Delta, mentre il colloquio con la tristezza di Incontro è illeggibile. Poco significativa anche la conclusiva Riviere.


lunedì 8 dicembre 2014

ARDENGO SOFFICI

MUSEO SOFFICI
POGGIO A CAIANO


Trasporto funebre - 1910
Secondo dopoguerra inoltrato,  a settantotto anni Ardengo Soffici sembra ancora impregnato di fascismo. Nell’intervista televisiva del 1957, vista al Museo Soffici di Poggio a Caiano, in doppio petto, i pugni serrati ai fianchi, la mascella ancora volitiva e il cranio calvo: sembra il Duce. Eppure il suo toscano da studio e da osteria affascina.
Nato nel contado fiorentino nel 1879, ventenne se ne va a Parigi e lì per quasi otto anni fa l’artista insieme ad altri artisti (Picasso, Apollinaire, Derain..): la solita Bohème. Torna in Italia e vi porta Cézanne, il post-impressionismo,  il cubismo. I tempi sono buoni per aderire al futurismo.
Intorno al 1912, a casa di Palazzeschi a Firenze, si incontrano Marinetti, Boccioni, Carrà, Papini e Soffici. Sta nascendo Lacerba e Ardengo è un compulsatore di avanguardie. Dipinge, verseggia, teorizza: “razzi, paradossi, immoralismi, libertà…”, per citare Papini. Nel 1915 va alle stampe Simultaneità e chimismi lirici, che contiene versi notevoli:

“Non c’è più tempo
Lo spazio
È un verme crepuscolare che si raggricchia in una goccia di fosforo:
Ogni cosa è presente”  (Arcobaleno);

“Si cammina sulle immondizie,
Sui gatti assassinati
E i capelli,
Accanto alle porte inchiodate dei bordelli” (Firenze)

“On a trop répété cette parole: Je t’aime,
In tutte le lingue;
Queste centinaia di libri in fila
Ripugnano come cadaveri di vecchi amici;
Il solo Stendhal si può leggere ancora
Nella poltrona a fioroni, tra il tè e la macedonia.” (Atelier).

La sua è una posizione di intermediazione tra la rottura futurista di un Marinetti e la tradizione di certi vociani.

Anche in pittura Soffici trae spunti dalle tendenze in voga a Parigi e le propone al provinciale pubblico fiorentino. Non è un genio, come credeva di essere ma ha il tocco felice. Belli sono certi paesaggi in cui il colore è scabro, con la materia pittorica quasi gettata e poi grattata dalla tela o altri, al contrario dove il colore s’infiamma.

Dopo la stagione di Lacerba Soffici farà scelte politiche che lo porteranno ad aderire al Fascismo e scelte artistiche sempre più di retroguardia. Se la produzione lirica è ormai priva di ogni interesse (“squallidi documenti”, secondo Sanguineti), forse si salva quella pittorica, con alcune opere degli anni Venti e Trenta ancora di un certo livello. Ma gli anni fino alla Grande Guerra sono stati, per Soffici, begli anni, che la critica posteriore ha giudicato un po’ troppo severamente.

La potatura - 1907


Tramonto a Poggio a Caiano - 1925

mercoledì 26 novembre 2014

DINO CAMPANA

CANTI ORFICI - 1914





Un secolo fa il tipografo Bruno Ravagli in Marradi dava alle stampe il volumetto di prose e versi Canti orfici del compaesano Dino Campana. L’allucinato poeta della Romagna toscana era reduce da una sfortunata missione a Firenze dove aveva cercato di contattare gli artefici di Lacerba, Papini e Soffici.

A tal proposito c’è la testimonianza di Soffici sul primo incontro con il poeta. I due illustri fiorentini si trovavano presso la tipografia Vallecchi quando si imbatterono in un giovane. “Ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, averne il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista.[..] Campana tirò allora fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compere e vendite, e lo consegnò a Papini". Il racconto di Soffici continua. “Il nostro nuovo amico tremava come una foglia e si soffiava nelle mani, ridendo nervosamente tra una soffiata e l’altra. All’improvviso ci salutò e sparì di passo lesto”.

C’è da notare una certa sufficienza nel racconto del pittore-poeta nei confronti del giovane sconosciuto. Sufficienza che si sarebbe manifestata nello ‘smarrimento’ del vecchio taccuino da sensale che Campana gli aveva lasciato. Fatto sta che qualche mese dopo, il poeta di Marradi chiede a Soffici la restituzione del manoscritto, di cui non aveva altra copia. Soffici risponde di non trovare più il taccuino e molto candidamente dichiara: ”in un trasloco il libriccino era andato confuso nel gran sottosopra. [..] Pensavo del resto che la cosa non fosse di grandissima urgenza”.

Dino Campana scrive per il manoscritto anche a Papini, che a sua volta ha qualcosa da raccontare: “Gli risposi che non avevo nulla di suo. Mi riscrisse, allora, una lettera furibonda nella quale mi annunciava che sarebbe disceso a Firenze ‘con acuminato coltello’ per riavere, con le buone o con le cattive quei suoi preziosi scritti”. Dopo l’infausta vicenda fiorentina del dicembre del 1913, Dino Campana riscrisse a memoria i Canti orfici per farli pubblicare nella sua Marradi nella primavera del 1914. Va ricordato che il taccuino originale rispuntò miracolosamente nel 1971, trovato dalla vedova di Soffici, proprio tra le sue carte…

Ho riletto i Canti orfici parecchi anni dopo una prima lettura giovanile che mi aveva molto impressionato. La delusione è stata cocente. I versi  sono una serie di visioni dove la presenza dell’io lirico è ossessiva e delirante. Vi è il ricorso ad una eccessiva aggettivazione cromatica. Si sprecano i bianco, rosso, blu, viola con i relativi rafforzativi o attenuativi tra i quali spicca per ricorrenza ‘pallido’. Altre frequenti parole-chiave sono ‘sogno’, ‘ricordo’, ‘feroce’, ‘barbaro’. Il tutto condito da un estetismo decadente e simbolista in cui si evidenziano le influenze di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, tra gli italiani e di Baudelaire e Nietzsche tra gli stranieri. D’accordo, c’e l’impressionismo del verso libero, c’è la rottura rispetto alle forme chiuse, ci sono i richiami espliciti alle prostitute e alla Bohéme maledetta ma il risultato poetico è piuttosto esile e ripetitivo.

Nonostante l’atteggiamento a dir poco fastidioso di un Papini, il critico aveva letto giusto quando, a proposito dei Canti orfici, asseriva: “Alla fortuna dell’opera di Campana hanno contribuito, anche, ragioni esteriori: il ricordo della sua vita errabonda e misteriosa; il suo finale inabissamento nella follia”.

Di questa rilettura di Campana ho comunque apprezzato alcuni aspetti. Il parentetico sottotitolo in tedesco “Die Tragoedie des letzten Germanen in Italien” con la dedica a Guglielmo II imperatore dei germani. L’epigrafe in chiusura di raccolta con alcuni versi di Walt Whitman. E, in modo particolare, la citazione, dal romanzo del 1902 Gli dei risorti, dello scrittore russo D. S. Merežkovskij. A tal proposito, guarda il caso, in questi stessi giorni sto leggendo un saggio su Pavel Florenskij in cui si fa riferimento allo stesso scrittore citato da Campana, attivo nei circoli simbolisti russi di inizio Novecento.


I virgolettati sono tratti da A. Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Vallecchi 1931 e G. Papini, Autoritratti e ritratti, Mondadori, 1962


Ardengo Soffici, I giocatori - 1909



Frutta e liquori - 1915

giovedì 28 agosto 2014

SEAMUS HEANEY

CATENA UMANA
HUMAN CHAIN - 2010

Seamus Heaney nel 2010 - Foto Peter Everard Smith/The Guardian
Libro di fantasmi, l’ultima raccolta del poeta laureato nordirlandese Seamus Heaney. Pubblicata nel 2010, tre anni prima della morte, Human Chain si muove entro un perimetro di riferimenti letterari quali Virgilio, innanzi tutto, la poesia italiana (Dante, Pascoli), le antiche saghe irlandesi, con ovvi ma non appariscenti riferimenti alla letteratura inglese. Entro questo cortile letterario il poeta evoca ombre dal passato. Se Enea nel sesto libro dell’Eneide e Dante nella Commedia entrano nell’oltretomba, Seamus Heaney compie il percorso opposto, facendo tornare vivide figure morte, siano esse il padre e la madre, amici e conoscenti vari ma anche personaggi mitici come antichi monaci ed eroi della tradizione gaelica o i protagonisti de L’isola del tesoro.

Il poeta è in mansarda, davanti ad una finestra. Una betulla sta tra me e il Mar d’Irlanda: “A birch tree…/Comes between the Irish Sea and me/ At the attich skylight”. In questo spazio che in linea retta è:

chiuso (mansarda) – poco distante e definito (betulla) – lontano e indefinito (il mare / orizzonte),

 appaiono i fantasmi che annunciano un prossimo ricongiungimento.

In tutta la raccolta aleggia la consapevolezza che il viaggio della vita sta per giungere alla meta e che la morte, inesorabile, si avvicina ma il tono non è angoscioso. Le apparizioni di chi ha già compiuto l’ultimo passo sono quasi rassicuranti nel loro far accettare la morte come momento necessario alla vita stessa. Dopo tutto siamo anelli di una catena umana, ognuno concluso nella sua circolarità ma legato al precedente e al successivo. Significative, in tal senso, le dediche alle nipotine.

Quello di Heaney è uno sguardo lucido e disincantato che sa rendere poeticamente anche le avvisaglie della sua fine, come nella bellissima Chanson d’Aventure, tre componimenti che raccontano la corsa in ambulanza dopo essere stato colpito da ictus o nei versi toccanti sulla sua incerta condizione in finale di raccolta: As I age and blank on names/… /As the memorable bottoms out/ (mentre invecchio e svaniscono i nomi/ ... /mentre i ricordi affondano).


Ma è forse nella serie di dodici testi che costituiscono Route 110 che si raggiunge il vertice di Catena umana. Composti da quattro stanze di tre versi ciascuna, le dodici poesie formano una catena grazie all’espediente della coblas capfinidas che segue il tragitto dell’autobus che il poeta prendeva da ragazzo da Bellaghy a Cookstown. Qui il mitico virgiliano si intreccia con la rievocazione del proprio passato. “It was the age of gosths” dice il poeta a proposito di un certo periodo, quello dei Troubles nell’Ulster. Ed eccoli i fantasmi di Heaney ma non spaventano.


lunedì 24 marzo 2014

DYLAN THOMAS / JOHN HELIKER / JOHN CALE


DYLAN THOMAS, NOVEMBRE 1953
JOHN HELIKER, 1909 - 2000
JOHN CALE, LIVE BRUXELLES 1992

John Heliker, Tarquinia, 1947

Do not go gentle into the good night, recita il refrain di una celebre poesia di Dylan Thomas, musicata da John Cale. Parla della morte o meglio, del fine vita. Per Thomas le circostanze dell’entrata nella bella notte sono diventate un mito e non si è certi se siano state gentle or not.

È il 3 novembre del 1953. Dylan è a New York, al Chelsea Hotel e ha da poco compiuto trentanove anni ma non sta bene. Ha problemi di respirazione, beve molto, non riesce a dormire, assume barbiturici. In quei giorni a New York non si respira, una cappa di smog avvolge Manhattan e crea grossi problemi a chi soffre di asma. Dopo essere stato tutto il giorno a letto, la sera esce e inizia un tour alcolico in vari bar. Rientra al Chelsea dichiarando ad Elizabeth Reitell, con cui divideva la camera, di essersi scolato 18 whiskies di fila:  “I’ve had eighteen straight whiskies. I think it’s a record. I love you”.

Il 4 novembre Thomas sta male ma continua a bere. Riceve almeno tre volte in camera il dottor Milton Feltenstein che gli somministra steroidi e morfina. Dopo la mezzanotte Dylan è semiparalizzato. Elizabeth Reitell chiama l’ amico John Heliker , buon pittore, e insieme lo portano con un’ambulanza al St. Vincent’s Hospital. È in questi minuti che Dylan avrebbe pronunciato a Heliker le sue ultime parole prima di entrare in coma: “After thirty-nine years, this is all I’ve done”.

Viene avvisata la moglie Caitlin che prenderà un volo per New York. In ospedale pare che le prime parole da lei dette siano state “Non è ancora crepato quello stronzo?”, poi ubriaca e incontrollabile verrà portata in una clinica di Long Island per un rehab.


Dylan Thomas muore il 9 novembre.


Corinth, 1957

The Howard House, 1965

West Dover

Autoritratto, 1970



sabato 22 marzo 2014

DYLAN THOMAS

BALLAD OF THE LONG-LEGGED BAIT
BALLATA DELL'ESCA DALLE LUNGHE GAMBE


Dylan Thomas con la moglie Caitlin - 1937

Il critico William Tindall racconta un suo incontro con Dylan Thomas. Sono in un celebre bar-restaurant, West 23rd Street di New York. Il poeta dal fegato bruciato prova gusto ad apparire sconnesso. Il critico fa domande sul significato di alcune poesie, proprio la cosa che un poeta, per di più alticcio, figuriamoci quanta  voglia ha di stare ad ascoltare. A proposito di Ballad of long-legged bait, Dylan Thomas pronuncia, seccato e provocatore, la famosa frase masticando le parole: “Un giovane va a pesca di scopate e si ritrova all’amo la chiesa e il bel pratino verde. Che stronzata!”.

La sferzante battuta sintetizza il componimento poetico. Il viaggio per mare narrato nella ballata si configura, infatti, come percorso esperienziale; è la vita nel suo svolgersi che, per un poeta, coincide con l’evoluzione della propria produzione poetica.

Senza andare a scomodare l’Ulisse di Omero ( ma l’Ulisse di Joyce sì!), i due precedenti della ballata di Thomas sono l’Ancient Mariner di Coleridge e il Bateau ivre di Rimbaud. Ai quali si può aggiungere Moby Dick. Ma come sua abitudine Thomas scombina le carte e smazzando unisce ai riferimenti citati l’aura del profetismo biblico, dal Vecchio Testamento all’Apocalisse. A questa base letteraria si aggiungono il lirismo onirico-simbolista e il carico tutto carnale tipici della poetica del ‘giovane artista’ gallese.

Nella ballata l’incedere è narrativo con ripetuti cambiamenti del soggetto enunciante. All’inizio è la costa a dare l’ultimo sguardo al giovane eroe appena salpato dai capelli scomposti e dagli occhi blu balena (whale-blue eye è un’invenzione meravigliosa).

Il ritorno è invece visto con gli occhi del fisherman ed è la terra che si mostra con il suo orizzonte chiuso e i suoi simboli prosaici: in un anticlimax rassegnato vediamo il villaggio, la chiesa, la casa, il cuore in mano.
Tra la partenza e l’arrivo c’è la sterzata, lo scarto (swerve) che rende possibile l’esperienza di sensazioni visive, uditive, tattili; di accoppiamenti mitici, mistici, selvaggi. Il viaggio-vita-poesia è infrangere la scia (buck in the wake), nella cui schiuma l’esca dalle lunghe gambe si azzuffa  con un branco di amanti (tussle in a shoal of loves). E, tra sogno e realtà, appaiono donne nude color di luna dall’incedere provocante, rese più seducenti dalla vergogna (moon-white women naked / walking in wishes and lovely for shame).

La Ballad fu scritta tra il 1940 e il 1941 a Bishopton, in Galles. Dylan e la moglie Caitlin trascorrevano pomeriggi al pub. Spesso si univa a loro l’amico Vernon Watkins, che ha lasciato preziose testimonianze su come lavorava Thomas. Proprio di questa poesia Watkins dice “di averla vista crescere dai primi versi attraverso tutti gli stadi della composizione”. In una lettera di quel periodo Thomas scrive: “ I’ve been sitting down trying to write a poem about a man who fished with a woman for bait and caught a horrible collection”, secondo quanto scrive Gwen Watkins in Portait of a friend.


La ballata è citata nel testo della canzone Dolce Luna composta da Fabrizio De André e Francesco De Gregori. Tra i versi si segnalano
Cammina come un vecchio marinaio…
la sua ragazza esca dalle lunghe gambe
fa all'amore niente male…
la sua balena Dolce Luna
che lo aspetta in alto mare



Dylan con un amico e Vernon Watkins in Galles

martedì 11 febbraio 2014

ARTE E POESIA

BONNEFOY / CONSTABLE / CLAUDE LORRAIN



Nella raccolta Quel che fu senza luce Yves Bonnefoy fa riferimento ad 

alcuni dipinti. Per l’esattezza, a Dedham vista da Langham di John 

Constable nella poesia omonima e a due tele di Claude Lorrain, Il castello 

incantato e Agar e l’angelo.


Dedham vista da Langham, 1813 - Tate Britain, Londra


Agar e l'angelo, 1654 - Public Art Gallery, Dunedin


Il castello incantato - Psiche davanti al palazzo di Amore, 1664 - The National Gallery, Londra

YVES BONNEFOY

QUEL CHE FU SENZA LUCE
CE QUI FUT SANS LUMIÈRE - 1987





Il primo incontro con Yves Bonnefoy è legato ai suoi saggi critici su Rimbaud. La curiosità, sempre buona maestra, ha poi spinto verso la sua produzione poetica. E così si sono fatti apprezzare Movimento e immobilità di Douve e in special modo Nell’insidia della soglia. Ma nel complesso Bonnefoy è rimasto in un’area di apprezzamento non invogliante alle letture ripetute, come avviene invece per quei poeti che riescono a penetrare nella carne viva. Considerato come il poeta francese più importante del secondo Novecento, Bonnefoy era ancora prevalentemente legato al nome di Rimbaud.

Dopo molti anni, su una bancarella, praticamente intonso, a parte una firma illeggibile e un Pisa, 7 luglio 2001 scritti in blu a pagina cinque, si faceva notare Quel che fu senza luce. Da comprare senza esitazione.
Ce qui fut sans lumière è una raccolta suddivisa in cinque sezioni, quasi come fossero cinque stagioni. Il tempo, la sua manifestazione nel momento e nello spazio sono le classiche coordinate che strutturano la griglia sulla quale si avviluppano i vari temi. Alcuni circostanziati, come il progetto di ristrutturazione di una casa nel Sud della Francia; altri più eterei come il senso della parola e il suo divenire poesia.

Il vocabolario della raccolta è ridotto ad alcune aree semantiche che fanno riferimento ai quattro elementi fondamentali. Molti infatti i termini legati a terra, acqua, fuoco, aria con le relative estensioni. Per fare due esempi: fiamma, brace, bruciare, cenere per fuoco; fiume, rugiada, pioggia, pozzanghera, neve per acqua.
In parallelo si svolgono i temi del sonno/sogno/ricordo che rimandano ad un’altra dimensione, quella quinta stagione che trascende il ciclo annuale delle quattro canoniche e il tema della poesia che spesso viene assimilata alla luce e all’infanzia (lumière e enfant sono in questo caso le parole-chiave che si legano a mot, poesie, chant). In rilievo pure il filone simbolico, sempre declinato secondo le linee spazio-temporali, di maison-barque-temps-vie-chemin..

Su questo tessuto fatto di termini semplici ma pregnanti, pochi e fugaci i riferimenti artistico-letterari sottolineati dal poeta: John Donne, Racine e con maggior consistenza, i pittori Claude Lorrain e Constable. Si colgono anche luminescenze che rinviano a Rilke, Celan, Baudelaire e Rimbaud.

Una raccolta compatta, nella quale Bonnefoy cerca di restringere il campo lessicale a una rosa di parole (mots) che vengono caricate di senso, così da acquisire una profondità mitica sia riferita al vissuto del poeta sia avente valenza universale. Una poesia che cerca quindi di concentrarsi sulla parola e sulla possibilità di illuminare cose (choses) sepolte nel buio.

Veduta di Valsaintes, foto di Yves Bonnefoy - 1964

venerdì 24 gennaio 2014

GIORNO DELLA MEMORIA

ARTE E SHOAH


Fritz Hirschberger, Indifference


Indifference


Fear not your enemies,
for they can only kill you.

Fear not your friends,
for they can only betray you.

Fear only the indifferent,
who permit the killers and

betrayers to walk safely on earth.







Indifferenza

Non aver paura dei tuoi nemici,
possono solo ucciderti.

Non aver paura dei tuoi amici,
possono soltanto tradirti

temi solo chi è indifferente
perché è l’indifferenza che permette
all’assassino e al traditore
di camminare tranquilli sulla terra.

Poesia di Edward Yashinski, poeta yiddish polacco, sopravvissuto alla Shoah.


Fritz Hirschberger, Hypocritical Oath

Fritz Hirschberger, The Concordat


I dipinti di Hirschberger fanno parte della serie Sur-Rational Paintings dei primi anni Novanta con cui il pittore ebreo tedesco, anch'egli sopravvissuto all'olocausto, propone un'interpretazione politica e poetica della terribile esperienza vissuta. I colori accesi, la linea da cartoon, l'infantilismo emozionato stridono con l'atrocità del tema e con la forza del messaggio che è insieme atto d'accusa e testimonianza.

“The contents of these paintings represent the views of a survivor artist and his response to the Holocaust. The majority of the paintings are based on my personal experience or an historical fact. The paintings ask questions, but give no answers.”                                                        
                                                                        Fritz Hirschberger


domenica 5 maggio 2013

FEDERICO GARCIA LORCA

SONETTI DELL'AMORE OSCURO
FEDERICO GARCIA LORCA - 1936

L'estasi di Santa Teresa del Bernini, metà Seicento


Non destinati alla pubblicazione, gli 11 Sonetti dell’amore oscuro sono un intimo colloquio del poeta con se stesso. Seppure è presente la seconda persona, il tu a cui si rivolge il poeta-amante, i sonetti sono come propaggini di un diario personalissimo, per mezzo dei quali si manifesta sulla pagina e allo sguardo dell’autore, una passione segreta. Sono proprio questi i due termini-chiave della breve ‘ghirlanda’(«Esa guirnalda»).

Passione perché ogni verso gronda appunto passione, fisica e immateriale, esplicitata nelle coppie metaforiche «cielo y mundo», «carne y cielo» eccetera; segreta perché l’amore che i versi celebrano è intimo, «oscuro».

Viscerale grumo di sensi, il poeta utilizza la forma lirica chiusa della tradizione occidentale, il sonetto, per trasporre la materia informe e sanguinante di lacrime, sudore e fiato in campo letterario, come fortemente letteraria è l’aura che emana dalla lettura degli 11 sonetti. Questi versi risuonano di classicismo screziato da una vena manierista e barocca che trae origine dagli elisabettiani e dal siglo de oro, da Shakespeare e da Góngora.

Ma la cifra più originale e assolutamente sostanziale della raccolta risiede nel misticismo. Santa Teresa d’Avila, San Juan de la Cruz affiorano nei sonetti e danno all’«amore oscuro» una chiave di lettura che trascende il semplice fatto biografico di un rapporto da tenere nascosto per approdare ai campi della spiritualità, resa attraverso la semplice forza della parola. In tal senso i sonetti sono costruiti attorno ad una serie di sostantivi-feticcio che si ripetono, quali luce, notte, voce, sangue, carne, ferita, bocca, petto cuore, sogno.

Per quanto attiene ai verbi, ricorrono quelli della tradizionale lirica amorosa: gemere, amare, piangere, vedere, perdere, morire, dormire e vegliare. Molto frequente, stilisticamente, l’uso dell’antitesi e della sinestesia ma nel complesso Lorca cerca di ridurre al minimo gli strumenti linguistico-espressivi per dominare meglio l’incandescente materia trattata, con risultati di sfavillante poesia.

domenica 21 aprile 2013

PHILIP LARKIN

HIGH WINDOWS
PHILIP LARKIN - 1974

Philip Larkin e Monica Jones nel 1950


Nel 1974 usciva High Windows, quella che sarebbe stata l’ultima raccolta di poesie di Philip Larkin, figura centrale della scena poetica inglese – e non solo   del secondo Novecento. Si tratta di uno smilzo libriccino di 24 testi che conferma i tratti essenziali che caratterizzano l’intera opera di Larkin e che pongono il poeta quale voce opposta e speculare, ma altrettanto grande, a quella di Auden.

Se la poesia di Auden è intellettualistica e letteraria e si afferma subito con l’auctoritas di un classico, quella di Larkin segue i percorsi della quotidianità, privando i grandi temi trattati (lo scorrere del tempo, la solitudine, la memoria, la morte) del pathos retorico e di tutti gli artifici e i concettismi che farciscono la poesia contemporanea.

Sembra che un colpo di spugna abbia cancellato la storia della letteratura e che sulla lavagna il gesso abbia lasciato esilissimi segni sui quali Larkin sovrascrive, con molta autoironia, i suoi pensieri esistenziali-narrativi.

La poesia di Larkin ha infatti un’anima narrativa e si svolge in modo piano, chiaro, con lo scopo di farsi intendere, non decifrare, dal lettore, che subito entra in contatto col poeta. Poesia istintiva, si potrebbe dire, perché è immediatamente comprensibile, ma poi, leggendo e rileggendo i testi, ci si accorge della profondità da cui attingono le semplici parole affiorate sulla pagina.

Con High Windows Larkin riesce a porre il lettore allo stesso livello del poeta e anche per questo lo ringraziamo.

 

martedì 26 marzo 2013

BILLY BRAGG

ROCK E POESIA



È appena uscita l’ultima raccolta di Paul Muldoon, poeta nordirlandese nato nel 1951. Il libro, The Word on the Street, è un tentativo di scrivere poesie rock. Non tanto nei contenuti e nell’ispirazione, legati a filoni letterari colti e tradizionali, quanto nella forma. I testi infatti hanno la struttura, il lessico e le assonanze tipiche delle rock songs.

Il poeta che insegue il modello del cantore popolare è meno comune rispetto a fenomeno inverso del cantore che si sforza  e crede di fare poesia con le sue canzoni. C’è anche una terza tipologia ed è quella del poeta che è ontologicamente rock senza cercare o sapere  di esserlo. Oltre a Muldoon possono essere ascritti alla prima categoria l’Auden dei Lighter Poems o, abbassandoci di livello, l’Arbasino di Rap. Poeti rock possono essere definiti Rimbaud e Sylvia Plath. Folta la categoria del cantore-poeta. Tutti i cantautori/songwriter dovrebbero esserlo per definizione. In realtà, salvo poche eccezioni, nel mondo della musica popolare, intesa come prodotto di largo consumo, i poeti sono pochi e quei pochi riescono ad esserlo solo in occasioni circostanziate della loro produzione.

Tra questi a me piace comprendere Billy Bragg. Musicista sincero, classe 1957, ha all’attivo una lunga carriera discografica e un appassionato impegno politico leftist. Personalmente  l’ho seguito fin dagli esordi ed ho apprezzato lavori come Life's a Riot with Spy Vs Spy, Talking with the Taxman about Poetry o la rilettura delle canzoni di Woody Guthrie. Sono tornato ad ascoltarlo con Mr Love & Justice e con il recentissimo Tooth & Nail, che devo ancora assimilare. Il suo disco migliore è il terzo album del 1986 Talking with.. che già dal titolo dimostra l’interesse di Billy per la poesia, e che ad essa è strettamente connesso. Esso infatti riprende l’omonimo poema di Vladimir Majakovskij del 1926.

Ma a parte il titolo, vorrei citare alcuni versi che fanno di Billy Bragg un rocker dalla forte vena poetica, se non un poeta tout court.


I'm celebrating my love for you
With a pint of beer and a new tattoo
And if you haven't noticed yet
I'm more impressionable when my cement is wet


amore proletario, birra, tatuaggio e materico riferimento alla calcina bagnata.

 

Here we are in our summer years
Living on icecream and chocolate kisses

Imagine di istantanea freschezza.

 

I know people whose idea of fun
Is throwing stones in the river in the afternoon sun
Oh let me be as free as them
Versi degni di Dylan Thomas.

 

I almost killed you
Nearly killed you
Almost killed you with my love
I'll put a gun up to my head
If you treat me this way

Insistita e violenta antitesi molto efficace con quella pistola alla testa.

domenica 17 marzo 2013

MOVIMENTO 5 STELLE

BEPPE GRILLO
INIZIO DELLA TERZA REPUBBLICA

H. Bosch / J. Cale, The Ship of Fools



A proposito di un commento ad un post sul sito di Beppe Grillo che ho appena inviato.


Movimento 5 Stelle ricorda il “penitanziagite”(1) o il “gottes macht ist myn cracht”(2), modelli da studiare per evitare di commettere errori analoghi. ma questa dovrebbe essere la forma o meglio la non forma da mantenere. Anche solo il pensiero di appoggiare un esecutivo Bersani suonerebbe eretico(3). Le sirene del potere sono sempre allettanti, e quando cantano, lesti ad usare tappi di cera (4).

Prodi, D'Alema o altre amenità per il Colle che vengano lasciate ai professionisti della politica. Da osservatore non votante del movimento, trovo che l'unica strada che M5S possa seguire è quella dell'anti-sistema, possibilmente non eterodiretta, come avviene ora, ma spontanea e anarcoindividualista (5) come forse avverrà.

Movimento non strutturato che persegue lo scopo di far cambiare, con il proprio esempio di comportamento impeccabile, i comportamenti degli altri. Questo è l'unico modo per entrare non solo nella storia, ma nel mito e nella leggenda. Oppure si comincia a sentirsi indispensabili e a pensarsi salvatori della patria e prima qualche voto ad personam poi il risucchio nel mainstream partitocratico.

Da osservatore non votante guardo l'evolversi della situazione che si avvicina alla biforcazione del sentiero(6). Quale sarà la direzione del movimento, verso l'opportunismo o verso la mitopoiesi?

note

1. « Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi,   
tu che forse vedrai lo sole in breve,
s'egli non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non sarìa lieve. »

Inferno, XXVIII, 55-60

Da Dante fino alla Rosa di Umbertino d’Alessandria

2. Altro esempio di comune che si pone fuori dal sistema.

Per scampare da zanne che mi straziano - sparire
Farmi aria di tenebra ma a poco
A poco a poco come questa a cui mi abbia persuaso
Argenteo freddo e infinito il crepuscolo
Di primavera in Münster contemplando
Il mistero dei tre capi anabattisti
Lassù le gabbie vuote sul campanile:
Vi ci aveva rinchiusi da già morti o ancora
Vivi
La cruda pietà vescovile, poveri cristi
E di quale stagione e a quale i corpi
Dati in pasto offesa di elementi-
Ai resti loro in compagnia lasciando
Sfatti di me sepolti e pochi denti.

Giovanni Giudici, Primavera in Münster

3. Proprio in quanto eresie furono combattute le citate esperienze degli Apostolici e degli Anabattisti

4. And here she comes again and I'm sitting on my hands
And she sings to me that siren song.

Billy Bragg, The warmest room

5. Ogni riferimento al Collettivo di Ayn Rand e Murray Rothbard non è puramente casuale

6. Jorge Luis, naturalmente