cinema

giovedì 27 dicembre 2012

BEST ALBUMS 2012

2012 - UN ANNO DI ASCOLTI


Bilanci di fine anno. Cinematograficamente un vero disastro. Fortuna che c’è la musica.
1.Channel Orange – Frank Ocean


The best song wasn’t the single, canta Frank e qui è veramente difficile scegliere quale sia la migliore canzone. Tutti i pezzi sono all’altezza e il risultato è superiore alla somma delle parti.

 
2.Love This Giant – David Byrne & St. Vincent
 
Poteva essere un disco sofisticato e saccente ed invece , dopo tre anni di gestazione, la strana coppia – fantastica la foto di copertina – realizza una bomba di intelligenza, freschezza e imprevedibilità. Irresistibile.
 

Doppio CD e doppio merito. Il primo merito è di avere reinterpretato un capolavoro commovente come quello di Nico, e questo basterebbe. Il secondo è quello di ricordare un amico con musica di stampo TG ai massimi livelli.
 
4.At Peace – Ballaké Sissoko

Pace è ciò che auspica il grande maestro di kora per il suo Paese, il Mali. Pace profonda è ciò che trasmette agli ascoltatori. Solo o accompagnato da pochi altri strumentisti, tra i quali il violoncellista e produttore  Vincent Segal, Sissoko tocca le corde dell’anima.
 
5.Swing Lo Magellan – Dirty Projectors
Canzoni acide e nervose. Impasti vocali a intonare melodie frante e sincopate con tocchi suadenti di chitarra. La band più nuiorchesemente alternativa centra il bersaglio.
 
Questa la top five ma l’annata è stata veramente buona. Altri bei dischi, in ordine sparso: Andrew Bird, Grizzly Bear, Flying Lotus, Lionel Loueke.


venerdì 21 dicembre 2012

PHILIPPE GARREL / NICO

LA CICATRICE INTÉRIEURE
PHILIPPE GARREL - 1972






Film mitico, esoterico, poetico. Garrel ha assorbito le teorie narrative di Alain Robbe-Grillet; ha rielaborato i film di Godard (Weekend) e soprattutto Zabriskie Point di Antonioni; si è imbevuto delle liriche di Rimbaud e della musica di John Cale; ha meditato sull'idea di cinema di Warhol (Empire). Infine ha incontrato Nico ed è nato La cicatrice intérieure.
Il cinema è l’occhio che vede. Brani di vita senza il filtro del montaggio. Visione / Ripresa in piano sequenza. La vita non è però solo e semplicemente agire ma è intessuta di strutture del pensiero ed ecco quindi lo slittamento vita visione, con tutto il simbolismo mitico e liturgico della riflessione artistica.

La cicatrice intérieure è l’archetipo. Classico, biblico, arturiano.
Donna, Uomo, Bambino.
I quattro elementi: terra, aria, acqua, fuoco.
Il bestiale, l’umano, il divino.
La cicatrice intérieure è minimalista: film breve, assenza di dialoghi sostituiti da espressioni liturgiche: gesti, monologhi, enunciati, canti, silenzi.
La cicatrice intérieure è massimalista: la location è l’intero mondo, dal New Mexico all’Islanda al Nord Africa; le lingue sono l’inglese il francese il tedesco.
La cicatrice intérieure è un lungo video di supporto alla musica e alle canzoni di Nico e questa è la sua funzione originale, accompagnare i concerti della cantante (Desertshore).

La cicatrice intérieure è una bella esperienza visiva/auditiva.

Elle est retrouvée.
Quoi ? - L'
É
ternité.
C'est la mer allée
Avec le soleil.

Ame sentinelle,
Murmurons l'aveu
De la nuit si nulle
Et du jour en feu.

 
È ritrovata
Cosa ? – L’Eternità.
È  il mare andato
Con il sole.

Anima sentinella,
Mormoriamo la confessione
Della notte così nulla
E del giorno in fiamme.

L'Eternità, Arthur Rimbaud - traduzione Eustaki

domenica 16 dicembre 2012

KREMER, ARGELICH, VIRGIN PRUNES...

CORRISPONDENZE
PETROLIO E VIOLINI

                        Al mercato, nel Caucaso

                               Petrolio sul Caspio
 

                               Petrolio sul Caspio
 
                               Al mercato, nel Caucaso. Foto di Alexandra Kremer


Il libro fotografico Soul of Fuel di Alexandra Kremer-Khomassouridze innesca una serie di reazioni che illuminano angoli emozionali nascosti. Rimandi a cascata, cluster bombs tra espressività e memoria…. La fotografa ‘sovietica’ stabilitasi a Parigi nell’ ’89 ritrae il suo Caucaso e si avventura in una Caucasian Wolk che accende i Virgin Prunes. Ma Alexandra è anche moglie del ‘sovietico’ Gidon Kremer, nato a Riga ed esule dagli anni Settanta e i collegamenti si fanno tumultuosi. Uno dei più grandi violinisti viventi porta ad un altro esule baltico, il compositore Arvo Pärt, con il quale Gidon spesso si è incrociato, eseguendo sue composizioni. Ma Kremer è anche l’affiatato partner di Martha Argelich. Meravigliose le loro esecuzioni di Astor Piazzolla. Ma Piazzolla riporta ad una bella serata di quest’estate…

                                 Caucasian Walk, un carnevale di Venezia di molte vite fa

                                         Piazzolla. Argelich - Kremer

domenica 9 dicembre 2012

THROBBING GRISTLE / X-TG

DESERTSHORE / THE FINAL REPORT
X-TG - 2012


                      

Certi dischi sono belli indipendentemente dal loro contenuto musicale. I due CD firmati X-TG appartengono a questa categoria. Per assurdo, non serve l’ascolto per definirlo l’album più intelligente e stimolante dell’anno.

L’ultimo disco ‘ufficiale’ dei Throbbing Gristle, Part Two: The Endless Not del 2007 ce li aveva riportati a vette altissime di lirismo industriale. Personalmente avrei preferito considerare questo disco come il definitivo e degno epilogo di una storia importante. Storia che negli anni successivi si è trascinata fino alla dipartita di Genesis nel 2010, giusto in tempo per far uscire le session  in 12 CD di un nuovo progetto, Desertshore Installation, presentato in un evento  non-stop all’Institute of Contemporary Art di Londra dal 1 al 3 giugno del 2007.

Nel novembre del 2010 muore Sleazy, il quale, con gli altri due membri del gruppo, Chris e Cosey, era impegnato, tra l’altro,  ai progetti che costituiscono questi due CD usciti il 26 novembre del 2012 in sua memoria. Uno è la rivisitazione del capolavoro di Nico e John Cale Desertshore. L’altro, The Final Report,  contiene session registrate  tra 2009 e 2010 e che nel sito x-tg.com viene così presentato: “This album stands as the final report; a celebration, a loving remembrance of their unique partnership”.

Si tratta di due lavori completamente diversi. Desertshore è un album di canzoni, cantate da Cosey e da alcuni amici (Antony, Marc Almond, Blixa Bargeld, Sasha Grey and Gaspar Noé) che reinterpretano quel disco che nel 1970 era decisamente fuori dagli schemi, anche rispetto a quelli di un gruppo come i Velvet Underground. Allora Nico stava anticipando quello che sarebbe stata Cosey dopo qualche anno.

The Final Report è invece un classico disco TG. Materiale sonoro come pece in ebollizione nella quale vengono a galla, come bolle, le singole tracce, ognuna, pur entro un canone omogeneo, ben caratterizzata. Suoni bituminosi che si appiccicano addosso lasciando segni di fascinosa inquietudine.

Il doppio CD è un evento già prima dell’ascolto; dopo l’ascolto è assolutamente indispensabile.
 
 
                               Chris, Cosey e Sleazy
 
 

sabato 8 dicembre 2012

NICO / JOHN CALE

DESERTSHORE
NICO - 1970




Album di Nico ma anche di John Cale. Se la cantante tedesca presta la sua voce monolitica ma funzionale al progetto, è il talento  musicale di Cale che allestisce un set sonoro entro il quale Nico può esaltare la sua iconicità seduttiva.

Desertshore è concepito e composto come un abito che aderisce alle splendide forme di Nico, che, a sua volta, lo indossa alla perfezione.

Musicalmente si avverte tutto il bagaglio culturale di Cale, in un’opera che è scarnificato minimalismo ma anche e soprattutto classica spiritualità, nel segno dei maestri Cage e La Monte Young.

L’inizio è dominato dall’harmonium e dalla voce che scavano profondità da salmodie arcane, vicine per sensibilità alle opere che avrebbe composto Arvo Pärt. Nel secondo brano, The Falconer, il piano modula un’asciutta melodia che rimanda ad Erik Satie.  Segue  My only child, con voce orante e coro in controcanto su un tono più alto come nelle polifonie della scuola fiamminga del Quattrocento a cui si unisce, sulla stessa modularità del cantato, la breve filastrocca recitata dal figlio di Nico, Ari. È questo una sorta di intermezzo che fa da cerniera tra le due parti dell’album, le quali durano entrambe circa quattordici minuti.

E se nella prima parte è l’harmonium ad essere in primo piano assieme alla voce, nella seconda è la viola ad assumere maggior rilievo, come in Abschied, cantata in tedesco, terza lingua del disco dopo l’inglese e il francese. Qui il nume tutelare è il Béla Bartók dei Quartetti per archi.

In Afraid torna il piano a cui si intreccia la viola a definire un tessuto melodico tardo-romantico sul quale si adagia la voce di Nico, insolitamente morbida. Si va verso il finale e John Cale stratifica la composizione inserendo altri strumenti. In Muetterlein entra in scena la tromba che portarà al Mongezi Feza di Rock Bottom ed in chiusura, All that is my own, quasi una sarabanda popolare con alternanza di cantato e recitato ed effetti espressionistici in crescendo per il sigillo di un capolavoro.

John e Nico, Sunday night at the Roundhouse, London, January 1971 - foto The Quietus

martedì 27 novembre 2012

PRIMARIE, SOFRI E MACHIAVELLI

STAMPA E REGIME
27 NOVEMBRE 2012

L'Albergaccio di Sant'Andrea in Percussina


Sempre a proposito di primarie. Deliziosa la Piccola Posta di Adriano Sofri sul Foglio letta stamani a Stampa e Regime da Massimo Bordin. Ha vinto Bersani ma per Sofri è amaro constatare che a San Casciano, il paese dell’Albergaccio di Machiavelli e di Case del Popolo, la vittoria sia andata a Renzi. E chiude con un fantastico: “deve essere per via dei Principi C. e dei Marchesi F., mi dicono. Ma quanti caspita sono questi marchesi e principi di San Casciano…”

Ciò mi fa tornare alla mente un mio vecchio divertimento poetico, tratto dalla raccolta ‘I dialoghi’

I

E’ la nobiltà d’intento
che ci salva


Ma chi la giudica
la nobiltà d’intento…
non ha salvato Dante dall’esilio,
Niccolò dall’Albergaccio


Anche tu il giudice
se dopo secoli
vai in pellegrinaggio a Sant’Andrea.


II

Sei un moralista


Il mio è il moralismo
di Niccolò all’Albergaccio
tanto che alzi la voce all’osteria, nel fango
o indossi il mantello nello studio
mai il pensier distolgo dall’agire umano.

lunedì 26 novembre 2012

GEOGRAFIA DELLE PRIMARIE

PRIMARIE CENTRO SINISTRA
25 NOVEMBRE 2012

 

In rosso vittoria Bersani
In blu vittoria Renzi
In viola vittoria Vendola

dati ufficiali PD, elaborazione grafica eustaki

martedì 20 novembre 2012

JOE STRUMMER

ROCK ART AND THE X-RAY STYLE
JOE STRUMMER - 1999

 
 
Copertina di Damien Hirst, riferimento all’arte rupestre degli aborigeni australiani. Nell’espressione ‘rock art’ però Joe Strummer stratifica una pluralità di significati. La rock art è quella aborigena, è quella dell’artist-star Hirst ma, nel nostro caso, è quella di Strummer. Il musicista inglese è egli stesso icona ( dal greco éikóna , immagine) e basta il suo nome su una copertina per dare un’aura al prodotto.
Dopo molti anni l’aura torna a riverberare da Rock Art and the X-ray Style. L’album esce nel 1999 (a chiudere il millennio, verrebbe da pensare…), quando Joe ha 47 anni, e parlarne, soprattutto oggi, non può limitarsi ad un oggettivo resoconto critico del suo contenuto strettamente musicale. E proprio perché si tratta di un lavoro di Strummer dopo dieci anni di silenzio, nell’ascolto si va necessariamente oltre al suo semplice impatto sonoro. È un album che comunque emoziona, sia nei momenti banali, a volte anche brutti, che in quelli decisamente riusciti, alcuni dei quali lasciano un segno profondo.
In Yalla Yalla Strummer si diverte e si prende tutto il tempo necessario (7 minuti) per regalarci un affresco global le cui radici vanno ad attingere sostanze vitali dall’humus migliore di Combat Rock, e intanto: Now night is falling on the grove / You can but dream. A seguire e a chiudere il disco Willesden to Cricklewood, una malinconicamente dolce e nostalgica canzone, con accompagnamento orchestrale, che ritrae la tranquilla vita di un quarantenne con mille anni di ricordi alle spalle che passeggia per le strade del quartiere. I tell you the town looked good / Walking lonely avenues / Where rhinestone cowboys find the blues / There's people in doing their thing... È un punto di arrivo esistenziale e fa rabbia sapere che di lì a qualche anno Joe non ci sarebbe più stato.
Ma la canzone che più di tutte si imprime nel cuore è X-ray Style, ballata esotica appassionata con chitarra acustica in evidenza, dal testo che salta dal Nilo al Mississippi. X-ray contiene tutto l’universo di Joe, ed è piacevole ricordarlo con la sua voce che canta:
And I need to see in an x-ray style
I need some rock art that don't come in a vial
Can anybody feel the distance to the Nile
I wanna live and I wanna dance awhile
.



Rock art australiana, stile X-ray

Questo post è dedicato a Roberto brazzz

venerdì 9 novembre 2012

LUTHER BLISSETT / WU MING

Q - 1999
ALTAI - 2009



Bisogna partire da Il nome della Rosa e dal palinsesto di romanzo storico come allegoria della contemporaneità. Ma le radici attingono linfa dalle avanguardie del Novecento, fino al situazionismo e al post-modernismo degli anni Ottanta. Q è il vero romanzo epocale/generazionale il quale, uscito nel 1999, riassume l’altercultura dell’intero decennio. Possiamo dire che Q è l’unico prodotto narrativo italiano ad essere global, pur muovendo da una visione del mondo che si sarebbe formata in parallelo con il movimento no-global che in quell’anno, a Seattle, acquisiva visibilità internazionale. Q, definito un historical thriller dalla stampa anglosassone è un manifesto comunista ed un gran bel graphic novel senza grafica. Q è un fumettone dal punto di vista concettuale e linguistico. Concettuale perché a parte i corsi universitari di semiotica e di storia moderna, la base culturale degli autori è quella dei comics; linguistico perché la struttura sintattica che caratterizza il romanzo è quella tipica del fumetto, dominata dall’asindeto. Esplicativo è l’incipit:

“Sulla prima pagina è scritto: nell’affresco sono una delle figure di sfondo.                                                                                    La grafia meticolosa, senza sbavature, minuta. Nomi, date, luoghi, riflessioni. Il taccuino degli ultimi giorni convulsi”.

Questa tecnica è la vera cifra del romanzo. Grazie all’uso di frasi minime, semplici, spesso nominali, il ritmo risulta incalzante e la materia trattata, potenzialmente complessa, ne risulta abbassata ad un livello di fruizione immediata, decisamente pop. Più elaborato è lo sviluppo dell’intreccio che non segue una linea cronologica ma i fatti vengono narrati, soprattutto nella prima parte, con uso di prolessi e analessi.

Il romanzo tiene, e bene, nelle prime due parti, con un culmine nelle vicende di Munster, anche se narrativamente la caratterizzazione fisica di colui che poi si confermerà essere l’alter ego del protagonista è forse un errore, che ne svela subito, all’entrata in scena, l’identità. Ma non importa, fino a Munster Q è perfetto. Nella terza parte il congegno si sfilaccia e le vicende alto-adriatiche, più vicine biograficamente agli autori, perdono attrattiva, facendo svanire il paragone con illustri modelli quali Eco, Salgari e Dumas. Comunque Q resta il migliore romanzo italiano degli ultimi venti anni. Stesso discorso non vale per Altai, il seguito di Q. Gert dal Pozzo diventa uno pseudo maomettano ritagliato sulla figura di Sean Connery e il plot, questa volta narrato secondo una rigorosa scansione cronologica, vira decisamente verso le atmosfere di Anne e Serge Golon e della loro Angelica la Marchesa degli Angeli. Anche linguisticamente, nonostante lo sforzo di  plurilinguismo, il risultato è debole e quelli che dovrebbero essere colpi di scena sono in realtà esiti prevedibili. Pur con questi limiti la lettura di Altai è piacevole e poco impegnativa. Puro intrattenimento, come un fumettone o un film di Angelica, appunto.
 
 

lunedì 5 novembre 2012

LEONARDO / MICHELANGELO / RAFFAELLO

FIRENZE, OTTOBRE 1504

Rubens, copia da Leonardo, La battaglia di Anghiari
Raffaello, Stanza di Eliodoro



Ottobre 1504, a Firenze si incrociano i tre geni assoluti del Rinascimento italiano. Leonardo ha 62 anni, è circondato da un’aurea di rispettata venerazione. Elegante, conscio della sua grandezza, è rientrato in città dopo le burrascose vicende che stavano insanguinando l’Italia settentrionale e che lo avevano visto passare di corte in corte fino all’incarico, ricevuto dal gonfaloniere Soderini, di affrescare il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio per quella che sarebbe stata la sfida del secolo. Quella con Michelangelo, impegnato anch’egli ad affrescare lo stesso salone.

Michelangelo non ha ancora trent’anni ma è il personaggio del momento. Reduce dalla Pietà di Roma, è l’unico in grado di tener testa al celebrato maestro di Vinci. Ha iniziato come pittore ma ha conosciuto la fama grazie alla scultura ed ha un carattere completamente diverso da Leonardo. Lunatico, rustico, non veste panni ricercati, fugge la mondanità e i cenacoli di artisti frequentati da Leonardo.  Michelangelo è consapevole della sua grandezza anche se accessi di umor melanconico lo portano a momenti di smarrimento.

La sfida è sfida a tutti gli effetti. La concezione dell’arte per i due geni, pur partendo da un comune sostrato culturale neoplatonico, si manifesta con esiti formali profondamente diversi. Diversi anche dal punto di vista generazionale, Leonardo aveva subito l’ascesa del giovane Michelangelo non nascondendo una certa stizza per il fatto che lui, maestro indiscusso lavorava nella corti periferiche della Padana e non era stato chiamato per lavorare alla  Sistina, il cantiere più prestigioso dell’epoca e nel quale Michelangelo aveva raggiunto la fama. L’incarico ricevuto dalla Repubblica sarebbe stata l’occasione per dimostrare la sua superiorità nei confronti di colui che in fondo era principalmente uno scultore.

In città non si parlava d’altro, la preparazione per gli affreschi diventa una vera scuola per gli artisti cittadini e non solo. Proprio per assistere al cantiere formativo di Palazzo Vecchio giunge in città dai gioghi umbro-marchigiani un giovane dipintore con una lettera di raccomandazione al Soderini vergata da Giovanna Feltria, sorella del Duca di Montefelro. Raffaello Santi è un ventenne che proprio dall’autunno del 1504 inizierà quell’ascesa che lo porterà a vertici artistici assoluti grazie  all’elaborazione di un percorso che si configura come una somma sintesi delle concezioni estetico-formali dei due maestri.

Gli affreschi di Palazzo Vecchio non avranno una sorte fausta come l’entusiasmo suscitato. La Battaglia di Cascina di Michelangelo resterà su cartone, non finita e mai trasferita su parete per la partenza dell’artista per Roma. La Battaglia di Anghiari, una volta affrescata si deteriorerà subito per errori tecnici. Ma grazie a tale apprendistato artistico Raffaello formerà quella personalità che lo condurrà alle Stanze e agli altri capolavori romani.


Michelangelo, Studio per La battaglia di Cascina; Raffaello, Stanza di Borgo
 


 

venerdì 19 ottobre 2012

ANDREJ TARKOVSKIJ

LO SPECCHIO
ANDREJ TARKOVSKIJ - 1975




I soldati sovietici attraversano il Sivaš  nella II Guerra Mondiale in seppiate e sgranate immagini di repertorio.  La voce fuori campo declama una poesia:

Nei presentimenti non credo,
e i presagi non temo.
Non fuggo la calunnia né il veleno,
non esiste la morte:
immortali siamo tutti, e tutto è immortale.
Non si deve temere la morte,
né a diciassette né a settant'anni.
Esistono solo realtà e luce:
le tenebre e la morte non esistono.
Siamo tutti ormai del mare su la riva,
e io sono tra quelli che traggono le reti,
mentre l'immortalità passa di sghembo…

Paesaggio invernale, neve accecante su cui i contorni scuri di alberi e figure disegnano una traccia filigranata. Macchina da presa posta in alto ad inquadrare il paesaggio fino all’orizzonte. Sul pendio innevato che scende al fiume persone indaffarate, un cavallo traina una slitta, ragazzi giocano e scivolano sugli slittini (Rosebud…). Ferma nello stesso punto la macchina da presa ruota lentamente verso destra mentre dal secondo piano un ragazzo risale l’erta per giungere davanti all’obiettivo in un primissimo piano ad occupare l’intero campo visivo col suo volto.

Stacco. Di nuovo immagini storiche della vittoria. Fuochi d’artificio. L’Armata Rossa a Berlino. Un cineoperatore riprende il cadavere del Fuhrer tra le macerie. Il fungo atomico.

Stacco. Il ragazzo nella neve. Macchina da presa fissa. Campo lungo con il ragazzo a figura intera e sullo sfondo il solito andirivieni delle piccole figure. Un uccello entra da sinistra e va a posarsi sulla testa del ragazzo che lentamente lo prende in mano.

Nuove immagine di repertorio. Mao e il libretto rosso.

Meno di cinque minuti, il regista procede per accumulo. Scene diverse, codici espressivi diversi per un risultato altamente poetico ed emozionale. Arte visiva al massimo livello.

 
 


 



La poesia è del padre di Tarkovskij, Arsenij. I capolavori sono di Bruegel, metà del '500.

martedì 2 ottobre 2012

THE WATERBOYS / W.B. YEATS

AN APPOINTMENT WITH MR. YEATS
THE WATERBOYS - 2011





Progetto che il leader dei Waterboys Mike Scott coltiva da almeno un ventennio, quello di mettere in musica liriche del ‘bardo’ irlandese William Butler Yeats e che si concretizza nel tour del 2010 che diventa CD nel settembre dell’anno successivo. Poesie in musica, impresa non facile. Penso a Leo Ferré che canta Baudelaire, scegliendo di dare enfasi al testo e sottolineando con un pianoforte espressivo ma non invadente. John Cale ha musicato variepoesie di Dylan Thomas per le quali l’accompagnamento musicale è al contrario molto ricercato, in certe versioni anche orchestrale. Nell’album An appointment with Mr. Yeats Mick Scott compone un disco di tradizionale musica folk-rock con una strumentazione di base tipicamente rock: chitarra basso batteria tastiere a cui si aggiungono, a seconda dei brani, altri strumenti come flauto, violino, oboe utilizzati per colorire e caratterizzare i singoli componimenti. Il risultato è un suono enfatico, carico, decisamente old style. A questa base musicale molto seventy si aggiunge la parte vocale che deve veicolare i testi del poeta. La voce principale è quella di Mike, molto impetuosa, della quale colpisce la sottolineatura delle singole parole, a cui si deve la facile comprensione dei testi. Altre due voci, più controllate, fanno da contrappunto all’anche troppo espressivo Scott. Molto adeguata e di schietto sapore Irish quella femminile.

Ad ascoltare un disco come questo non si può certo sobbalzare per sorpresa e sperimentazione anzi, i pregi sono proprio nella sua prevedibilità. Nel senso che l’ascolto è sì prevedibile, ma è anche rassicurante. Si anticipano le mosse, ma in tal caso ci si può concentrare sui testi, e le ballate rock molto tradizionali veicolano benissimo le poesie di Yeats. E non è detto che scegliere un impianto musicale che mescola Pink Floyd, Dylan e i Led Zeppelin, con una spruzzata di PFM sia, nel 2011,  poi così scontato. Fatto sta che alcuni pezzi risultano gradevolissimi, pur se scontati. Due su tutti.

Sweet dancer: Introduzione strumentale con violino accattivante / 1° verso voce maschile / coro voce maschile e femminile con ripresa delle note iniziali di violino / 2° verso / coro / ponte cantato dalla voce femminile / coro / ripresa 1° verso / coro / coda strumentale  (Intro  ABABCBAB Coda). Il coro, breve orecchiabile e ripetuto si imprime subito in testa, così come la semplice linea del violino a cui rispondono i tocchi del piano. Esecuzione che avvolge alla perfezione la poesia che celebra la virtù della danza e il piacere di guardare una ballerina che volteggia, estasiata sull’erba.

The girl goes dancing there
On the leaf-sown, new-mown, smooth
Grass plot of the garden;
Escaped from bitter youth,
Escaped out of her crowd,
Or out of her black cloud.
Ah, dancer, ah, sweet dancer!

If strange men come from the house
To lead her away, do not say
That she is happy being crazy;
Lead them gently astray;
Let her finish her dance,
Let her finish her dance.
Ah, dancer, ah, sweet dancer!

 
September 1913. Oltre sette minuti per una tipica ballata che ripete  le stanze che finiscono con un distico avente funzione di coro, ripetuto nel lungo finale. La poesia di Yeats è molto bella. Esempio di lirica civile rivolta al popolo, inizia con immagini di ordinaria vita borghese tutta intenta alle piccole attività commerciali (ungere il cassetto della cassa, aggiungere un mezzo penny al penny) per poi sferzare gli ascoltatori sulla attuale condizione dell’Irlanda che non lotta più come al tempo degli eroi nazionali morti per la patria, Romantic Ireland's dead and gone / It's with O'Leary in the grave.

giovedì 27 settembre 2012

CINEMA E SHOAH

INSEGNARE LA SHOAH




Mi è stato chiesto di tenere alcune lezioni su un tema spinoso ma per me troppo affascinante e quindi ho accettato volentieri. Insegnare la Shoah. Si è formato un gruppo di lavoro coordinato da Alfredo in cui sono stati enucleati degli aspetti da assegnare ad ognuno dei componenti il gruppo stesso. Berto tratterà l’aspetto storico, Giampaolo quello religioso, Alessandra proporrà testi letterari e via dicendo. Io farò due interventi. Uno su cinema e Shoah, abbastanza tradizionale quindi; nel secondo, per me più stimolante, cercherò di  presentare la figura di Paul Celan, autore fondamentale poco frequentato in ambito scolastico.

Come si preparano  interventi di questo tipo? Intanto si pensa ai destinatari degli incontri. Si tratta di un gruppo ristretto composto da ragazzi  di quinta superiore e alcuni insegnanti. Non più di quindici persone. Lo scopo è di fornire tracce per ulteriori approfondimenti più che trattazioni sistematiche. Suscitare curiosità, guardare i fatti da angolature eccentriche, evitare la consueta retorica che certi argomenti si portano inevitabilmente dietro, proporre cose non troppo consuete.

Obiettivi non da poco, per raggiungere i quali cercherò di fare come gli arcieri del caro Niccolò, “ e quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiungere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con l’aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro.” E questo giusto per mentovare Machiavelli ché io sempre felice sono ogni qualvolta capiti di rammentarlo.

Sto preparando le lezioni e lo faccio pensando innanzi tutto a cosa non farò. E questo, s’intende, per la lezione su cinema e Shoah, perché per quella su Celan è già tutto chiaro. Cosa si fa in circostanze come queste nelle scuole italiane? Si fa vedere un film o due o, se proprio si vuol fare il cineforum, anche tre. I titoli sono quasi sempre gli stessi. La vita è bella, Il pianista, Schindler’s list. Chi vuol fare l’alternativo suggerisce Train de vie o qualcuno si ricorda di Arrivederci ragazzi. Tutti molto interessanti. Ogni film è interessante…ma, Benigni e Polanski visti e rivisti; Spielberg è troppo lungo e la terna più gettonata è già eliminata. Train de vie è bellissimo ma va somministrato a piccole dosi: la raffinata e amara ironia di Mihaileanu  e di Ovadia nella versione italiana è troppo difficile per i nostri studenti. Malle è commovente ma è fuori target. Monotono per un diciottenne, per il quale non scatta l’identificazione con i più piccoli protagonisti del film.

Ecco, se questi non si faranno vedere si potrebbe anche pensare di non proporre la visione di film interi ma di spezzoni. I ragazzi sono grandi consumatori di video ma anche di film ‘lunghi’. Se si presentano più trailer modello rete si può suscitare interesse senza annoiare e magari poi il film intero se lo vanno a cercare a casa… Sì, ok ma quali film se non i soliti? Tre minuti da Train de vie, senz’altro la scena della sfida musicale, e poi il confronto tra vittima e carnefice visto dalla parte del carnefice in un recente film israeliano. La nuova possibilità per un ex gerarca di rivestire i panni di gioventù in un’insolita trasposizione da Stephen King. L’ultima lettera dal ghetto di una madre a suo figlio tratta dall’immenso Vita e destino messa in scena da una straordinaria attrice francese … Bene, la lezione è fatta.



Immagini: International Monument - Dachau, dello scultore Glid Nandor, 1968

giovedì 20 settembre 2012

ALEKSANDR SOKUROV

PADRE E FIGLIO
ALEKSANDR SOKUROV - 2003




Recensione numero 1

Sokurov ha le idee chiare. Usa il mezzo cinematografico con sapienza e con assoluto senso artistico del fotogramma. Ogni inquadratura è un espressivo e calibrato gioco di equilibri: luce ed ombra, linee e volumi, definito ed indefinito. Il risultato è una gioia per gli occhi; è un riportare il cinema alla sua essenza ontologica di arte per la vista.

Ma ‘Padre e figlio’ non è solo una sequenza di momenti visivi perfetti ed esaltanti. Qui il ‘quadro’ si fa narrazione e, soprattutto, sentimento che tocca l’istintività e il razionale. Se il dialogo tra il figlio e la fidanzata è puro cinema, il multiforme sistema relazionale tra padre e figlio implica dinamiche extracinematografiche che ineriscono all’antropologia, alla psicologia, a dinamiche emotive complesse. E Sokurov riesce a comunicare la profondità dell’animo umano sulla superficie bidimensionale dello schermo come solo un vero artista sa fare.

Recensione numero 2

Esercitazioni di autocompiacimento e prendersi gioco dello spettatore. Sokurov, attualmente il più ‘geniale e artistico dei registi’, inscena uno statico balletto erotico tra un padre e un figlio, facendoci credere che si tratta solo di amore paterno-filiale. Corpi seminudi anche sotto la neve di San Pietroburgo (e invece siamo a Lisbona, la geografia non torna), muscoli gonfi, abbracci e sguardi, pose e fissità di amanti estasiati prima dell’amplesso.

Ogni inquadratura è costruita per escludere lo spettatore e al tempo stesso per fargli credere che sta assistendo ad un capolavoro. Ellissi, dialoghi allusivi, frammenti di passato si uniscono ad una scelta cromatica che sottrae colori per virare tutto nei toni giallognoli-vintage (ma di fronte all’artista diremo seppiati).

Ricercatissima la scena tra il figlio e la ragazza, un  dialogo di mezze frasi e di sguardi, di languori e sussurri che costruisce un perfetto spot patinato (e seppiato!) per una nuova, irresistibile eau de parfum.

 

 

domenica 16 settembre 2012

JOHN CARPENTER

GLI OCCHI DI LAURA MARS
IRVIN KERSHNER - 1978





Scritto dal trentenne John Carpenter, uscito nel 1978, un anno prima del ‘parallelo’ Vestito per uccidere di Brian De Palma, Eyes of Laura Mars, ha, accanto a limiti evidenti, numerosi pregi forse poco evidenziati.

Subito i difetti: regia piatta di Irvin Kershner, struttura  narrativa rigidamente ancorata al genere e personaggi, specie quelli corollari, standard, qualche punto non chiarito nello script. Difettucci non da poco, ma nel bilancio finale il saldo è in attivo.

Che Carpenter fosse un appassionato di Argento, Bava, Fulci, lo si sapeva ma fa un certo effetto ritrovare un plot che ricalca in tutto e per tutto il giallo all’italiana per una grande major come la Columbia Pictures. Tra i Quaranta e i Settanta la grande forza del cinema italiano è stata proprio quella di imporre  generi, segno di vitalità creativa e di intraprendenza economica da quarant’anni latitanti,  tanto che il nostro cinema nazionale, nel mondo globalizzato, praticamente non esiste più. Il merito a Carpenter di aver proposto questa citazione / calco negli USA e che di fatto rappresenta il suo vero esordio nel grande business cinematografico.

Poi c’è il mondo della fotografia e della moda. Anche in questo caso bisogna tornare al cinema italiano,  all’Antonioni londinese ma riveduto attraverso l’obiettivo di Helmut Newton secondo un’estetica molto glamour. Paradigmatica in tal senso la sequenza del primo set fotografico con le  veneri in pelliccia che si accapigliano tra auto in fiamme in piena NYC

Ed è proprio New York  l’elemento più affascinante del film. Una New York insolita, umida e avvolta in un’aria trasparente, spazzata dal vento. Ma soprattutto sporca, con liquami e spazzatura per le strade, con visuali desuete per  fashion locations come depositi portuali, fatiscenti strutture lungo l’Hudson, anonimi vicoli di avenues secondarie.

Pieno Saturday night fever la colonna sonora, con la mitica Shake della K.C. and the Sunshine Band e altre hit disco. Buono il cast: due star e numerosi caratteristi nei ruoli giusti. Belle, infine, le scenografie. In particolare l’appartamento della Dunaway, con opere informali alle pareti (forse si tratta di Franz Kline, ma potrei sbagliarmi).

lunedì 10 settembre 2012

DE MARIA / FRIZE / DORNER

ASTRAZIONE / FIGURAZIONE
GALLERIA CARDI - PIETRASANTA






Ad avventurarsi nei labirinti dell’arte contemporanea si rischia di affidarsi a fili che portano a vicoli ciechi. Qual è il vero artista, la bella opera, l’investimento sicuro. Quali sono le idee originali, le possibili aperture verso scenari inediti. Impossibile rispondere a banali domande come queste.
Il fatto è che nella striscia di terra lunga non più di trenta chilometri che va da Carrara a Pietrasanta,  di artisti ne capitano a decine. Qui hanno la loro base scultori di tutto il mondo e qui, nei laboratori e nelle fonderie artistiche, nascono le opere che verranno esposte nel circuito internazionale. A partire dalla scultura, negli ultimi hanno sono nate numerose gallerie che estendono le loro proposte anche ad altre espressioni come la fotografia, la pittura, il design. L’offerta espositiva è così molto vasta, con  la possibilità di “vedere” (verbo stranamente desueto per la fruizione delle opere visuali contemporanee, oggi sembra che un’opera si debba , fruire, interiorizzare, toccare, vivere, interiorizzare, monetizzare...) cosa si realizza in giro.
In tal senso, utile e piacevole la mostra Astrazione / Figurazione alla galleria Cardi di Pietrasanta. Titolo tutto sommato generico e banale ma ciò conta relativamente poco. Quello che conta sono le opere e gli artisti esposti. Piccola ma suggestiva panoramica sugli ultimi trent’anni di arte in Italia ma anche in Europa, a partire dalla Transavanguardia fino all’oggi.
Tra i vari artisti esposti, alcuni ormai star globali (Paladino, classe 1948 e  il ‘fuori quota’ Enrico Castellani, classe 1930), due artisti europei sono presenti con una ben definita cifra stilistica istintivamente interessante. Istintivamente perché per un ‘fruitore d’arte’ non esperto e al di fuori del settore, il giudizio e le risposte alle domande poste inizialmente non possono che basarsi sull’istinto. Un’opera  la guardo, provo piacere a guardarla quindi mi piace. I due artisti sono il francese Bernard Frize (1954) e il tedesco Helmut Dorner (1952), che espongono opere molto recenti.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bernard Frize, Limpa, 2009  acrilico e resina su tela
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Helmut Dorner, Then Cloudy, 2009 smalto su plexiglass

Personalmente, le opere che ho maggiormente apprezzato sono state quelle di Nicola De Maria, classe 1954, come questo Regno dei fiori, 2000  olio su tavola