cinema

giovedì 27 settembre 2012

CINEMA E SHOAH

INSEGNARE LA SHOAH




Mi è stato chiesto di tenere alcune lezioni su un tema spinoso ma per me troppo affascinante e quindi ho accettato volentieri. Insegnare la Shoah. Si è formato un gruppo di lavoro coordinato da Alfredo in cui sono stati enucleati degli aspetti da assegnare ad ognuno dei componenti il gruppo stesso. Berto tratterà l’aspetto storico, Giampaolo quello religioso, Alessandra proporrà testi letterari e via dicendo. Io farò due interventi. Uno su cinema e Shoah, abbastanza tradizionale quindi; nel secondo, per me più stimolante, cercherò di  presentare la figura di Paul Celan, autore fondamentale poco frequentato in ambito scolastico.

Come si preparano  interventi di questo tipo? Intanto si pensa ai destinatari degli incontri. Si tratta di un gruppo ristretto composto da ragazzi  di quinta superiore e alcuni insegnanti. Non più di quindici persone. Lo scopo è di fornire tracce per ulteriori approfondimenti più che trattazioni sistematiche. Suscitare curiosità, guardare i fatti da angolature eccentriche, evitare la consueta retorica che certi argomenti si portano inevitabilmente dietro, proporre cose non troppo consuete.

Obiettivi non da poco, per raggiungere i quali cercherò di fare come gli arcieri del caro Niccolò, “ e quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiungere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con l’aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro.” E questo giusto per mentovare Machiavelli ché io sempre felice sono ogni qualvolta capiti di rammentarlo.

Sto preparando le lezioni e lo faccio pensando innanzi tutto a cosa non farò. E questo, s’intende, per la lezione su cinema e Shoah, perché per quella su Celan è già tutto chiaro. Cosa si fa in circostanze come queste nelle scuole italiane? Si fa vedere un film o due o, se proprio si vuol fare il cineforum, anche tre. I titoli sono quasi sempre gli stessi. La vita è bella, Il pianista, Schindler’s list. Chi vuol fare l’alternativo suggerisce Train de vie o qualcuno si ricorda di Arrivederci ragazzi. Tutti molto interessanti. Ogni film è interessante…ma, Benigni e Polanski visti e rivisti; Spielberg è troppo lungo e la terna più gettonata è già eliminata. Train de vie è bellissimo ma va somministrato a piccole dosi: la raffinata e amara ironia di Mihaileanu  e di Ovadia nella versione italiana è troppo difficile per i nostri studenti. Malle è commovente ma è fuori target. Monotono per un diciottenne, per il quale non scatta l’identificazione con i più piccoli protagonisti del film.

Ecco, se questi non si faranno vedere si potrebbe anche pensare di non proporre la visione di film interi ma di spezzoni. I ragazzi sono grandi consumatori di video ma anche di film ‘lunghi’. Se si presentano più trailer modello rete si può suscitare interesse senza annoiare e magari poi il film intero se lo vanno a cercare a casa… Sì, ok ma quali film se non i soliti? Tre minuti da Train de vie, senz’altro la scena della sfida musicale, e poi il confronto tra vittima e carnefice visto dalla parte del carnefice in un recente film israeliano. La nuova possibilità per un ex gerarca di rivestire i panni di gioventù in un’insolita trasposizione da Stephen King. L’ultima lettera dal ghetto di una madre a suo figlio tratta dall’immenso Vita e destino messa in scena da una straordinaria attrice francese … Bene, la lezione è fatta.



Immagini: International Monument - Dachau, dello scultore Glid Nandor, 1968

giovedì 20 settembre 2012

ALEKSANDR SOKUROV

PADRE E FIGLIO
ALEKSANDR SOKUROV - 2003




Recensione numero 1

Sokurov ha le idee chiare. Usa il mezzo cinematografico con sapienza e con assoluto senso artistico del fotogramma. Ogni inquadratura è un espressivo e calibrato gioco di equilibri: luce ed ombra, linee e volumi, definito ed indefinito. Il risultato è una gioia per gli occhi; è un riportare il cinema alla sua essenza ontologica di arte per la vista.

Ma ‘Padre e figlio’ non è solo una sequenza di momenti visivi perfetti ed esaltanti. Qui il ‘quadro’ si fa narrazione e, soprattutto, sentimento che tocca l’istintività e il razionale. Se il dialogo tra il figlio e la fidanzata è puro cinema, il multiforme sistema relazionale tra padre e figlio implica dinamiche extracinematografiche che ineriscono all’antropologia, alla psicologia, a dinamiche emotive complesse. E Sokurov riesce a comunicare la profondità dell’animo umano sulla superficie bidimensionale dello schermo come solo un vero artista sa fare.

Recensione numero 2

Esercitazioni di autocompiacimento e prendersi gioco dello spettatore. Sokurov, attualmente il più ‘geniale e artistico dei registi’, inscena uno statico balletto erotico tra un padre e un figlio, facendoci credere che si tratta solo di amore paterno-filiale. Corpi seminudi anche sotto la neve di San Pietroburgo (e invece siamo a Lisbona, la geografia non torna), muscoli gonfi, abbracci e sguardi, pose e fissità di amanti estasiati prima dell’amplesso.

Ogni inquadratura è costruita per escludere lo spettatore e al tempo stesso per fargli credere che sta assistendo ad un capolavoro. Ellissi, dialoghi allusivi, frammenti di passato si uniscono ad una scelta cromatica che sottrae colori per virare tutto nei toni giallognoli-vintage (ma di fronte all’artista diremo seppiati).

Ricercatissima la scena tra il figlio e la ragazza, un  dialogo di mezze frasi e di sguardi, di languori e sussurri che costruisce un perfetto spot patinato (e seppiato!) per una nuova, irresistibile eau de parfum.

 

 

domenica 16 settembre 2012

JOHN CARPENTER

GLI OCCHI DI LAURA MARS
IRVIN KERSHNER - 1978





Scritto dal trentenne John Carpenter, uscito nel 1978, un anno prima del ‘parallelo’ Vestito per uccidere di Brian De Palma, Eyes of Laura Mars, ha, accanto a limiti evidenti, numerosi pregi forse poco evidenziati.

Subito i difetti: regia piatta di Irvin Kershner, struttura  narrativa rigidamente ancorata al genere e personaggi, specie quelli corollari, standard, qualche punto non chiarito nello script. Difettucci non da poco, ma nel bilancio finale il saldo è in attivo.

Che Carpenter fosse un appassionato di Argento, Bava, Fulci, lo si sapeva ma fa un certo effetto ritrovare un plot che ricalca in tutto e per tutto il giallo all’italiana per una grande major come la Columbia Pictures. Tra i Quaranta e i Settanta la grande forza del cinema italiano è stata proprio quella di imporre  generi, segno di vitalità creativa e di intraprendenza economica da quarant’anni latitanti,  tanto che il nostro cinema nazionale, nel mondo globalizzato, praticamente non esiste più. Il merito a Carpenter di aver proposto questa citazione / calco negli USA e che di fatto rappresenta il suo vero esordio nel grande business cinematografico.

Poi c’è il mondo della fotografia e della moda. Anche in questo caso bisogna tornare al cinema italiano,  all’Antonioni londinese ma riveduto attraverso l’obiettivo di Helmut Newton secondo un’estetica molto glamour. Paradigmatica in tal senso la sequenza del primo set fotografico con le  veneri in pelliccia che si accapigliano tra auto in fiamme in piena NYC

Ed è proprio New York  l’elemento più affascinante del film. Una New York insolita, umida e avvolta in un’aria trasparente, spazzata dal vento. Ma soprattutto sporca, con liquami e spazzatura per le strade, con visuali desuete per  fashion locations come depositi portuali, fatiscenti strutture lungo l’Hudson, anonimi vicoli di avenues secondarie.

Pieno Saturday night fever la colonna sonora, con la mitica Shake della K.C. and the Sunshine Band e altre hit disco. Buono il cast: due star e numerosi caratteristi nei ruoli giusti. Belle, infine, le scenografie. In particolare l’appartamento della Dunaway, con opere informali alle pareti (forse si tratta di Franz Kline, ma potrei sbagliarmi).

lunedì 10 settembre 2012

DE MARIA / FRIZE / DORNER

ASTRAZIONE / FIGURAZIONE
GALLERIA CARDI - PIETRASANTA






Ad avventurarsi nei labirinti dell’arte contemporanea si rischia di affidarsi a fili che portano a vicoli ciechi. Qual è il vero artista, la bella opera, l’investimento sicuro. Quali sono le idee originali, le possibili aperture verso scenari inediti. Impossibile rispondere a banali domande come queste.
Il fatto è che nella striscia di terra lunga non più di trenta chilometri che va da Carrara a Pietrasanta,  di artisti ne capitano a decine. Qui hanno la loro base scultori di tutto il mondo e qui, nei laboratori e nelle fonderie artistiche, nascono le opere che verranno esposte nel circuito internazionale. A partire dalla scultura, negli ultimi hanno sono nate numerose gallerie che estendono le loro proposte anche ad altre espressioni come la fotografia, la pittura, il design. L’offerta espositiva è così molto vasta, con  la possibilità di “vedere” (verbo stranamente desueto per la fruizione delle opere visuali contemporanee, oggi sembra che un’opera si debba , fruire, interiorizzare, toccare, vivere, interiorizzare, monetizzare...) cosa si realizza in giro.
In tal senso, utile e piacevole la mostra Astrazione / Figurazione alla galleria Cardi di Pietrasanta. Titolo tutto sommato generico e banale ma ciò conta relativamente poco. Quello che conta sono le opere e gli artisti esposti. Piccola ma suggestiva panoramica sugli ultimi trent’anni di arte in Italia ma anche in Europa, a partire dalla Transavanguardia fino all’oggi.
Tra i vari artisti esposti, alcuni ormai star globali (Paladino, classe 1948 e  il ‘fuori quota’ Enrico Castellani, classe 1930), due artisti europei sono presenti con una ben definita cifra stilistica istintivamente interessante. Istintivamente perché per un ‘fruitore d’arte’ non esperto e al di fuori del settore, il giudizio e le risposte alle domande poste inizialmente non possono che basarsi sull’istinto. Un’opera  la guardo, provo piacere a guardarla quindi mi piace. I due artisti sono il francese Bernard Frize (1954) e il tedesco Helmut Dorner (1952), che espongono opere molto recenti.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bernard Frize, Limpa, 2009  acrilico e resina su tela
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Helmut Dorner, Then Cloudy, 2009 smalto su plexiglass

Personalmente, le opere che ho maggiormente apprezzato sono state quelle di Nicola De Maria, classe 1954, come questo Regno dei fiori, 2000  olio su tavola
 


 

 

giovedì 6 settembre 2012

THE CLASH

DISCOGRAFIA SENTIMENTALE
THE CLASH - 1977 / 1982



 
 

Il gruppo dei Clash ha avuto per me un’importanza decisiva. Direi che sono stati formativi. Sono stati la band di riferimento della mia adolescenza e attorno alle loro canzoni si sono coagulate alcune delle esperienze determinanti per il consolidamento della personalità e di una certa visione del mondo.
Dal punto di vista affettivo, Sandinista è l’album a cui sono maggiormente legato. Quel triplo vinile e l’Armagideon Times no3 attivano links a momenti, persone, luoghi troppo importanti. Comprai Sandinista a Milano, ed è a Milano che il disco è associato e a tutto ciò che nell’81 quella città, ora così lontana, rappresentava per me. Ma parlare di Sandinista significa anche scuola superiore, luogo/dimensione ancora più lontani di Milano e significa la mia vecchia camera, allora appena dipinta color blu klein.
Musicalmente parlando è  invece London Calling il disco di riferimento. Nella mia top ten è saldamente al primo posto quale miglior album rock di sempre. E la cover, in formato poster, giganteggia attualmente nel mio studiolo rosso pompei.
Le cose cambiano. Prima era la camera il luogo del culto, ed era blu; ora è lo studio, ed è rosso. E qui ed ora, un lampo associativo, la lettera al Vettori di Niccolò…
Storicamente, fondamentale è The Clash 1977. Dopo quel dirompente esordio sarebbe cambiato tutto. D’accordo, il merito va anche ai Pistols ma il loro è stato più un impatto mediatico e d’immagine. Quella dei Clash è stata una vera rivoluzione musicale. Uno spartiacque tra il prima e il dopo. Prima di 1977 si ascoltavano i Genesis, dopo ci saranno i Joy.
Il non ufficiale Black Market con quel I don’t want to be a prisoner si associa a certi percorsi che mi avrebbero condotto verso l’Umbria.
E si arriva a Straight to Hell e direttamente a Londra, al mio girovagare per Camden, Brixton, nel Wild West End. Con questo pezzo Strummer anticipa la globalizzazione ma proprio con Straight to Hell si chiude la mia personale, magnifica parabola dei Clash. A parte Rock Art, ma questo sarà un altro post e sarà dedicato a Roberto.
1. London Calling
2. Sandinista!
3. The Clash 1977
4. Stay free
5. Straight to Hell




domenica 2 settembre 2012

FRANK OCEAN

CHANNEL ORANGE
FRANK OCEAN - 2012



 
Non si tratta di un’operazione fotocopia alle quali ci ha finora abituato Raphael Saadiq (aspettando l’album giusto che tarda ad arrivare, concediamo ancora fiducia al musicista californiano), si tratta di un capolavoro. Prova del fuoco per Frank Ocean, non siamo all’altezza dei Marvin Gaye 1968 -1973 ma Channel Orange raggiunge lo spessore di un disco quale Songs in the key of life. E Frank Ocean parte proprio da Stevie Wonder. Basta ascoltare Sweet life. Giro di basso pulsante ma morbido, piano elettrico liquido, e dopo il primo segmento quasi in recitativo parte il ritornello con la voce leggermente modulata che riporta emotivamente alle melodie di Wonder. Grande gusto e grande cultura musicale. Frank deve aver ascoltato tonnellate di musica black e non solo, mandando a memoria tutti i classici Motown fino all’urban contemporaneo. Non solo ricerca dell’hit per scalare le classifiche ma la appassionata costanza di perseguire un progetto musicale in cui si crede.

Channel Orange è complessivamente un grande album. Si sente che dietro ogni nota, ogni passaggio c’è la voglia di comunicare il proprio messaggio e soprattutto la comunicazione con l’ascoltatore avviene immediatamente, a partire dal primo pezzo dopo la breve intro, Thinkin bout you, con l’alternarsi delle voci, una piana e l’altra in falsetto a ripetere il fantastico refrain Or do you not think so far ahead / ‘Cause I been thinkin' 'bout forever e a seguire il parlato della prima voce.

Artista in stato di grazia, sicuro a tal punto che può permettersi un pezzo come Pyramids, che mescola banalità alla John Legend a sublimità ambient con un testo che riesuma l’iconologia egizia alla Earth Wind and Fire trasferendola a Las Vegas con spruzzate di Champagne e di Kool and the Gang,  il tutto per oltre nove minuti, compreso, in chiusura, un assolo di chitarra che non ti aspetti. La sicurezza e la sfrontatezza di Frank Ocean fa quasi rabbia.

Con Channel Orange Ocean riesce a portare a compimento quello che la Janelle Monáe di ArchAndroid aveva avviato ma non pienamente raggiunto, la realizzazione del disco black di riferimento di questi anni.