cinema

lunedì 27 ottobre 2014

ROBERTO BOLAÑO

2666
ROBERTO BOLAÑO - 2004
 

Ansky pensa e universi paralleli.
Solo nel disordine siamo concepibili
2666




Il protagonista invisibile, di cui conosciamo il nome, Benno von Arcimboldi, è uno scrittore tedesco. Si mettono sulle sue tracce quattro critici: un’inglese, un italiano, un francese e uno spagnolo. Le strade portano al Messico, come quelle di un sicario che braccava un presunto traditore. Il deserto e la frontiera inghiottono i destini e qualcuno, ripetutamente, affonda un pugnale in un ventre. Bastone contro mani nude, imprecazione contro oscenità. Tonante, corrotta, strafatta, la polizia messicana interviene e arresta un supposto serial killer, un tedesco con radici in riva al Baltico, un bambino che assomiglia a un’alga. Le vicende delle centinaia di pagine è impossibile riassumerle. Vi è un vertiginoso pullulare di dramatis personae ed una vasta peregrinazione che abbraccia tre continenti. Dalle capitali culturali dell’Europa al deserto del Sonora; dalle periferie afroamericane di Detroit elle maquilladoras della Frontiera ; dalla Pomerania alle Alpi Transilvaniche; dall’Ucraina al Mar di Okhotsk.

Già s’intravede l’argomento generale: l’insaziabile ricerca di un’anima attraverso le tracce esigue che ha lasciato nelle altre. A misura che i personaggi intervenuti hanno conosciuto più da presso von Arcimboldi, è maggiore in essi la consapevolezza della verità ma si comprende che non sono altro che semplici specchi. La tecnica matematica è qui applicabile: il labirintico romanzo di Bolaño è una progressione ascendente il cui termine finale è il presentito «uomo che si chiama Benno von Arcimboldi».

L’antecedente immediato di Arcimboldi è un professore di filosofia cileno in esilio; predecessore di questo professore è un ebreo askenazita fucilato dai nazisti in Ucraina; predecessore dell’ebreo è un giornalista che scrive su una rivista afroamericana di New York…


Scrittore enciclopedico di un romanzo enciclopedico, Roberto Bolaño espande Borges e lo congiunge ad Eco. 2666 è una vertigine che si protrae per un migliaio di pagine. 2666 è un gorgo letterario che inghiotte e il naufragare è dolce in questo gorgo.

Gustave Courbet, Le retour de la conférence - 1863 - originale distrutto
Gustave Courbet, L'atelier du peintre - 1855 - Parigi, Museo d'Orsay

lunedì 20 ottobre 2014

MEDIANERAS

INNAMORARSI A BUENOS AIRES
GUSTAVO TARETTO - 2011


Nei primi anni ’90  è avvenuto il passaggio dal sistema analogico al digitale che, come una fluida macchia d’olio, non ha conosciuto intralci e si è imposto a livello globale contribuendo, in maniera decisiva, ad uniformare comportamenti e stili di vita. Oggi, negli anni Dieci, gli under trenta vivono più o meno nello stesso modo. A parte sacche di preoccupante fanatismo, un ventenne ha come piattaforma esistenziale  lo stesso palinsesto, non importa se vive a Tokyo, Johannesburg o Mexico City. Ci sono le ovvie differenze dovute al censo ma relativamente ai fondamentali possiamo dire che l’omologazione sia avvenuta. 

Ho pensato a queste banalità mentre guardavo Medianeras. In questo fresco film molta importanza viene attribuita all’ambientazione. Siamo a Buenos Aires, viene detto e ridetto e soprattutto mostrato, anche in modalità scatto fotografico, come stessimo sfogliando un numero monografico di una rivista di turismo o architettura. Si insiste molto sull’unicità della metropoli ma alla fine di questa unicità resta ben poco. Le vite che la riempiono sono vite standard. Solitudine, depressione, alienazione. Niente di nuovo, solo che nel secolo scorso queste erano le cifre comportamentali di intellettuali di mezza età che facevano del vuoto un atteggiamento che diventava sempre più posa e segno di distinzione. Oggi l’età dei nuovi esistenzialisti si è notevolmente abbassata e la loro insicurezza è ormai diventata una condizione di normalità. Si vive in monolocali-scatole-da-scarpe, ci si arrangia con lavori precari, si va in piscina e soprattutto, c’è la rete. In rete si lavora, si ascolta musica, si guardano i film, si socializza.


Medianeras è tutto questo. È la storia di una ragazza e di un ragazzo dalle vite parallele le cui traiettorie si incrociano per allontanarsi e poi tornano ad essere parallele e di nuovo a convergere. Il doppio binario dura per quasi tutto il film che dopo averci felicemente sorpreso e fatto rimanere ammirati per tanta grazia, riesce a deluderci con un finale che se non può mettere in discussione quanto di buono abbiamo visto lascia però delusi. E rammaricati. Ma perdoniamo il finale al cinquantenne regista Gustavo Taretto perché subito dopo, sui titoli di coda ci delizia con un Marvin Gaye d’annata, quello dei duetti con Tammi Terrell. 


Ringrazio Franz / Ismaele per il suggerimento

sabato 18 ottobre 2014

STEVEN JAMES ADAMS

HOUSE MUSIC - 2014


Divertente il doppio senso del titolo dell’album di esordio di Steven James Adams (SJA). Non siamo in ambito dance, questa musica è proprio fatta in casa, letteralmente. Un gruppo di amici, mezzi limitati, entusiasmo e buone idee. Aggiungiamo la qualità dei musicisti, le sorprendenti doti di SJA ed ecco un vero e proprio gioiello. E quali sarebbero le doti del musicista inglese? La misura e l’ironia. Ma questo non basterebbe se non avesse anche la capacità di comporre canzoni e di cantarle e di suonarle in modo da catturare fin da subito l’ascoltatore.

Eppure non si tratta solo di orecchiabilità. Certo la sapienza di confezionare tipici brani pop è innegabile ma c’è dell’altro. Questo altro fa sì che il risultato complessivo sia superiore alla semplice somma degli addendi (voce, testi, arrangiamenti).


Niente da dire, l’apprendistato di SJA in vari gruppi ha fatto maturare nel musicista la consapevolezza di potersi cimentare come solista e questo suo esordio è convincente. Tutte piacevoli le dieci tracce  tra le quali spiccano tre potenziali hits che, per gli insondabili misteri del music business, non saranno mai hits: la matura Drinking from the River; Tears of Happiness, nel cui testo, oltre a zombies e sangue si cita perfino Kenneth Anger !; il singolo perfetto, The Volonteer. Da oltre un mese non riesco a non ascoltare questo album.

martedì 14 ottobre 2014

LA VOCE DEL PADRONE

STANISLAW LEM
GLOS PANA - 1968


La fantascienza sta stretta a Stanislaw Lem, che addirittura la sbeffeggia con parole al vetriolo, anche se, erroneamente, viene classificato come autore di SF. Nato a Leopoli quando la città rientrava entro i confini polacchi, Lem ha sempre incarnato l’altra SF, quella di oltre cortina. Il clima da Guerra Fredda trasuda dalle pagine di questo La Voce del Padrone  del 1968 che un americano non avrebbe mai potuto scrivere. Fedele alla linea e quasi un eroe in patria, sorprendentemente, in questo corposissimo romanzo Lem si avvicina ad un altro slavo che dovrebbe collocarsi agli antipodi dello scrittore polacco. Parlo di Nabokov. Nella Voce del Padrone si respira l’aria di Fuoco pallido. 

Il narratore, presunto genio cinico e un po’ viscido, racconta in prima persona la sua esperienza di scienziato chiamato a far parte di un ristretto Consiglio che deve presiedere il progetto Voce del Padrone al quale lavorano centinaia di esperti dei più svariati settori della scienza. La finalità del progetto è quella di decifrare un messaggio proveniente dallo spazio costituito da un flusso di neutrini.

Nel romanzo non c’è praticamente azione. L’interesse e anche una certa tensione è tutta creata grazie all’abilità con cui Lem utilizza competenze tecnico-scientifiche che abbagliano il lettore. Attraverso questo mimetismo argomentativo e lessicale che approda a veri e propri mirabolanti tecnicismi verbali, lo scrittore polacco imbroglia le carte e crea false piste. Oltre ai commenti e ai giudizi che il protagonista, il matematico Peter Hogarth,, esprime sui colleghi, dei quali vengono sottolineate le debolezze con perfidia comaresca, il romanzo si fa sempre più complesso e compaiono progetti paralleli e antagonisti alla Voce del Padrone a complicare il quadro.

Si giunge ad un punto in cui la cosmopolita comunità scientifica, isolata in una vecchia base nucleare nel deserto del Nevada, si sfilaccia in rivalità e personalismi che mettono in dubbio la stessa esistenza della «lettera» dallo spazio. Il protagonista si prende molto sul serio e Lem, nascosto dietro le righe si diverte a ridicolizzare, se non a demolire, non solo i vari personaggi ma l’intero sistema americano del quale pur proponendone l’efficiente e abbagliante immagine, in realtà ne mette a nudo pochezza e vanità. Soprattutto feroce Lem si dimostra contro certi elementi della cultura americana quali la psicoanalisi, il consumismo, le comunità accademiche, la casta dei politici democraticamente eletti e dei militari. “Una civiltà divaricata sul piano tecno-economico come la nostra, con un’avanguardia che sguazza nel benessere e una retroguardia che muore di fame ha già, proprio per questa sua divaricazione, una linea di sviluppo chiaramente tracciata”, riflette Hogarth

Il finale è tutto da leggere – e da sottolineare per ampi tratti! –. Qui Lem supera se stesso e se la parte centrale del romanzo incorre nel rischio di essere ripetitiva e faticosa, l’ultima parte si legge d’un fiato e lascia appagati.


La Voce del Padrone  è uscito nel 2010 presso Bollati Boringhieri con bella traduzione dal polacco di Vera Verdiani.

martedì 7 ottobre 2014

TRUE DETECTIVE

SERIE TV HBO - 2013




Louisiana, area del Delta. Atmosfera appiccicosa, sudaticcia. C’è un omicidio, probabilmente un serial killer, ci sono due detective dai caratteri opposti. C’è un’indagine federale sugli stessi detective e qui la vicenda si complica. Proprio come il corso del Mississippi in prossimità della foce, anche la storia segue rivoli diversi, meandri apparentemente morti. Il ritmo rallenta, il tempo, inteso come durata, si dilata. Il racconto entra nelle menti dei caratteri, si fa introspettivo. E ci sono i paesaggi del profondo Sud, intrisi di spiritualità fervente, di miseria e di squallore. E c’è il commento musicale, country-blues, naturalmente. 

True Detective è un labirinto, i sentieri si biforcano, tornano al punto di partenza, tracciano depistaggi circolari, catturano e innervosiscono perché il meccanismo pare che si inceppi, che lo svelamento non avvenga. E proprio quando la verità sembra vicinissima si è di nuovo riportati indietro di molte caselle.  

Guardando i primi episodi della serie TV che ha come slogan la frase “touch darkness and darkness touches you back”, già culto negli USA, ho pensato a Twin Peaks ma poi, riflettendo mi sono accorto che l’ovvio accostamento era solo di superficie. True Detective è molto più profondo e inquietante. 

Se l’omicidio che apre la serie è sì terribile ma dopo CSI potremmo definirlo standard, è l’ordinarietà dei contesti umani che disturba: la famiglia del detective ‘senior’ Marty, l’ambiente di lavoro, dei colleghi al distretto, i quartieri popolari fatti di case prefabbricate e roulotte, i bar e le stazioni di servizio, i complessi industriali in mezzo agli acquitrini. Tutto questo viene rappresentato senza il minimo intento di fare sociologia, è solo un pezzo di “vera” America mai visto in una serie TV. 

E allora non è Lynch il riferimento giusto. Bisogna cercare in altro territorio, quello della letteratura: McCarthy, Lansdale e Ellroy, eccoli i punti di contatto.