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mercoledì 1 luglio 2015

GREXIT

BREVE RASSEGNA STAMPA

Novembre 2011, non ieri


Sono anni ormai che sul caso Grecia i media strillano che si è giunti alle ore decisive, al punto di non ritorno. Usa questa espressione, “point of no return”, Paul Krugman nel suo ultimo editoriale sul New York Times. Secondo il principe degli opinionisti economici, l’euro è un “terrible mistake” e ciò che sta succedendo ad Atene è diretta conseguenza di quell’errore. Quindi, il popolo greco dovrebbe votare no al prossimo (?) referendum ed uscire dalla moneta unica, perché “The euro trapped Greece in an economic straitjacket”. Krugman fa poi l’esempio di due paesi, Canada e Islanda, i quali, grazie alla loro indipendenza monetaria, sono riusciti a superare una grave crisi. Giusto a titolo di inciso, il Canada è una grande economia ben organizzata e ricca di risorse naturali; l’Islanda è un paese di 300.000 abitanti con una consolidata tradizione di civismo anche economico: con il paese mediterraneo hanno poco a che fare. Per la Grecia, restare nell’Eurozona, conclude Krugman, significherebbe morire di austerità e, dal momento che il danno di un’eventuale Grexit si è già consumato negli ultimi anni, tanto vale uscire e riconquistare l’indipendenza.

Sul Guardian è un altro guru, Joseph Stiglitz, ad intervenire. Anche per Stiglitz il popolo greco dovrebbe votare no al prossimo (?) referendum, ma secondo lui il problema non riguarda tanto questioni economiche e di denaro quanto aspetti legati al potere e alla democrazia. La cura a base di austerità ha finito per peggiorare e compromettere le condizioni del paziente e i miliardi utilizzati per un salvataggio che non è mai avvenuto, sono serviti principalmente per pagare i “private-sector creditors, including German and France banks”. Per Stiglitz i creditori ufficiali (la Troika) non hanno necessità così impellenti di riavere il denaro prestato, quindi la rigidità mostrata ha un’altra motivazione. Il progetto euro, continua Stiglitz, non ha nulla di democratico, mentre la vittoria di Syriza è stata una grande affermazione di democrazia e molti dei leaders europei vorrebbero vedere soccombere Tsipras. Votare no significa, per la Grecia, riprendere il suo futuro nelle proprie mani.


Anche Bernard-Henri Lévy si auspica un’uscita della Grecia dall’euro, non sulla base dell’esito referendario, ma a seguito di una definitiva chiusura, da parte dell’Europa, delle trattative. Il filosofo francese, sul Corriere della Sera, esprime poi un giudizio durissimo sul leader greco, definito “un demagogo incendiario che sta portando il proprio popolo nel baratro”. 

giovedì 7 maggio 2015

LIBANO - SIRIA

OFFENSIVA HEZBOLLAH  
5 MAGGIO 2015



Tfail è un villaggio libanese che si trova in una lingua di territorio incuneata all’interno della Siria. Il confine, segnato solo sulle mappe, è a qualche centinaio di metri dalle case del villaggio. Zona grigia, enclave e terra di nessuno, con la guerra civile siriana quest’area ha visto intensificarsi scontri tra le varie fazioni in lotta e continui attraversamenti di confine. Soprattutto di milizie sciite che dal Libano portano attacchi ai rivali di Assad. 

In questa provincia occidentale della Siria sono attivi gli islamisti di Al Nusra, affiliati ad Al Qaeda. Si ripropone, per tanto, il solito scontro tra sciiti e alawiti da una parte e i sunniti dall’altra. Nel mezzo i circa duemila abitanti di Tfail. Isolati per diversi mesi, nell’ottobre del 2014 sono stati raggiunti da un convoglio della Croce Rossa libanese, dopo trattative che hanno coinvolto Hezbollah, leader sunniti, forze governative di Beirut e Damasco. Ma subito dopo l’intervento, gli scontri sono ripresi e hanno lasciato sul campo diverse vittime. 

L’ultimo di questi scontri porta la firma di Hezbollah. Due giorni fa, sono caduti, in un’imboscata, almeno una quindicina di miliziani di Al Nusra. Gli sciiti libanesi, secondo fonti della sicurezza di Beirut, riportate dal quotidiano The Daily Star, raggiunto Tfail hanno poi compiuto un’incursione in territorio siriano, nella provincia di Qalamoun, distruggendo una postazione qaedista. 

Lo stesso giorno varie unità di islamisti operanti nella stessa area siriana hanno annunciato, via Twitter, la formazione di una cellula dell’Esercito della Conquista,  gruppo nato da pochi mesi e in espansione nella galassia del terrorismo anti Assad.


 “By the grace of god, the Army of Conquest of Qalamoun has been established from the loyal and truthful members of most factions in Qalamoun,” il twit. La situazione siriana è sempre più complicata.

Milizie Hezbollah

martedì 20 gennaio 2015

Il JIHAD IN CLASSE

DOPO PARIGI - GENNAIO 2015


Sono anni che nelle mie classi affronto temi quali l’Islam, il Medio Oriente, il terrorismo islamista, l’islamofobia, la questione israelo-palestinese. I fatti di Parigi e la forte copertura mediatica ad essi dedicata  hanno scosso molto i ragazzi, i quali hanno manifestato l’esigenza di conoscenza. Il forte impatto iconico di alcuni momenti della cronaca degli ultimi mesi, quali le decapitazioni dell’ISIS, il Nobel per la pace a Malala, l’esecuzione sul marciapiede di Parigi, lo slogan virale je suis Charlie,  ha suscitato interesse e voglia di approfondimento in alunni altre volte passivi e annoiati.
In questi giorni ho affrontato l’argomento partendo dalla lettura ed analisi di un articolo di Tahar Ben Jelloun, il quale, secondo me, già dal titolo, possiede una carica dirompente in quanto rovescia l’idea corrente e fa degli islamici le prime vittime della violenza jihadista. Infatti, subito alla lettura del titolo, si sono alzate le mani per intervenire. 

Ecco l’articolo come è stato presentato in classe su grande schermo.



venerdì 26 dicembre 2014

PETROLIO

IL PREZZO DEL PETROLIO


Quali sono le intenzioni dell’Arabia Saudita? Gli sceicchi sauditi detengono le più importanti risorse/riserve di idrocarburi del pianeta e sono loro che comandano in un’ OPEC che sta perdendo quote nel mercato mondiale del greggio.

Oggi l’OPEC fornisce una quota pari al 40% del mercato globale, in discesa rispetto all’oltre 50% di qualche tempo fa. Nonostante il ridimensionamento, non c’è dubbio che il ministro del petrolio saudita, Ali al Naimi, sia di fatto colui che stabilisce le politiche dell’ancora potente cartello dei paesi esportatori. E Ali al Naimi, all’ultima riunione OPEC del novembre scorso, ha imposto di non tagliare la produzione, innestando un continuo ribasso del costo del petrolio, sceso sotto i 60 $ al barile.

Sono in molti a sedere al tavolo da gioco, difficile capire quali siano le carte in mano ai vari giocatori. Tra gli OPEC, chiara è la posizione dei sudamericani e degli africani.

Il Venezuela ha un indebitamento eccessivo che avrebbe bisogno di un petrolio ad oltre 150$ per non aver problemi di sostenibilità del proprio bilancio. Ancora qualche mese agli attuali livelli e mantenere il potere, per Maduro, potrebbe diventare un serio problema.

La Libia è quasi un ghost-state in cui non si sa quello che accadrà il giorno dopo e chi ricopre attualmente ruoli decisionali ha tutto l’interesse a incassare subito valuta estera.

La Nigeria è un mix dei due stati precedenti. Ha problemi di debito e l’unità statale è messa in discussione dagli integralisti del Nord del Paese. Ha assoluto bisogno di denaro e spinge anch’essa per un taglio della produzione.

I ‘piccoli’ del Golfo, nel breve periodo, non hanno grossi problemi. Bilanci stabili, hanno accumulato ampie riserve in oro e valute forti quindi possono permettersi di stare al gioco dell’Arabia Saudita.

Più complessa la situazione di Iraq e Iran. Qui entrano in gioco diverse variabili quali l’ISIS, i curdi e il ruolo dei moderati sunniti iraqeni e il loro rapporto con gli sciiti di entrambi i paesi. Delicata la posizione dell’Iran, colpito dalle sanzioni ma anche per questo meno vulnerabile perché ha riserve che non sa a chi vendere, quindi per Teheran il problema del prezzo del petrolio è al momento secondario rispetto ad altre priorità come quella di rientrare in scena, magari proprio grazie all’ISIS.

E l’Arabia Saudita? Mantenere stabile la produzione e puntare sul ribasso dei prezzi ha, nel medio periodo, innegabili vantaggi per gli sceicchi di Ryad:

non perde quote di mercato in un contesto in cui, grazie ai forti investimenti degli anni scorsi, è aumentato il numero dei potenziali concorrenti per l’approvvigionamento;

→ mette in crisi il principale competitor non-OPEC, la Russia e gli effetti del petrolio a basso prezzo si sono subito fatti vedere a Mosca. Senza considerare che il costo di estrazione del petrolio russo è molto alto e quindi necessita di un prezzo al barile ben superiore di quello attuale;

→ tiene sotto scacco il rivale storico, l’Iran e se non intervengono fattori esterni rispetto all’energia (vedi nucleare e ISIS) con il prezzo intorno ai 60$ nessuno è interessato al petrolio invenduto degli ayatollah;

→ può continuare a tenere una condotta ambigua nelle relazioni con gli USA. Se da un lato la posizione dei sauditi indebolisce tre ‘nemici’ degli USA (Russia, Iran e Venezuela), dall’altro però può mettere in crisi l’utilizzo degli shale oils, per i quali sono stati investiti ingenti capitali negli anni scorsi e che stanno riportando gli USA verso l’autosufficienza energetica ma che un prezzo così basso li renderebbe non competitivi.

Per quanto tempo i sauditi riusciranno a guidare il gioco?




lunedì 30 giugno 2014

STATO ISLAMICO DELL'IRAQ E DEL LEVANTE

CALIFFATO DI DĀ’ISH - GIUGNO 2014

Milizie dell'ISIS dalla Siria verso l'Iraq, gennaio 2014 - foto AP/dpa bild.de


È stato proclamato il Califfato  dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis, in arabo Dāʻish). Da mesi la frontiera tra Iraq e Siria era di fatto inesistente. Da mesi i gruppi sunniti in lotta con Assad acquartierati nella città siriana di ar-Raqqah  operavano insieme ai qaedisti iracheni. Ad inizio 2014 insieme hanno dato vita alla reconquista dell’Iraq, culminata con l’espugnazione di Mossul. I kurdi confinati a nord nel territorio di Kirkuk, gli sciiti arroccati sulla linea di Baghdad, gli islamisti hanno avuto vita facile. 
Sul loro cammino hanno razziato e sparso sangue con furore medievale, intanto continuavano ad arrivare finanziamenti dal Golfo in funzione anti Teheran.  Obama ha riallacciato i rapporti con gli Ayatollah ed ha ufficialmente inviato qualche centinaia di Advisors assieme al segretario di Stato John Kerry. Tony Blair ha fatto discutere con una presa di posizione coraggiosa che rivendicava l’opportunità della guerra contro Saddam e l’inopportunità della politiche di Obama in Iraq. La totale assenza dell’Occidente ha portato ad un nuovo disastro e questa volta le conseguenze sono effettive. Proviamo a schematizzare:

per la prima volta da quando nel 1967 Israele ha ridefinito i confini del proprio stato, sono saltate le frontiere tra due stati sovrani stabilite dalla comunità internazionale;

il jihadismo sovranazionale ha una base territoriale ampia e pienamente controllata;

il territorio  del Califfato è ricco di enormi riserve di idrocarburi e controlla le rotte del petrolio via terra che vanno dal Golfo al Mediterraneo e alla Turchia;

il Califfato si presenta come un detonatore pronto ad innescare reazioni a catena in Libano, Giordania, Palestina;

migliaia di jihadisti da tutto il mondo sunnita stanno accorrendo verso il Califfato per sostenere la causa islamista e ciò creerà una nuova fratellanza nel nome del terrore come già accaduto nell’Afghanistan ‘sovietico’;

l’Isis ha allargato la frattura interislamica.

Questo per restare entro i limiti del perimetro geopolitico della questione, aggiungendo soltanto che esiste anche l’angoscioso fatto delle migliaia di morti e dei milioni di profughi.

Nella sua analisi Blair faceva notare come nei confronti del Medio Oriente l’Occidente non abbia avuto una linea chiara e univoca:

Iraq: abbattimento del regime con invio si truppe sul suolo e tentativo di ricostruzione politico-istituzionale del paese (con prematuro ritiro della presenza di truppe americane e appoggio di un governo settario come quello di al-Maliki).

Libia: abbattimento del regime senza la presenza di eserciti stranieri nel paese e nessun tentativo di regime-change ( il risultato è stata l’instabilità politica interna e l’esportazione dell’instabilità oltre confine, vedi Mali).

Siria: nessuna azione da parte dell’Occidente, guerra civile permanente e nascita dell’Isis con tutte le conseguenze citate.


Non c’è da stare tranquilli.

Carta da The Economist, giugno 2014

mercoledì 28 maggio 2014

ELEZIONI EUROPEE 2014

GEOGRAFIE ELETTORALI


Dopo l’ubriacatura di cifre e commenti solo un riepilogo ‘spaziale’ dei risultati dei tre principali partiti. Per la prima volta nell’Italia repubblicana, la distribuzione territoriale del voto, può essere definita nazionale. Era già successo con il voto M5S alle politiche del 2013, molto uniforme in tutte le regioni, con PD circoscritto alle solite regioni rosse appenniniche e il PDL più forte al Nord e al Sud. Queste elezioni tendono ad attenuare le differenze tra le tre Italie della Seconda Repubblica (Lega-Forza Italia al Nord; Sinistra-Centro in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche; Forza Italia-Centro Destra al Sud). Il PD è il primo partito in tutte le regioni. Restano connotazioni regionali ma mai come dopo questo turno elettorale l’Italia si ritrova così unita ed omogenea. Elettoralmente parlando…


Voto al PD




Voto al M5S


Voto a FI

domenica 25 maggio 2014

SINISTRA LIBERALE E RADICALE


Europee, i Radicali non partecipano al voto 
Ma finché ci sono loro c’è speranza

Pubblicato da Piero Sansonetti in ‘gli Altri’ il 23 maggio 2014  


Mentre cala il silenzio elettorale e si aspetta l’esito della sfida a tre – fra Renzi, Grillo e Berlusconi – i radicali restano fuori dal voto. E così si realizza il paradosso che, se vuoi parlare di politica, devi uscir fuori dalla contesa elettorale. La politica ufficiale, di Palazzo, è tutta racchiusa in una sfida personalistica, di abilità comunicativa, fra tre leader privi di programmi e di valori ideali; la politica marginale trova sbocco nell’attività radicale che pone sul tappeto grandi questioni come la giustizia, i diritti, il carcere, l’amnistia, la lotta al giustizialismo, il ripristino dello stato di diritto.
Tutto ciò è ancora più paradossale se si pensa che fino a vent’anni fa l’impressione, nell’opinione pubblica, era esattamente opposta alle sensazioni di oggi: c’era Pannella, istrione, grande comunicatore, maestro della politica spettacolo – e che per questo veniva criticato da tutti – contrapposto alla tetraggine delle burocrazie e degli anonimi apparati collettivi di partito.
Come è avvenuta questa metamorfosi? Bisogna tenere conto di tante cose. La prima – essenziale – è quella che ci interessa oggi: non è vero che negli anni ottanta la contrapposizione fosse tra “l’istrione” e “il collettivo” . Succedeva semplicemente che la grande politica dei partiti di massa era sorda alla modernità delle questioni che il partito radicale gettava nell’arena della lotta politica, non riusciva a sentirle né a vederle, e perciò reagiva concentrando lo sguardo sui metodi clamorosi e nuovi, di lotta politica, inventati da Pannella, senza accorgersi della modernità della lotta politica che proponeva. La modernità dei contenuti. Provate oggi a correre con la memoria a quegli anni. Il divorzio e poi l’aborto, la lotta alla fame nel mondo, i diritti dei soldati, dei carcerati, degli omosessuali, delle donne, la battaglia antiproibizionista, l’antimilitarismo… Come si faceva a pensare che fossero questioni marginali, e che nessuna battaglia politica potesse essere condotta – a sinistra – se non in funzione dei diritti sindacali, oppure – a destra – senza rispettare i principi del cristianesimo Vaticano o della grande ideologia conservatrice e post fascista (ordine, disciplina, merito, rispetto)?
I partiti politici di massa, in quegli anni, non colsero in nessun modo il radicalismo profondo del partito radicale. Non capirono che era un radicalismo di sostanza e non di forme, e che poneva due grandi questioni: entrare a pieno titolo nella modernità ed entrare nella democrazia compiuta. Perché in quegli anni, la modernità era considerata un disvalore, e nessuno vedeva i limiti della “democrazia realizzata” con lo Stato Repubblicano e la necessità di farle compiere un salto in avanti, superando le paure, le ragioni di stato, le burocrazie, i barocchismi, gli ideologismi. Paure di che? Semplicemente della libertà. La macchina politica – socialmente formidabile – della prima Repubblica, lodava la libertà ma la temeva, riteneva che avesse bisogno di un involucro, di un sistema collettivo di limitazione e di organizzazione. Amava la libertà organizzata e finalizzata, non concepiva nemmeno la “libertà libera”.
Allora, probabilmente, nacque una frattura profondissima tra politica e modernità. E quella frattura portò la politica a vivere in una dimensione che era interamente interna “al patto di Yalta” e ai suoi automatismi. Caduta l’Europa di Yalta, nell’89, e caduti gli automatismi, la fortezza della politica si sgretolò e fu divorata, in pochi mesi, da nuovi poteri – molto più moderni e molto più spregiudicati, e molto più feroci – tra i quali, prima di tutto, il potere giudiziario.
La crisi politica di oggi nasce da lì. Da quegli errori. E la seconda Repubblica è venuta su riproducendo tutti gli errori della prima. Né la destra di Berlusconi, né la sinistra di Prodi, né quella di D’Alema, né la sinistra radicale, si sono davvero posti il tema dell’ingresso nella modernità. E cioè la necessità di uno sviluppo della civiltà in senso liberale, fuori dagli automatismi del socialismo e fuori dagli automatismi del mercatismo. Anzi, la nuova classe politica ha cercato una mediazione tra socialismo e mercatismo, immaginando che fosse quella mediazione – e dunque la moltiplicazione di difetti e sciagure – la porta per entrare nella modernità.
Così oggi ci troviamo dinnanzi alla politica-immagine, al solito governo di emergenza, e alla presunta opposizione – i grillini – incapace di indicare la prospettiva di una società diversa da quella autoritaria e fondamentalista che è nella mente del loro leader. Mentre la destra berlusconiana e la sinistra renzista non sanno a trovare fra loro nessuna differenza che non sia una differenza nella scelta del personale e del ceto dirigente.

E al margine di questo circo, che ha tirato a fondo e quasi annullato la democrazia politica, resta il drappello coraggioso dei radicali. Ce la faranno? Non so: so che finché loro esistono esiste anche la speranza.

giovedì 22 maggio 2014

ISLAM E DEMOCRAZIA

LIBIA, 19 MAGGIO 2014

Tripoli, 19 maggio 2014. Truppe armate nei pressi del Parlamento. Foto AP

La questione è di quelle che fanno tremare vene e polsi. La democrazia è un bene in assoluto, anche per comunità che nella loro storia non l’hanno mai conosciuta? La domanda è tornata ad imporsi dopo i recenti fatti di Libia ma essa si ripresenta regolarmente in riferimento al mondo islamico a partire dai fatti algerini del 1991.

In quell’anno infatti vennero indette, per la prima volta dall’indipendenza, libere elezioni. Fatto eccezionale in un paese arabo-islamico. L’Algeria aveva un passato recente di stato socialista, militare e laico e in quei giorni la rinascita islamista sembrava dovesse essere circoscritta molto più ad oriente che non lungo le coste del Mediterraneo. Focolai mascherati da resistenza anti sovietica si stavano consolidando in Afghanistan, di fatto ignorati, se non alimentati, dall’Occidente. Il pericolo dichiarato era l’Iran Khomeinista, contro il quale si confidava nell’alleato Saddam Hussein per alzare un firewall che impedisse un’eventuale esondazione islamista verso ovest. In Egitto la fratellanza musulmana era tenuta sotto le sabbie del deserto dai militari, quindi l’Islam integralista era del tutto ignorato. Destava semmai più preoccupazione l’Islam marxista, libico o palestinese che fosse. Quindi grande chance per la democrazia in Algeria ma la vittoria al primo turno delle elezioni nel dicembre del 1991 del Fronte Islamico di Salvezza coincise con la reazione dei militari e con l’inizio della guerra civile.

Da allora la democrazia non ha fatto alcun passo avanti nel mondo arabo-islamico mentre diventava questione all’ordine del giorno l’irresistibile ascesa dell’islamismo e della conseguente minaccia terroristica. Dopo l’11 settembre venne costruita la strategia mediatica dell’Asse del male formato dagli stati canaglia da affiancare agli attacchi all’Afghanistan prima e all’Iraq poi. Strategia che venne successivamente declinata verso il ‘nation building’, una sorta di esportazione della democrazia da parte dei buoni e giusti che non solo non è riuscita ancora a mettere salde radici nei paesi coinvolti ma ha accentuato la contrapposizione tra civiltà.
Si giunge così alla fine del 2010 e allo scoppio della Primavera araba, salutata come l’affermazione della libertà contro i regimi autoritari e come la rivoluzione dei giovani digitali contro le gerontocrazie militari. I risultati di quella ‘emancipazione popolare’ sono davanti agli occhi. Dove ci sono state elezioni, si sono affermati i partiti islamici: Partito Libertà e Giustizia (Fratelli Musulmani) in Egitto, Enneahad in Tunisia. Nello Yemen, dopo la caduta del presidente Saleh nel 2012,  non sono state ancora indette elezioni ma è sempre più forte il partito islamista AQAP.

Per la Libia il discorso è diverso e i fatti degli ultimi giorni sono emblematici. Decapitato il regime di Gheddafi grazie all’intervento armato esterno, il paese nordafricano ha assunto quasi lo status di protettorato nel quale dovevano essere garantiti gli interessi derivati dallo sfruttamento degli idrocarburi. Una democrazia fittizia, retta più che da un partito da un comitato d’affari, l’Alleanza di Forze Nazionali, con la fratellanza musulmana libica in forte crescita. Proprio per contrastare l’ascesa del Partito islamico il 19 maggio scorso si è svolto un film già visto. I militari sono intervenuti prima a Bengasi con un blitz armato contro gli islamisti poi a Tripoli dove il colonnello Fernana ha annunciato in tv la sospensione dei lavori parlamentari.

Per chiudere il cerchio, gli islamisti probabilmente vincerebbero anche in Siria una volta eliminato Assad mentre il caso di Gaza è sotto gli occhi di tutti e West Bank si mantiene relativamente moderata grazie al sostegno economico occidentale.

Per tornare alla domanda iniziale, il problema è che il concetto di stato laico è estraneo alle masse popolari arabo-islamiche anche se per anni è stato travisato dai militari al potere  in un contesto di bipolarismo USA-URSS. Oggi le popolazioni arabo-islamiche sono sempre più lontane da una cultura democratica di tipo occidentale, cosa che noi occidentali non vogliamo capire e che continuiamo ad auspicare persistendo ad interpretare tutto secondo un paradigma eurocentrico. Va da sé che in una condizione di possibilità di esprimere liberamente il proprio voto, in un qualsiasi paese arabo-islamico i portatori di istanze laiche e democratiche sono ineluttabilmente destinati a soccombere.

Islamisti libici. Foto Mohammad Hannon/AP



domenica 16 marzo 2014

ITALO TONI / GRAZIELLA DE PALO

BEIRUT - 2 SETTEMBRE 1980





La DC al governo, uomini di punta Andreotti e Moro, molto attivi nelle relazioni internazionali. Negli anni ’70 l’Italia, a causa della sua posizione geografica, si ritrovava ad essere uno dei crocevia dei due più importanti affaires di politica estera: il conflitto freddo Est-Ovest e il conflitto armato arabo-israeliano. In quest’ultimo la linea seguita dall’Italia era quella filo-araba.

Democrazia Cristiana e Partito Comunista hanno sempre guardato con diffidenza a Israele. La sinistra collegava la nazione ebraica all’imperialismo americano mentre più pragmaticamente le volpi democristiane avevano molto più da guadagnare stabilendo canali ufficiali e non con gli arabi. C’era di mezzo il petrolio ma c’era anche il proposito di concordare con i palestinesi una pax duratura, il così detto Lodo Moro, che evitasse di coinvolgere l’Italia negli attacchi terroristici tipo Monaco ’72. Di fatto l’OLP aveva nell’Italia l’alleato più sicuro dell’Europa occidentale, potendo contare sia sulle forze governative che su quelle di opposizione, anche extraparlamentare.

Il 13 aprile 1975 dei palestinesi uccidono a Beirut il leader dei falangisti cristiani libanesi Pierre Gemayel. È l’inizio di una serie di vendette incrociate che scateneranno la guerra civile nel paese levantino che finirà soltanto nel 1991. Il Libano diventa teatro di scontri tra le numerose fazioni interne e che ben presto vedrà la partecipazione dei paesi vicini. Siria, Israele, Paesi del Golfo, Iran e le principali reti di intelligence del mondo.

A Beirut si incrociano petrodollari sauditi, finanzieri londinesi, gli interessi della ricca diaspora libanese, trafficanti di armi e droga. Come sempre in Medio Oriente, gli affari si legano alle divisioni etnico-religiose e politiche, nella cornice più ampia del bipolarismo e della rivalità tra sovietici e americani.

È in questo contesto che il 22 agosto del 1980 giungono a Damasco, destinazione Beirut, due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Palo. Lui esperto corrispondente dai luoghi caldi per Paese Sera, conoscitore del Libano con un non meglio precisato incarico presso il Ministero degli Interni; lei giovane ed entusiasta pubblicista che aveva sposato la causa palestinese. L’intenzione era quella di seguire la pista del traffico di armi e di droga sulla rotta Beirut-Damasco.

Le due capitali distano qualche ora di auto, la strada attraversa la regione della Beqaa, fertilissima valle coltivata a oppio e cannabis. Il confine Siria-Libano, allora come oggi, era il luogo giusto per reporter  a caccia di scoop. Come lo era il sud del Libano con i campi-profughi palestinesi.

Il 24 agosto i due italiani sono a Beirut e iniziano a muoversi cercando contatti con i vari gruppi militarizzati attivi nella città, in particolare nella parte ovest, quella controllata dai palestinesi. La mattina del 2 settembre 1980 hanno un appuntamento. Escono dall’hotel dove risiedono e salgono su un’auto. Da quel momento di Italo e Graziella non si avranno più notizie.

Come da copione si verificheranno depistaggi, interventi dei servizi segreti italiani e esteri, di massoni maroniti e perfino del generale del Sismi Santovito, legato a Licio Gelli. Con lo Stato italiano non certo pronto a collaborare e che anzi farà di tutto per chiudere la vicenda e avvolgerla in un silenzio tombale.


Ancora oggi la verità e la giustizia sono lontane e sempre più difficili dall’affiorare. Si possono soltanto fare ipotesi. Quella più verosimile è che Toni e De Palo siano finiti nelle mani degli estremisti del Fronte Popolare Liberazione Palestina, scambiati per spie israeliane o forse testimoni di qualche verità compromettente.  La causa palestinese non poteva essere screditata come non poteva essere messo in discussione il Lodo Moro da parte dello Stato italiano.  Da qui la probabile eliminazione dei due scomodi giornalisti.

Il Libano nel 1982, ai tempi dell'occupazione israeliana chiamata
'Operazione Pace in Galilea'. Cartina da Frigidaire, n. 32-33 estate 1983

giovedì 13 marzo 2014

LIBANO

PRIMAVERA DI GUERRA?


 19 Febbraio 2014. Bomba presso centro culturale iraniano a Beirut. Reuters


La guerra civile in Siria sta trascinando nel caos anche il vicino Libano. Come altre volte nella storia recente, instabilità esterne provocano ripercussioni nel piccolo paese di monte e di mare che, nonostante tutto, trova sempre il modo per rilanciarsi. Questo grazie ad una tradizione mercantile e borghese che negli altri paesi arabi troppo spesso è stata sopraffatta da invadenti ideologie, laiche o religiose che fossero. 

All’interno del mondo arabo il Libano è infatti per molti aspetti un’eccezione. A volte considerata come il fiore all’occhiello, altre blasfemo esempio da condannare. E comunque i libanesi hanno un innegabile istinto per il business. Possiamo trovare uomini d’affari di Beirut o di Tripoli tra i finanziatori di imprese impossibili dall’America Latina all’Africa Subsahariana per citare luoghi diversi dai soliti financial hubs di Londra o Singapore. Tanto per fare qualche esempio, l’uomo più ricco del mondo, secondo Forbes, è il messicano di origine libanese Carlos Slim. Oppure i boss di Swatch, Chiquita, Nissan e Renault. Ma che paese è il Libano e perché dall’estate del 2013 sempre più attentati sconvolgono la costa dei cedri?

Intanto va chiarito che il Libano è un paese di lingua araba ma dal punto di vista etnico-religioso le cose sono un po’ più complicate tanto complicate che ci si chiede come possa esistere un’identità nazionale in una tale nazione-mosaico. Ci si chiede anche quanta differenza passi tra un druso siriano di Sweida e un druso libanese della Beqaa o, per contrasto, quanto simili siano uno sciita di Tiro e un maronita di Batroun. Ma questi sono interrogativi che solo un “esterno” può porsi.

Comunque l’anarchia siriana sta producendo un milione di profughi in libano, paese che non raggiunge i cinque milioni di abitanti tra i quali vivono ancora oggi centinaia di migliaia di palestinesi rifugiati dal post-1948.

Ed ecco che, dopo la guerra civile, l’occupazione siriana, gli interventi israeliani, gli attentati devastanti, proprio quando si sperava che i libanesi potessero tornare a godersi i caffè del lungomare e a riallacciare i loro contatti commerciali internazionali torna l’incubo del caos prezzolato. Si colpisce il quartiere sciita di Beirut, Hezbollah fa fuori personalità sunnite. Esplodono autobombe davanti all’ambasciata di Teheran, gli sciiti rispondono con gli šuhadā suicidi. E la frontiera tra Beirut e Damasco viene continuamente attraversata nei due sensi da profughi, qaedisti, consiglieri iraniani, falangisti assoldati dal Mossad. 

Perché la storica rivalità religiosa sta tornando a livelli di massimo allerta. Gli sciiti libanesi appoggiano il dittatore siriano Assad che appartiene alla setta sciita degli alawiti, mentre i ribelli siriani sono in prevalenza sunniti e ricevono aiuti dai sunniti libanesi. Dalla scorsa estate sono tornati gli attentati a Beirut, dietro ai quali, oltre alle divisioni interne, si stanno intrecciando fili che portano lontano, oltre confine: Iran, Siria, alcuni Stati del Golfo.


Da circa  un mese si è insediato un nuovo governo, a prevalenza sunnita ma con appoggio di cristiani e sciiti, il cui compito principale è quello di garantire la sicurezza nazionale, con un occhio oltre il confine est, verso Damasco.

Carta elaborata da Michael Mehrdad Izady, Columbia University


martedì 26 febbraio 2013

ELEZIONI POLITICHE 2013 - RISULTATI

GEOGRAFIA DELLE POLITICHE
CAMERA


Divertirsi con i risultati delle politiche.

Sintesi:

sconfitta del Centro Sinistra e di Bersani. Dovrebbe dimettersi; rispetto alle politiche 2008, alla Camera, la coalizione passa da oltre 13 milioni di voti a 10 milioni

tracollo Centro Destra. Rispetto alle politiche 2008, sette milioni di voti persi. Anche considerando più di 2 milioni e mezzo di votanti in meno si tratta di una bella botta. Vittoria personale di Berlusconi che centra l’obiettivo di restare in gioco come interlocutore di peso.;
 
trionfo Cinque stelle. La cosa che impressiona è la regolarità dell’affermazione su scala nazionale;

flop dei centristi e bruciatura di Monti;

viene replicata la scomparsa dei comunisti, salvi solo grazie a Bersani;

finalmente spazzati via i giustizialisti;

amarezza per la scomparsa di liberali e radicali.
 

 Primo partito per provincia alla camera dei Deputati.

 
Azzurro PDL (VA ad Aosta)   Giallo M5S,  Rosso PD (SVP in Alto Adige),  Verde Lega

domenica 24 febbraio 2013

ELEZIONI POLITICHE 2013

PREVISIONI O VATICINI

Prima mattina con grossi fiocchi di neve ora qualche raggio di sole sulla giornata elettorale. Provo ad indovinare i risultati elettorali, basandomi su certe sensazioni che provengono dagli umori individuali e collettivi che fluttuano a mezz’aria sul nostro paese. Niente sfera di cristallo, ancor meno i miei vecchi tarocchi di Marsiglia; niente commenti sui media e manco sbirciate ai siti ticinesi. Puro divertimento. Poi, a conti fatti, altro divertimento per il riscontro.

Allora, da destra a sinistra, in percentuale:

PDL 19
Lega  5
Altri   5  totale  C.D.  29


Scelta Civica  9
Altri  3   totale Monti  12

 
PD    30
SEL    3
Altri    2  totale  C.S.   35


Rivoluzione Civile   3


M5S    17


Altri      4


Provo anche a sbilanciarmi sui voti regionali

 

Per quanto mi riguarda, ma la cosa non interessa a nessuno, sono ancora incerto tra le seguenti opzioni, in ordine di preferenza:  AmnistiaGiustiziaLibertà; PD; Fare; MIR.

 

domenica 20 gennaio 2013

GUERRA IN MALI

SULL' INTERVENTO FRANCESE


Islamisti nel Nord del Mali, TheNewYorkTimes


La questione è di quelle che tendono a spaccare l’opinione pubblica: potenze straniere possono intervenire militarmente contro regimi di Paesi sovrani per scopi definiti umanitari? In anni recenti anche in Italia si è molto dibattuto sui casi della Serbia, della risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre, della Libia. Siamo quasi tutti d’accordo che giungere a soluzioni pacifiche sia l’opzione migliore in assoluto ma ciò non è sempre possibile. La risoluzione di certe emergenze è molto complessa e divisiva ma proprio perché si tratta di emergenze la comunità internazionale ha il compito di agire e se la diplomazia e la politica falliscono è necessario trovare altre soluzioni, anche se dolorose.

Due di queste situazioni si stanno svolgendo da molti mesi sullo scenario globale. Da due anni ormai la Siria sta autodistruggendosi senza che la comunità internazionale  riesca o voglia attivarsi per un’azione che ponga effettivamente fine al quotidiano massacro. 
L’altro caso al centro in questi giorni dei media mondiale è il Mali. Da quasi un anno il Paese sahariano vive una guerra civile che ha portato alla divisione dell’unità nazionale con la proclamazione di uno stato autonomo, l’Azawad, nella parte settentrionale. Islamisti associati ad al-Qaeda, bande di predoni specializzati in narcotraffico e sequestri di occidentali, mercenari e trafficanti di armi hanno trovato occasione e  appoggio nelle rivendicazioni del popolo Touareg che da decenni combatte le autorità di Bamako.
La destabilizzazione seguita alle Primavere arabe e soprattutto alla caduta del regime libico ha reso esplosivo non solo il Mali ma tutta l’Africa Nord Occidentale. Ignorato per molti mesi, il pericolo rappresentato dalla costituzione di una roccaforte jihadista tra Sahara e Sahel, ha iniziato a preoccupare, oltre che alcuni paesi africani, anche la Francia, orfana della grandeur coloniale e inquieta a causa delle conseguenze che tale focolaio possa rappresentare per l’assetto geopolitico regionale, in primis per Algeria e per l’ancora instabile Libia post-Gheddafi. E lasciando da parte ciò che sta accadendo nella Nigeria settentrionale… Di fronte alla totale assenza di dibattito internazionale sulla questione, il governo del socialista – pacifista – Hollande ha deciso di intervenire. Questo il quadro.

Alcune considerazioni.

A differenza che in Siria, la Francia non ha coinvolto altri paesi o istituzioni internazionali ed in ‘solitudine’, come ha commentato la stampa francese, ha inviato i militari. L’impressione suscitata è che la Francia consideri ancora l’Africa Nord Occidentale come questione nazionale o addirittura neocoloniale, in questo caso va rimarcata la continuità del governo Hollande con il precedente governo Sarkozy.

L’impegno al momento sembra sia stato programmato come circoscritto geograficamente, di breve durata e con un limitato numero di forze impiegate ma il sequestro dell’impianto petrolifero in Algeria ha immediatamente allargato il perimetro di guerra.

Il radicamento di un potere islamista qaedista su un territorio molto vasto con istituzione di autorità politiche e non più soltanto la presenza di cellule terroristiche più o meno clandestine e aterritoriali rappresenta una minaccia per tutto il mondo, e ciò non può ridursi a un fare i conti, per la Francia, con il proprio ruolo e con il proprio passato storico. Il problema deve essere condiviso.


Ha fatto bene il governo italiano ad appoggiare la Francia e ha fatto bene il futuro primo ministro Bersani a schierarsi con il compagno Hollande. Ancora una volta è però venuta a mancare una comunione di vedute con l’ala che fa riferimento a Vendola che subito ha condannato l’intervento francese, facendo riemergere le contraddizioni, anche in politica estera, di una coalizione che si propone agli italiani come forza di governo.

 

Truppe francesi lasciano Bamako, CNN
Ambasciata francese a Londra, CNN

lunedì 26 novembre 2012

GEOGRAFIA DELLE PRIMARIE

PRIMARIE CENTRO SINISTRA
25 NOVEMBRE 2012

 

In rosso vittoria Bersani
In blu vittoria Renzi
In viola vittoria Vendola

dati ufficiali PD, elaborazione grafica eustaki

giovedì 28 giugno 2012

RIMBAUD E IL JIHAD NEL DESERTO

MALI / AZAWAD - 2012

                            fonte: twitpic


 
Le frontiere azzurre tracciate sulle carte dall’uomo bianco hanno ripartito il popolo touareg tra stati diversi. Ma nel deserto, si sa, le frontiere sono mobili e nell’area compresa tra i massicci dell’Ayăr, del Tassili n'Ajjer e l'Adrar des Ifoghas pur divisa tra Algeria, Mali, Niger fino ad un breve lembo di Libia, i vari popoli si sentono parte di un’unica nazione, l’Azawad.
Il 22 marzo scorso il presidente del Mali, Amadou Toumani Touré è stato deposto a seguito di un colpo di stato ad opera di forze militari che hanno dichiarato la costituzione di un Comitato Nazionale per la Restaurazione della Democrazia e dello Stato (CNRDR).
Il 6 aprile, dopo alcuni giorni di scontri, viene dichiarata, da parte del MNLA(Movimento Nazionale Liberazione Azawad) la nascita dello Stato Indipendente dell’Azawad, corrispondente alla parte settentrionale del Mali.
Questi i crudi fatti e questi alcuni riferimenti per le fonti: Al Jazeera, The Guardian, BBC, The Economist, i documentatissimi articoli di Serge Daniel, i comunicati del MNLA.
Qualche considerazione non sistematica…
La situazione in Mali si è destabilizzata a seguito del cambio di regime in Libia. Molti tuareg costituivano parte consistente delle forze mercenarie assoldate da Gheddafi. Con la fine del colonnello centinaia di questi uomini blu carichi di armi sono fuoriusciti dalla Libia e sono tornati nei loro luoghi di origine, in particolare in Mali, transitando per l’Algeria.

In Algeria hanno sempre trovato rifugio esuli maliani che tra le gole dell’Haggar hanno intrecciato rapporti con gruppi islamisti locali, soprattutto con il principale di essi, quell’ Aqmi dello sceicco Abdelmalek Droukdel specializzato in sequestri di occidentali.
Resistenza Azawad interna, bande di mercenari rientrati dalla Libia, gruppi islamisti facenti riferimento al leader carismatico Iyad Ag Ghaly, schegge incontrollate dell’esercito maliano, tutti fattori che hanno determinato il caos nel Paese  sahariano che ha portato al colpo di stato, alla secessione del Nord, alla guerra civile.
L’iniziale alleanza tra i ‘moderati’ dell’MNLA e i fondamentalisti del gruppo Ansar al-Din di Ag Ghaly ha retto poche settimane. Ad oggi, infatti, i due principali punti di riferimento dell’Azawad hanno rotto l’accordo. La causa sembra essere stata la questione della sharia, la legge islamica che Ag Ghaly vuole imporre in Azawad e che non trova d’accordo i più laici touareg dell’MNLA.
… e qualche divagazione.
Il nome del presidente deposto, Amadou Toumani Touré è, per me, significativo. Amadou, come il cantante e musicista cieco che fa coppia con Mariam. Toumani, come l’amatissimo maestro griot Diabaté. Touré, come il rimpianto bluesman del deserto Ali Farka.
Il Mali si ritrova spaccato in due, che poi è la storica divisione etnico-culturale del Paese. Musicalmente, l’anima touareg settentrionale è incarnata dai Tinariwen. Il leader del gruppo, Ibrahim Ag Alhabib, ha condiviso le esperienze di molti touareg, ed ha vissuto, da esiliato, a cavallo di quelle frontiere al tempo stesso reali ed inconsistenti, di cui si parlava all’inizio.
Il sud è il regno della kora e dei suoi maestri, che si trasmettono l’arte dello strumento a corde da generazioni, come i Diabaté e i Sissoko.

Le frontiere azzurre sono un riferimento a Les Douaniers di Rimbaud


Soldats, marins, débris d'Empire, retraités,
Sont nuls, très nuls, devant les Soldats des Traités
Qui tailladent l'azur frontière à grands coups d'hache.



Abdelmalek Droukdel, Aqmi



 Iyad Ag Ghaly, Ansar al-Din



Mahmoud Ag Aghaly, portavoce MNLA
 

 
Amadou Toumani Touré