cinema

domenica 27 novembre 2011

FANTAGEOPOLITICA DELL'EUROPA

NIALL FERGUSON
WALL STREET JOURNAL - 19 NOVEMBRE 2011


Sul WSJ di sabato 19 novembre, lo storico Niall Ferguson ha pubblicato un gustoso quanto provocatorio articolo sul futuro dell’Europa. Ripreso interamente dal Foglio di mercoledì 23 novembre, nei giorni successivi è stato citato in numerosi articoli e interviste su varie testate nazionali. Proprio questa mattina ne parla sul Corriere anche il banchiere svizzero Antonio Foglia.
Propongo le illustrazioni che accompagnano l’articolo del WSJ e una mia elaborazione cartografica che ne rappresenta il contenuto.


Peter Arkle - WSJ



Mark Nerys - WSJ
Gi italiani lavoreranno come camerieri o giardinieri per i tedeschi, i quali avranno tutti una seconda casa nella Holyday Belt


Getty Images - WSJ





giovedì 24 novembre 2011

SAWHNEY / BRIAN ENO / CABARET VOLTAIRE

ON THE SAME HILL - 1978
FOURTH SHOT - 1979





L’ascolto di Say you will, dall’ultimo album di Nitin Sawhney, ha innescato una miccia. Il suono del sarod nell’incipit del brano, prima del cantato, mi ha riportato, istantaneamente, ad un preciso momento, sepolto tra gli anni.

Musica della memoria. Giornate fredde di quando il freddo non si sentiva. Music for films, copertina ruvida, pesante, musica a creare ambienti. E l’ambiente era la camera picta blu Klein, aperta al bosco, oltre il canale. Tappezzeria sonora che anticipava le chill room e tra le modulazioni minimali un pizzicato di corda sovraesposto. Ed erano scosse lungo la schiena. On the same hill è il lampo che illumina, la fiamma che riscalda.

Sono passati molti anni, una trentina, ma l’istante di quell’ascolto lontano, in amichevole compagnia, è tornato all’avvio di Say you will. Non c’è un diretto legame tra Sawhney e Brian Eno ma l’aura dei due brani è la stessa, almeno per il mio inconscio se piacevoli ricordi, anzi, tutta una stagione, addormentati in un angolo della memoria, sono tornati a destarsi.

Ma i ricordi sono mercurio vivo e zampillano in ogni direzione. Say you will risveglia On the same hill, l’esatto momento di un suo ascolto, quell’ambiente che rimanda subito ad un altro ambiente, il My Clubbino. Un buio pomeriggio invernale,  sul piatto Mix-up dei Cabaret Voltaire. Fuori la pioggia, la musica a riempire il nostro rifugio con i cupi rumori della civiltà industriale, il suono continuo, lacerante come lama che s’infila nel tessuto emozionale. Fourth shot, giornate di sex (più immaginato che fatto), drugs (viste consumare dagli altri) e rock’n’roll (questo sì, consumato ad overdosi), giornate che andavano a formare un’esistenza.

Appare Mnemosine, richiamata da qualche nota di sarod.

Say you will. Take the fall
Lose your pride. Lose it all
Walk away. Let it go
Smile again. Let it show
Say you will
Time will pass you by

Say you will, Nitin Sawhney
Last days of Meaning, 2011

Nitin Sawhney

domenica 20 novembre 2011

NITIN SAWHNEY

LAST DAYS OF MEANING
NITIN SAWHNEY - 2011




È da qualche anno che seguo Nitin Sawhney e adesso mi gusto il suo ultimo lavoro. Lavoro molto meditato, un concept che segue i pensieri e gli stati d’animo di Donald Meaning, un incattivito uomo del nostro tempo che vive rinchiuso in casa a inveire contro il mondo. Un uomo solo, abbandonato dalla moglie che gli ha lasciato un registratore con un demotape che contiene la serie di canzoni che costituisce l’album. Le canzoni, intervallate dalle imprecazioni di Meaning, interpretato dal grande attore John Hurt, ricostruiscono un’esistenza, un percorso che si chiuderà proprio con un’apertura verso il mondo, la luce, il sole. Last days è un bel disco, il più maturo del compositore inglese. L’idea del concept riprende quanto già sperimentato in London Undersound del 2008, album interessante ma non pienamente calibrato. Anche lì c’era l’idea di intervallare le traks da interludi, in quel caso situazionali-ambientali  rumoristici, legati alla metropolitana londinese.

Questo progetto è invece più omogeneo, studiatissimo in ogni particolare, con alcuni brani davvero belli. Nitin è autore dei testi, delle musiche, produce, arrangia e suona vari strumenti (chitarre, basso, banjo, ukulele, piano, programmazioni elettroniche…). La strumentazione è ampia e policroma e va dagli archi classici alle percussioni agli strumenti della tradizione indiana. Impeccabili tutti i collaboratori, cantanti e musicisti, tra i quali spicca il giovane ma già riconosciuto ‘grande Maestro’ Soumik Datta, virtuoso del sarod, strumento a corde dell’Hindostan.

Musicalmente l’album è il tipico crossover di Sawhney, sia tra vari generi musicali che tra aree geografiche e culturali. Si parte con un diabolico blues con tanto di armonica e la potente voce di Yolanda Quartey e a seguire brani che mescolano oriente e occidente, ambient e cadenze urban, ballate pianistiche e pop songs etnoelettroniche.

Last Days of Meaning va ascoltato tutto di seguito per coglierne l’impianto unitario di base sul quale si innestano i veri episodi esistenziali. Tra di essi mi piace ricordarne in particolare due, Say you will, con un sarod che mi ha istintivamente riportato a un brano di Eno del 1978 a cui sono molto legato; Taste the air con Natty vocalist a ripetere il miglior brano di London Undersound, Days of fire.

mercoledì 16 novembre 2011

CREDIT CRUNCH AL CINEMA

MARGIN CALL
J. C. CHANDOR - 2011




A: film sul mondo della finanza e del denaro ne sono stati fatti molti ma questo è forse il primo tentativo di spiegare quanto sia successo in America tra 2007 e 2008.

B: e non si tratta di un documentario come l’eccellente Inside Job. Questo è proprio un film. Anzi, sembra quasi una pièce teatrale.

A: unità di tempo, luogo ed azione, secondo il canone. Tutto si svolge in 24 ore nella sede di una grande società finanziaria dai vetri dei piani alti della quale si domina lo skyline di Manhattan. Il giorno più lungo di una non nominata Lehman Brothers.

B: non si tratta della Lehman ma sicuramente quanto è successo quel 15 settembre ha influenzato certamente l’oscuro regista che si è anche scritto la sceneggiatura. Una vera sorpresa.

A: il credit crunch dall’interno, dagli uffici high tech, dai consigli di amministrazione convocati d’urgenza, colletti bianchi con le cravatte allentate.

B: l’inizio è sconvolgente. Dialoghi ai minimi termini, gesti e sguardi eloquenti. Con professionalità chirurgica si licenziano interi settori operativi. I dipendenti riempiono gli scatoloni e lasciano il posto di lavoro.

A: le prime sequenze hanno colpito anche me. Penso però che i caratteri siano un po’ schematici e si capisce subito quale sarà il ruolo del geniale mago dei numeri. Però la scelta del regista di procedere per sottrazione l’ho trovata molto intelligente. J. C. Chandor si mantiene sul filo della storia, senza concedersi nessuno scostamento. Come diceva il grande Carver della propria scrittura: ”io non taglio fino all’osso, taglio fino al midollo”. E qui tutto ciò che non ha a che fare con l’unità drammatica rimane fuori.

B: con una eccezione, l’apertura finale sul privato di Sam, ma è un attimo. Sì, hai ragione. Il film taglia via ogni accenno alle vite private, ai rapporti interpersonali. C’è solo l’analisi spietata dell’evento.

A: in realtà i rapporti tra i vari personaggi reggono il film però sono quasi deumanizzati. I personaggi sono funzioni , tra l’altro distribuite secondo livelli gerarchici ben definiti.

B: definiti ma precari, mobili. Come ogni gerarchia si può anche salire, come si può scendere.

A: sì, ma sempre in relazione all’azienda. In questo senso parlavo di deumanizzazione.

B: ma questa è la forza del film. E anche la sua presa di posizione contro il sistema. Margin Call è uno straordinario film di denuncia che lascia la bocca amara, molto amata.

A:  mi viene in mente un breve testo teatrale di Dürrenmatt, La caduta. Tutto un altro contesto, anzi, opposto, ma il ‘midollo’ posto alla luce del sole è lo stesso.

B: eccellente il cast. A me è piaciuto molto Stanley Tucci e il suo personaggio presente/assente, anche questo ben noto espediente narratologico.

A: bravo Tucci e bravo Kevin Spacey, gli altri piuttosto piatti, con un Jeremy Irons al minimo sindacale. Comunque un film che mi è piaciuto, con qualche riserva. Regista da tenere d’occhio.

B: a me è proprio piaciuto. Se penso ad un altro film ‘aziendale’ tutto interni, Il grande capo, dell’insopportabile – e inguardabile – Von Trier, non ho il minimo dubbio a definire Margin Call un gran bel film.

A: si tratta di due film profondamente diversi, e già che ci siamo, citiamo l’ottima serie TV The Office. Però su Von Trier siamo d’accordo.


domenica 6 novembre 2011

GAETANO CARLO CHELLI / MAURO BOLOGNINI

L'EREDITA' FERRAMONTI
1884 / 1976




Gaetano Carlo Chelli, pubblicista nato a Massa nel 1847, dopo aver agitato la sonnolenta vita culturale apuana, nel 1874 si trasferisce a Roma dove frequenta i circoli della Destra storica e diventa amico dell’editore Angelo Sommaruga.

Liberale, anticlericale e antisocialista, nella Roma umbertina conduce vita disinvolta tra politici, giornalisti, letterati. La realtà ricca di fermento della novella capitale d’Italia ispira a Chelli una serie di racconti e romanzi, tra i quali spicca L’eredità Ferramonti, pubblicata nel 1884.

Chissà se Luchino Visconti conosceva il romanzo. Forse lo avrebbe trovato letterariamente troppo modesto da stimolare i suoi interessi come invece è accaduto a Mauro Bolognini da cui  ha tratto un film che ha come impronta proprio quella di Visconti.

Un padre di fronte ai suoi tre figli affronta rudemente la questione della spartizione del patrimonio. La ‘roba’ è all’origine di un odio reciproco che porta alla divisione rancorosa dalla famiglia, al tutti contro tutti. La sorella avida e mediocre, il parassita bon vivant, l’inetto, i figli. Burbero e autoritario il padre. In questo gruppo di famiglia in un interno entra in scena Irene, la sposa dell’inetto e i frantumi familiari si ricompongono per poter di nuovo deflagrare.

I personaggi si muovono in interni ricostruiti con esattezza filologica, dove specchi moltiplicano i punti di vista, sullo sfondo della Roma in trasformazione di fine Ottocento. Il paesone campagnolo sta diventando il centro politico dell’Italia unita tra appalti, ministeri e mediocri politici cisalpini, speculazioni.

Il tipo di narrazione rimanda al testo e si inserisce nel milieu culturale positivista: l’interesse si concentra sullo studio di un carattere, quello di Irene, che senza alcuno scrupolo mette in atto la propria strategia esistenziale. Nel contempo vengono registrate le reazioni che il carattere principale scatena negli altri elementi della storia, senza mai dimenticare il più ampio contesto storico-sociale.

Bolognini riesce a tenere in mano i vari fili dell’ordito con efficacia anche grazie all’insieme della troupe che dà il giusto contributo in ogni aspetto. Eccellenti i costumi, le scenografie, gli arredi. Non convenzionale e riuscita la fotografia che fa di Roma una città intrisa di umidità, dominata dagli smorzati colori fangosi a contrasto con i toni carichi degli interni. Particolarmente adeguata la scelta dei sei attori principali, tra i quali risplende una bellissima Dominique Sanda, che il regista riprende avendo come riferimento la pittura del periodo.