Un secolo
fa il tipografo Bruno Ravagli in Marradi dava alle stampe il volumetto di prose
e versi Canti orfici del compaesano
Dino Campana. L’allucinato poeta della Romagna toscana era reduce da una
sfortunata missione a Firenze dove aveva cercato di contattare gli artefici di Lacerba, Papini e Soffici.
A tal
proposito c’è la testimonianza di Soffici sul primo incontro con il poeta. I
due illustri fiorentini si trovavano presso la tipografia Vallecchi quando si
imbatterono in un giovane. “Ci disse che si chiamava Dino Campana, che era
poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi
scritti, averne il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli
nella nostra rivista.[..] Campana tirò allora fuori di tasca un vecchio
taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori
segnano i conti e gli appunti delle loro compere e vendite, e lo consegnò a
Papini". Il racconto di Soffici continua. “Il nostro nuovo amico tremava
come una foglia e si soffiava nelle mani, ridendo nervosamente tra una soffiata
e l’altra. All’improvviso ci salutò e sparì di passo lesto”.
C’è da
notare una certa sufficienza nel racconto del pittore-poeta nei confronti del
giovane sconosciuto. Sufficienza che si sarebbe manifestata nello ‘smarrimento’
del vecchio taccuino da sensale che Campana gli aveva lasciato. Fatto sta che
qualche mese dopo, il poeta di Marradi chiede a Soffici la restituzione del
manoscritto, di cui non aveva altra copia. Soffici risponde di non trovare più
il taccuino e molto candidamente dichiara: ”in un trasloco il libriccino era
andato confuso nel gran sottosopra. [..] Pensavo del resto che la cosa non
fosse di grandissima urgenza”.
Dino
Campana scrive per il manoscritto anche a Papini, che a sua volta ha qualcosa
da raccontare: “Gli risposi che non avevo nulla di suo. Mi riscrisse, allora,
una lettera furibonda nella quale mi annunciava che sarebbe disceso a Firenze
‘con acuminato coltello’ per riavere, con le buone o con le cattive quei suoi
preziosi scritti”. Dopo l’infausta vicenda fiorentina del dicembre del 1913,
Dino Campana riscrisse a memoria i Canti
orfici per farli pubblicare nella sua Marradi nella primavera del 1914. Va
ricordato che il taccuino originale rispuntò miracolosamente nel 1971, trovato
dalla vedova di Soffici, proprio tra le sue carte…
Ho riletto
i Canti orfici parecchi anni dopo una
prima lettura giovanile che mi aveva molto impressionato. La delusione è stata
cocente. I versi sono una serie di
visioni dove la presenza dell’io lirico è ossessiva e delirante. Vi è il
ricorso ad una eccessiva aggettivazione cromatica. Si sprecano i bianco, rosso,
blu, viola con i relativi rafforzativi o attenuativi tra i quali spicca per
ricorrenza ‘pallido’. Altre frequenti parole-chiave sono ‘sogno’, ‘ricordo’,
‘feroce’, ‘barbaro’. Il tutto condito da un estetismo decadente e simbolista in
cui si evidenziano le influenze di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, tra gli
italiani e di Baudelaire e Nietzsche tra gli stranieri. D’accordo, c’e
l’impressionismo del verso libero, c’è la rottura rispetto alle forme chiuse,
ci sono i richiami espliciti alle prostitute e alla Bohéme maledetta ma il
risultato poetico è piuttosto esile e ripetitivo.
Nonostante
l’atteggiamento a dir poco fastidioso di un Papini, il critico aveva letto
giusto quando, a proposito dei Canti
orfici, asseriva: “Alla fortuna dell’opera di Campana hanno contribuito,
anche, ragioni esteriori: il ricordo della sua vita errabonda e misteriosa; il
suo finale inabissamento nella follia”.
Di questa
rilettura di Campana ho comunque apprezzato alcuni aspetti. Il parentetico
sottotitolo in tedesco “Die Tragoedie des
letzten Germanen in Italien” con la dedica a Guglielmo II imperatore dei
germani. L’epigrafe in chiusura di raccolta con alcuni versi di Walt Whitman.
E, in modo particolare, la citazione, dal romanzo del 1902 Gli dei risorti, dello scrittore russo D. S. Merežkovskij. A tal proposito, guarda il caso, in
questi stessi giorni sto leggendo un saggio su Pavel Florenskij in cui si fa
riferimento allo stesso scrittore citato da Campana, attivo nei circoli
simbolisti russi di inizio Novecento.
I
virgolettati sono tratti da A. Soffici, Ricordi
di vita artistica e letteraria, Vallecchi 1931 e G. Papini, Autoritratti e ritratti, Mondadori, 1962
Ardengo Soffici, I giocatori - 1909 |
Frutta e liquori - 1915 |
Stavolta Eustaki, non sono tanto d’accordo. È vero che c’è una certa ripetitività nei Canti Orfici, un mood ossessivo, che la sfortunata vita di Campana è stata alimento della sua leggenda e che c’è talvolta traccia di un estetismo decadente ma, secondo me, nel poema troviamo una musicalità talmente trascinante che cancella questi difetti. Io ebbi l’occasione di ascoltare in un teatro milanese, mi pare nel 1993, la straordinaria versione di Carmelo Bene e ne fui davvero scioccato. Non è un modo di dire, non ebbi nemmeno la forza di alzarmi in piedi ad applaudire come l’amico al mio fianco e molti in sala. Dopo quell’esperienza adolescenziale Campana divenne per me un autore di culto. Con il tempo l’ho ridimensionato anch’io ma tuttora certi brani dei Canti Orfici li trovo esaltanti. Penso per esempio all’incipit, che so a memoria:
RispondiElimina"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume, impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. "
In ogni caso è miglior poeta Campana di Papini (ottimo scrittore ma mediocre versificatore) e anche di Soffici (benché quest’ultimo fosse anche un buon poeta). Scusa la lunghezza del commento. Un caro saluto.
ciao ettore, ti ringrazio per l'ottimo commento
RispondiEliminaeffettivamente sono stato, diciamo un po' tanchant. però è questa l'impressione che ho avuto rileggendo dopo una trentina di anni i canti orfici. campana è forse stato il primo poeta di cui mi sono innamorato, quindi ne serbavo un'idea di vetta assoluta. il riavvicinamento a campana, fatto immediatamente dopo aver riletto per l'ennesima volta tutti i fiori del male, è stato molto deludente. da qui il post. devo dire però che ho trovato la parte in prosa migliore rispetto ai versi. comunque, anche se so che non è giusto fare simili paragoni, immergersi in baudelaire, essere intriso della sua poetica e poi passare ai versi di campana, può servire a comprendere il post
ora il livello si è di nuovo innalzato con derek walcott.. un sentito saluto
Anch'io dopo anni di suggestivi ricordi ho cercato i versi migliori di Campana. Per es: "nella sera d'amore di viola" (La Notte), la "veste rossa di fumi di rame" della luna (La Verna), "I riflessi sanguigni del tramonto" (Il Russo). Forse poteva fare di più, ma anche oggi i poeti non riescono a fare molto con i colori.
RispondiEliminaciao bruno,
RispondiEliminatra i versi io salverei 'salgo': l'acqua il vento/La sanità delle prime cose...' , la 'fantasia su un quadro d'Ardengo Soffici' e alcuni passaggi da 'la chimera' . comunque, ripeto, mi sembrano più interessanti le parti in prosa, che del resto anche tu citi.
articolo molto simile sul corriere della sera di ieri!
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