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giovedì 25 giugno 2015

DANIEL PATRICK QUINN

LAVORI RECENTI 2014 - 2015

One More Grain: Quinn & Blick

Dietro  alle composizioni musicali contemporanee è sempre più frequente scorgere mappe che possono riprodurre luoghi situati ad angoli opposti del mondo. Con la world music questo è diventato comune. Gli incontri tra artisti di paesi diversi e le contaminazioni tra i vari generi costituiscono il tratto precipuo della contemporaneità musicale. Per Daniel Patrick Quinn questo discorso può valere in maniera esemplare, ma solo se ci si ferma alla superficie fenomenica. In realtà, il suo profilo di compositore ‘globale’ è molto più complesso.

Musicista totale e non propenso al compromesso, il trentacinquenne Daniel Patrick ha realizzato, come solista, una manciata di lavori tra il 2003 e il 2007, oltre a qualche collaborazione con altri musicisti. Tutt’altro che prolifico, quindi. Tanto che, deluso dal music system contemporaneo, decide di cambiare vita e trasferirsi a Giava. In Indonesia vive insegnando inglese e scrivendo di vulcani. Sono anni di immersione nella cultura locale, in cui la musica ha un ruolo decisivo. E qui sta la differenza tra il fascino e la facilità della citazione esotica e il farsi invece assorbire totalmente da un patrimonio di conoscenze lontano dal proprio. Scelta esistenziale, quindi, più che estetica.

Rientrato nel Regno Unito e stabilitosi nelle Ebridi, Quinn innesta il suo vissuto indonesiano alla tradizione folklorica delle isole scozzesi. A questo connubio si aggiunge la propria formazione basata su un eclettismo che va dal pop-rock all’ambient, passando per il minimalismo. Il frutto di queste sollecitazioni si vede sette anni dopo l’ultimo lavoro solista, ed è il sorprendente Acting The Rubber Pig Redux del 2014.  Segno di un rinnovato entusiasmo, dopo meno di un anno Quinn fa uscire, con un vecchio sodale come il trombettista Andrew Blick, un nuovo album a nome One More Grain.


 Ed è proprio il caso di parlare di entusiasmo. La voglia e il gusto di comporre e di suonare si palesa in ognuna delle nove tracce di Grain Fever ed è una gioia l’ascolto di questa musica ispirata.

martedì 21 aprile 2015

SUFJAN STEVENS

CARRIE & LOWELL - 2015



Come nella più classica tradizione lirica, è il dolore che ispira Sufjan Stevens. Dolore causato da una perdita, quella della madre. L’assenza suscita il ricordo, legato a momenti e luoghi precisi. Carrie&Lowell vive di questi momenti ma non solo.

Il fatto più naturale del mondo, la morte, resta in un angolo oscuro, remoto, indefinito, fino a quando non lo sperimentiamo direttamente. Allora il mistero acquisisce la forza della realtà effettuale e impone domande.

Stevens costruisce il suo ultimo album su queste domande che lo portano a confrontarsi con gli elementi della cultura e della spiritualità. Ecco che, oltre alla situazioni del passato, oggettivate nel paesaggio dell’Oregon, si fanno fitti i riferimenti alle Scritture e alla mitologia classica.

Questo materiale, che è sia concreto che intellettuale, viene assimilato e ricomposto da Sufjan Stevens in chiave esistenziale, in testi che hanno un’origine profondamente personale ma che l’autore, con delicata maestria, riesce a rendere universali.


Le liriche esprimono al meglio questo insieme di ispirazione, le musiche e il canto sono perfettamente funzionali alle intenzioni. Ne scaturisce un album che da subito si afferma come un classico della cultura popolare. Carrie&Lowell supera i confini della ‘musica rock’ e allo stesso tempo ne rimane all’interno. Si può dire che risulta essere tra le manifestazioni più rappresentative di un intero genere, tale da costituirne una delle sue forme canoniche.

martedì 31 marzo 2015

BRISTOL SOUND

SCENA MUSICALE DI BRISTOL 
1979 - 1991



Oltre l’estuario c’è il Galles di Dylan Thomas e di John Cale. A Bristol, nella taverna dell’Ammiraglio Bembow, Jim Hawkins vide entrare “un vecchio marinaio, alto, forte, dal viso abbronzato, dal codino incatramato falling over the shoulder of his soiled blue coat”.

Intorno al 1976 anche tra i kids di Bristol si diffondeva il morbo del rinnovamento musicale. Alla discarica il sinfonismo e la psichedelica, basta l’incazzatura contro il mondo per mettere su una band e urlare in faccia ad altri incazzati la propria rabbia e la propria sfiducia. God Save e The Clash 1977 sono lo spartiacque generazionale. Se lo hanno fatto Lydon e Joe lo può fare chiunque. Anche a Bristol. Si forma così il Pop Group, ed esplodono le bombe.

Due album micidiali e altri pezzi sparsi di estrema potenza e bellezza come Genius or lunatic, She’s beyond good and evil, Color blind che innascano un’autodistruzione creativa. Schegge del Pop Group genereranno altri capolavori come il folle jazz isterico di Rip Rig and Panic o l’hop industriale di Stewart and Maffia, che vanno a pescare l’inno Jerusalem, di William Blake, e lo fanno diventare il vertice programmatico del collettivo.

È nell’humus fertilissimo di Bristol, città natale di Robert Wyatt, che nascerà, tra fine ’80 e l’inizio dei ’90, il trip hop che nelle sonorità dub di Stewart irrobustirà le proprie radici. Il frutto è Blue lines dei Massive Attack. Gli angoli si sono smussati, il suono è vellutato ma sotto la levigatura ribolle lo spirito bristoliano dei quindici anni precedenti.

Le tappe

1979 – Y, The Pop Group
1980 – For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, The Pop Group
1980 – We Are Time (Compilation), The Pop Group
1981 – God, Rip Rig & Panic
1982 – Jerusalem, Mark Stewart & The Maffia
1983 – Learning To Cope With Cowardice, Mark Stewart & The Maffia

1991 – Blue Lines, Massive Attack



sabato 28 febbraio 2015

THE POP GROUP

CITIZEN ZOMBIE - 2015

Bruce Smith e Mark Stewart 

Un paio di album tra 1979 e 1980, giusto per segnare una svolta nel tracciato della contromusica giovanile. Quei ventenni “vestiti di grigio prima di Ian Curtis, che veniva ai nostri concerti con Julian Cope”, sul palco incarnavano il puro nichilismo più degli stessi Pistols, ormai canonizzati. Sarebbe seguita altra musica, incasellata sotto varie etichette, attribuita a molteplici nomi. E si diventa presto reduci, della serie “noi eravamo tutto prima”. Si coltiva il proprio culto di cult-band e si vive di esso. Mark Stewart ha continuato ad essere il giovane Mark Stewart per una vita intera.

Dopo trentacinque anni il Gruppo torna con una ‘nuova’ raccolta di inediti. Un nuovo album del Pop Group, con la stessa lineup del 1980. Per chi li ascoltava allora si tratta di un evento, da prendere con le molle. Perché operazioni come questa, in genere, sono patetiche e, di conseguenza, tristi. I quattro vanno per i sessanta e dalle varie interviste rilasciate da Stewart negli ultimi anni, tra le quali una molto bella a The Quietus, sembra proprio che nulla sia cambiato rispetto al ventenne iconoclasta. Anche le foto ‘promozionali’ del Pop Group fanno stringere il cuore. Si prova una certa soggezione di fronte al nuovo prodotto ed anche la paura di una delusione. Sarebbe quasi meglio lasciar perdere. Invece la tentazione è troppo forte, l’album va ascoltato.

C’è forse dell’ironia nel titolo Citizen Zombie, e sarebbe la cifra giusta per una reunion come questa, ma immediatamente, dalle prime note, non c’è alcun dubbio: è il Pop Group e gli zombie della title-track d’apertura sono gli altri, le masse stordite dal consumismo. Concetto non proprio originale! Stewart si prende molto sul serio. È, come sempre, convinto di essere il più grande situazionista in circolazione. Gareth Sager non tradisce il suo amore per la musica nera, in particolare per il funk, il marchio che caratterizza il Group da We Are All Prostitutes e She’s Beyond Good and Evil.

Superato lo ‘shock temporale’ di essere ripiombati a trentacinque anni fa, il disco si ascolta volentieri. Ci si diverte, si sta allegri. Il meglio dell’album si trova nelle tracce ‘ballabili’, da “haunted dance hall”, dove il Bowie del periodo Nile Rodgers si coniuga con quello abrasivo della trilogia berlinese.

Dopo ripetuti ascolti, ci si sente sollevati, Citizen Zombie regge. La paura di un penoso ritorno svanisce di fronte all’entusiasmo dei quattro, che ci danno dentro con lo stesso spirito di Y.


martedì 10 febbraio 2015

ABDULLAH IBRAHIM

EKAYA - 1983
MINDIF - 1988


I ragazzi si erano dati da fare tutto il pomeriggio per montare un assito di tavole. Ora che il sole, basso sull’orizzonte, dava tregua, si erano messi a sedere sulla sabbia e si passavano le bottiglie di birra. Una brezza salsa saliva dal mare e accarezzava, rinfrescandola, la pelle. Dai fornelli, dietro i cespugli dei tamarindi, salivano profumi invitanti. A levante il cielo era di un indaco intenso. Tra poco sarebbe spuntata la luna.

I musicisti si stavano preparando, qualche nota isolata illanguidiva la spiaggia. Incitamenti e battiti di mani erano il preludio della festa. Partì discreto il suono del gambray, delineando un movimento sinusoidale su cui s’inserì il flauto. Del sole restava una luminescenza verdastra sopra la linea scura dell’orizzonte. Dopo la sognante introduzione la festa entrò nel vivo. I colori di un mercato africano scoppiettavano sostenuti dalle frasi dei sax. Si alzarono tutti e cominciarono a ballare sull’instabile pista di legno.

I sette musicisti tirarono per una decina di minuti poi si presero una pausa con un brano più lento: un misto di blues del Delta e milonga portegna , dei quali tuttavia non aveva la tipica tristezza ma la sensualità contagiosa. L’assolo del bassista si sovrapponeva alla risacca che si infrangeva sui ciottoli della battigia.

Il ritmo tornava ad accendersi spinto dai chiari accordi delle tastiere che duettavano con i fiati, tra i quali si facevano largo per l’assolo, il sax tenore e il trombone. Nessuno poteva resistere. Nella sera c’erano sentori di deserto arabico e di Caribe, di western jazz e di foresta vergine. Una serata indimenticabile.







Dollar Brand, Abdullah Ibrahim dopo la conversione all’Islam nel 1968, è un musicista sudafricano. Nato nel 1934 al Capo, ha suonato con i più grandi musicisti jazz. Ad ottant’anni suonati, continua a fare concerti in giro per il mondo. L’album Mindif è la colonna sonora del film Chocolat, della sottovalutata regista francese Claire Denis.


lunedì 9 febbraio 2015

WHIPLASH

WHIPLASH
DAMIEN CHAZELLE - 2014




All’entrata del maestro di musica in classe gli allievi restano immobili, sembra quasi che non possano respirare. Asciutto, militaresco, vestito di nero, occhio acceso dalla febbre per il suo lavoro più che per la musica in sé. Ma le passioni, se superano un certo limite, diventano ossessive, morbose.

Andrew ha diciannove anni, più che la passione per la musica ciò che lo motiva è il desiderio di primeggiare, che lo porta ad isolarsi, a guardare gli altri come sfidanti da sconfiggere. Tale atteggiamento competitivo,  più che del musicista è tipico dello sportivo. Anche Andrew supera il limite.

Whiplash racconta questo superamento del limite, che diventa per entrambi ossessione, il quale, indipendentemente dalla musica, deve manifestarsi con l’esibizione dello scalpo, del trofeo, sia esso la vittoria al concorso scolastico o la conquista del posto di batterista base. Questo è molto distante dallo spirito musicale, artistico, umanistico. Ma di umanistico, e verrebbe da dire, di umano,  c’è ben poco nel rapporto tra maestro e allievo.

Nella prima parte del film viene raccontato l’incontro, l’immediato riconoscimento e l’impostazione relazionale tra i due protagonisti. I quali hanno capito tutto fin da subito, quindi ciò che il regista propone è un crescendo di situazioni, verrebbe da dire inutili, che giungono al sadismo. Il maestro, ovviamente più navigato, conduce il gioco al massacro e di vero e proprio massacro si tratta, con relativo spargimento di sangue. Gocce di sangue sporcano la batteria. Tale cattiveria non può essere giustificata dall’assunto educativo che non bisogna mai gratificare l’allievo dicendogli ‘ben fatto’. Secondo il maestro, infatti, solo mortificando l’allievo si potrà ottenere da lui il massimo.


Se la tesi che il regista propone è fastidiosa e discutibile, non per questo il film non è riuscito. Tutt’altro. Nella parte finale si succedono sorprese e cambi di prospettive emozionali che ribaltano continuamente le situazioni. Regia da migliori serie Tv (Glee, Fame); attori un po’ troppo da Metodo Stanislavskij. Ottimo prodotto.  

mercoledì 31 dicembre 2014

BEST MUSIC 2014

PLAYLIST DI FINE ANNO - 2014





Le uscite musicali del 2014 non sono state esaltanti. Dando un’occhiata alle playlists di fine anno delle più importanti testate musicali, album dell’anno è senz’altro Lost In the Dream di The War On Drugs, di cui non sentiremo più parlare. Le seguenti sono invece le mie scelte musicali delle quali non solo non se ne sentirà parlare ma, per la maggior parte di esse, non se ne parla proprio.

Disco dell’anno: The Night Is Young, The 2 Bears

Best Songs:

1. Witness, Brian Eno / Karl Hyde

2. Lampedusa, Toumani & Sidiki Diabaté

3. Drinking from the River, Steven James Adams

4. Can’t Do Without You, Caribou

5.  La fine di uno scarafaggio, il Rondine



Witness, Eno / Hyde

Well Well Well Well Well Well Well Well
Between One-Two Am
I Miss You I Miss You
Again And Again And Again

You Used To Be Magnificent
Luck Pours Out Of You
Streets Go Dark And Dirty
All The Cracks Come Out To Dance And Play Tonight
 
Lost In All And In Their Eyes
Everybody Wants You
Gathering Around Your Sun And Moon
Your Sun And Moon

Did You Ever Dream The End Of The World, Watching Everything You Love Slip Beneath The Fun
Did You Ever Witness

Jungle Tiger Numbers Diamonds Voltage Hello Clouds Fire Summer Night Gloss Niceness Dreaming Bush Silence Cars Dancing Chess Landscape Irons Sun Moon Drums

Did You Ever Lose Your Faith For A Day
Seeing Everything Slip Away

Did You Ever Take A Ride
Or A Ride A Ride A Ride
Along The Road Taken All Your Life
 
Only To Find It Didn't Go To The Place You Thought It Would Arrive

Well Well Well Well Well Well Well Well
Between One-Two Am
I Miss You I Miss You
Again And Again 





martedì 18 novembre 2014

GODDARD&RUNDELL

THE 2 BEARS
THE NIGHT IS YOUNG - 2014



Joe Goddard&Raf Rundell, in arte The 2 Bears, vogliono divertirsi. Vanno sul palco travestiti da orsi e producono musica che diverte. Comporre canzoni per i club danzerecci di Londra non significa automaticamente fare della musica dozzinale, ripetitiva e martellante. Già con il primo albun, Be Strong, il duo ci aveva deliziato con pezzi orecchiabili, ballabili, dai testi con sfumature leftist ma anche provocatoriamente banali. Il risultato era un album riuscito a metà, forse realizzato in fretta con dell’inutile materiale di riempimento.

Sono trascorsi più di due anni e i due hanno lavorato per fare le cose in maniera più professionale ma sempre mantenendo come obiettivo quello di divertire in modo intelligente e, a loro modo, impegnato. Alla Matt Johnson The The o alla Mattafix. Si potrebbe dire che ci stanno prendendo gusto e quella che poteva essere una goliardata con questo secondo The Night Is Young diventa una cosa seria. 

Goddard&Rundell continuano a fare electrodance ma il genere va ormai decisamente stretto a definire le tredici nuove tracce, per oltre un’ora di musica. Con tanto materiale facile cadere di livello invece il disco tiene, tranne per un solo episodio. Sorprende, ma non più di tanto, la virata ‘world’, già percepita in qualche episodio di Be Strong. Il disco è in parte registrato in Sudafrica e si sente. Sapori africani sono presenti in molte delle canzoni, basta citare la bellissima title-track o Son Of The Sun. Ma c’è anche l’urban reggae di Money Man o Run Run Run con le percussioni quasi tribali. Intendiamoci, The 2 Bears non fanno misica avant-guard o sperimentale, fanno dance che pesca dai Tavares alle produzioni di Curtis Mayfield dei ’70 o dalla Detroit Techno degli anni Novanta che suona però inconfondibilmente contemporanea. L’esatto opposto del copia-incolla dei Daft Punk.


Insomma, The Night Is Young è un disco che mette di buon umore. È il mio disco dell’anno.

Joe e Raf

mercoledì 12 novembre 2014

BÉLA BARTÓK

MUSICA PER ARCHI, PERCUSSIONI E CELESTA - 1936

Bartok con la figlia - 1916

Circa venti anni fa l’amico Guido mi regalò i sei quartetti per archi di Béla Bartók. Li ascoltavo nella vecchia casa di famiglia, di fronte ad una finestra rivolta a nord est che dava sui tetti delle case vicine e, sullo sfondo, su una porzione di ripide colline verdi di pini e di ontani. Oppure mi accompagnavano nei tragitti in macchina per andare al lavoro. A quel tempo facevo quasi tre ore di viaggio, tra andata e ritorno, attraverso paesaggi incantati. Quei viaggi durarono per oltre sei mesi e i quartetti di Bartók erano tra gli ascolti più frequenti. Inevitabilmente il compositore ungherese è legato a Guido, che già da molto tempo non c’è più, alle colline viste dalla finestra e ai lunghi tragitti solitari. Da allora, se non occasionalmente, non ho più ascoltato Bartók. E ancora per caso, mi sono imbattuto, mentre stavo lavando i piatti, in una trasmissione radiofonica dove un competente ed appassionato conduttore guidava all’ascolto della Musica per archi, percussioni e celesta composta da Bartók nel 1936. È stata una folgorazione.

Definire questa musica onirica è fin troppo banale ma l’ascolto equivale ad una discesa, quasi ad una caduta, nell’immaterialità di costruzioni mentali angosciose. Questa è la sensazione che si prova al primo ascolto, dove colpiscono soprattutto il crescendo e la successiva improvvisa serie di salti discendenti del primo movimento; il piano usato come percussione e i pizzicati nel secondo movimento; lo xilofono e gli archi strazianti del terzo movimento. Tre movimenti che contribuiscono alla costruzione di un’atmosfera notturna da incubo,  che si scioglie con lo sfrenato, liberatorio, quarto movimento.

Grazie alla guida del compositore Luca Mosca, si entra facilmente nella complessa struttura dell’opera. Si riesce così a comprendere quanto essa sia giocata su un numero limitato e ripetitivo di cluster formati da frasi semplici che ritornano in fugati, a canone, eseguiti al contrario in una successione di simmetrie e variazioni che attraversano tutti i quattro movimenti, spesso seguendo schemi a chiasmo o esecuzioni per intervalli rovesciati. Questo andamento a ritroso, queste alternanze recto/verso mi hanno fatto pensare alle teorie di Pavel Florenskij sul tempo rovesciato nel sogno.


Dopo l’ausilio della guida, gustare la Musica per archi, percussioni e celesta si sta rivelando un’esperienza emozionante. Sono riuscito ad ascoltare le interpretazioni di Karajan, Boulez e Bernstein. Forse quest’ultima è quella che preferisco.

sabato 18 ottobre 2014

STEVEN JAMES ADAMS

HOUSE MUSIC - 2014


Divertente il doppio senso del titolo dell’album di esordio di Steven James Adams (SJA). Non siamo in ambito dance, questa musica è proprio fatta in casa, letteralmente. Un gruppo di amici, mezzi limitati, entusiasmo e buone idee. Aggiungiamo la qualità dei musicisti, le sorprendenti doti di SJA ed ecco un vero e proprio gioiello. E quali sarebbero le doti del musicista inglese? La misura e l’ironia. Ma questo non basterebbe se non avesse anche la capacità di comporre canzoni e di cantarle e di suonarle in modo da catturare fin da subito l’ascoltatore.

Eppure non si tratta solo di orecchiabilità. Certo la sapienza di confezionare tipici brani pop è innegabile ma c’è dell’altro. Questo altro fa sì che il risultato complessivo sia superiore alla semplice somma degli addendi (voce, testi, arrangiamenti).


Niente da dire, l’apprendistato di SJA in vari gruppi ha fatto maturare nel musicista la consapevolezza di potersi cimentare come solista e questo suo esordio è convincente. Tutte piacevoli le dieci tracce  tra le quali spiccano tre potenziali hits che, per gli insondabili misteri del music business, non saranno mai hits: la matura Drinking from the River; Tears of Happiness, nel cui testo, oltre a zombies e sangue si cita perfino Kenneth Anger !; il singolo perfetto, The Volonteer. Da oltre un mese non riesco a non ascoltare questo album.

mercoledì 16 luglio 2014

COLONNA SONORA

ESTATE 2014




Ultimi impegni in archiviazione, ultime perturbazioni passate. Finiti i mondiali, ci si può disconnettere e si può andare in vacanza. C’è da definire la colonna sonora dell’estate.

George Ezra. Album facilissimo ma si sa, in estate meglio restare leggeri. Sembra un disco della serie Best of… che so, Buddy Holly. Lo spirito è quello di una collezione di singoli. George è un ragazzo inglese che sorprende con la sua voce quasi nera e ben più matura rispetto ai suoi venti e qualcosa. Dopo l’exploit di Budapest qui infila almeno una decina di potenziali hits. Alla lunga tiene un po’ a fatica ma Wanted on Voyage, come confermato dal titolo, è un album ideale per un viaggio.

Altre novità 2014. La sofisticata St. Vincent e la doppia uscita Eno/Hyde vanno benissimo per dare un tocco hipster alle serate illuminate dalla Big Moon. Adatto all’ambiente campestre l’esordio degli irlandesi The Gloaming. Violini tradizionali, tastiere sognanti e una bella voce profonda e ispirata.

Da recuperare anche un paio di classici, casualmente scozzesi. Nel 1973 John Martyn pubblica l’album che vale una carriera: Solid Air. Sublime impasto di voce e chitarra di John con tutti gli altri musicisti in stato di grazia.

Dagli anni Novanta il disco indie-pop perfetto. Bart Bacharach incontra Johnny Marr e gli Housemartins. Sono I Belle and Sebastian. If You’re Feeling Sinister, del 1996, è irresistibile.





martedì 6 maggio 2014

DAMON ALBARN

EVERYDAY ROBOTS - 2014



Infine uscì anche il primo album solista. Dopo pop band, cartoon band, clash band, african band, opera project…

Il concept è semplice, quasi banale: l’alienazione quotidiana alimentata dalle nuove tecnologie. E come idea testuale Damon rimane, a parte qualche lampo, in superficie ma Everyday Robots è un CD musicale ed è la musica che deve essere valutata. Ebbene, musicalmente siamo di fronte ad un quasi capolavoro. O meglio, Everyday Robots contiene momenti di altissima qualità che vanno ben oltre gli standard del pop-rock contemporaneo.

L’approccio complessivo è vicino alla musica colta suonata da un cantautore popolare, il che rimanda ad una certa atmosfera progressive. You and Me, per esempio, vero centro dell’album, può essere definita più una suite che non una canzone tradizionale. L’inizio è grave e il cantato è riflessivo e distaccato nel primo verso poi si fa sostenuto e partecipato nella ripetizione del refrain. Sottofondo di sintetizzatori e note cristalline di piano con in evidenza la chitarra acustica su una cadenza ritmica molto discreta ma caratterizzata dallo steel pan. Damon  si perde tra le ombre cadenti di un carnevale caraibico non proprio allegro e tra i ricordi realistici della dipendenza: stagnola, accendino e buco in vena. Al canto subentra un intermezzo musicale dove il piano traccia un’esile linea melodica che si perde in un momento di discordante atonalità per riprendere la melodia e aprire alla seconda parte completamente diversa rispetto alla prima. Nuovo refrain di poche frasi insistentemente ripetute  e un ponte dominato dalla chitarra acustica quasi barocca che riecheggia le visioni rinascimentali dell’opera Dr. Dee. Infine la coda con la ripresa, solo accennata, del tema dell’intermezzo. Sette minuti che superano ogni produzione musicale uscita in questo 2014.

Il resto dell’album, pur non raggiungendo gli stessi livelli di You and me, è comunque buono e lo si potrebbe definire, utilizzando un’indicazione agogica, mesto con brio, dove il brio riguarda l’unico brano che poco si inserisce nel contesto, Mr. Tembo che se come singolo è una piacevole canzone con molti meriti (coro, atmosfera afro, uso dell’ukulele, recitativo conclusivo a staccare tra gli orecchiabili refrain), risulta quasi spiazzante e, nell’ascolto l’album per intero, fastidiosa.


A parte Mr Tembo e la conclusiva Heavy Seas of Love con Brian Eno, Everyday Robots è un’opera omogenea e coerente in cui Damon si sente a proprio agio e si lascia andare alla sua tipica indolenza crepuscolare. Disco che se ad un primo ascolto può sembrare eccessivamente introvertito e noioso ad un più attento esame si rivela intelligente ed emozionante.

Damon con Kankou Kouyate e Eno a Bamako, Mali

sabato 19 aprile 2014

BEN WATT

HENDRA - 2014


L’attesa è durata più di trent’anni, tanto il tempo che separa il primo album di Ben Watt, North Marine Drive, da Hendra, uscito qualche giorno fa. Nel 1982 la collaborazione con Robert Wyatt aveva portato alla realizzazione di una manciata di belle canzoni raccolte nell’EP Summer into Winter. L’anno successivo usciva l’album di debutto, acustico e minimalista. Comprai i due dischi a Londra in quell’anno e li conservo gelosamente. Devo dire che non ho mai smesso di ascoltarli e mi sono sempre chiesto quando sarebbe uscito un nuovo album di Watt, ed ecco Hendra.

Ben ha cinquantadue anni e si sente. La vita lascia i segni e spesso non si tratta di fatti positivi. Hendra parla di questo ma lo fa cogliendo il contributo alla crescita personale che le esperienze, seppur negative, producono. “You must have faith in spring” canta Ben anche se “Aprile è il più crudele dei mesi”, oppure, in un’altra canzone, si fa notare la bella frase positiva “…as right, not as wrong, as rain”. E nei testi si parla, oltre che di ricordi ed esperienze personali, di stagioni, di prati e  di scogliere.

Hendra è di facile ascolto, tutti i dieci brani che lo compongono sono piacevoli e misurati. Si può definire un album Seventies, con richiami a John Martyn e Nick Drake nei momenti più introspettivi mentre negli uptempo viene in mente uno spirito quasi americano, tipo Steely Dan. Su questo impasto s’inserisce anche una spruzzata di elettronica alla Eno pre-ambient, per citare lo stesso Ben Watt. A conferma dell’atmosfera ’70 spicca la presenza, in The Levels, di un protagonista di quel periodo, David Gilmour, alla steel guitar a pedale.


Hendra non è un capolavoro di innovazione ma Ben Watt ha composto dieci canzoni piacevolissime che scivolano via come nuvole in un cielo ventoso.


giovedì 10 aprile 2014

THE WAR ON DRUGS / SUN KIL MOON

LOST IN DREAMS - 2014
BENJI - 2014

The War On Drugs - Foto Dusdin Condren


Proprio mentre stavo riconoscendo la grandezza  di Nebraska, escono due nuovi album che con Springsteen hanno molto in comune.

Due band dal nome poco felice che in realtà nascondono due cantautori americani della nuova generazione più propensa ad incamminarsi su strade ben note che tentare ‘sentieri selvaggi’. Si prende quello che passa, dando un’occhiata a qualche testata di riferimento. Per entrambi i lavori le valutazioni sono molto alte (minimo 4 stelle).

The War on Drugs il nome del gruppo, Lost in Dreams l’album, Adam Granduciel l’autore. Ballate generalmente mosse, suono morbido e pulito e profondo, tendenza ad allungare un po’ troppo i tempi. Con la seconda traccia, Red Eyes, Granduciel scopre le carte e appare il Dylan ‘di mezzo’ , quello del periodo fine ‘70 – ’80. In quegli anni Dylan era alla ricerca di nuovi percorsi, esistenziali e musicali e si lasciava affascinare da gente tipo Mark Knopfler o Daniel Lanois. Uscivano dischi molto interessanti come Slow Train Coming e Oh Mercy, che altro non sono se non i sogni in cui Granduciel si perde. Con la terza traccia, Suffering, il ritmo rallenta, arriva Infidels e si affaccia anche Springsteen. Non ci saranno sorprese: banale pop-rock ben suonato e di facile ascolto, fatto di intrecci di chitarre e tastiere e qualche nota di sax per cercare di evitare il continuo ripetersi delle atmosfere e caratterizzare qualche brano. Ma è arduo uscire dalla monotonia complessiva.

Vale lo stesso discorso per Sun Kil Moon, gruppo, Benji, album, Mark Kozelek l’autore. Qui siamo al racconto. La prevalenza è della chitarra con la voce in primo piano per dare evidenza alle storie. Sono storie generalmente tristi in cui si parla di parenti morti, di funerali, di carneficine e casi di cronaca nera oppure di quanto amo mia madre e come voglio bene a mio padre, che belle cose facevo quando ero adolescente. Ma tutto è troppo verboso e compiaciuto. Si salva Ben's My Friend, la bella canzone che chiude un disco ripetitivo e autoreferenziale. I modelli, ancora i soliti cantautori americani e soprattutto Nebraska, restano molto lontani.


È difficile improvvisarsi artisti e mi sbilancio dicendo che di questi due album, dopo le attuali incoronazioni a capolavori, fra qualche anno non resteranno tracce.

Sun Kil Moon - Foto Valerio Berdini

sabato 5 aprile 2014

BRUCE SPRINGSTEEN

NEBRASKA - 1982



Springsteen non mette tutti d’accordo. Molti lo amano incondizionatamente, altri non lo sopportano a priori. Personalmente non mi ha mai interessato, con alcune eccezioni:  parte di The River, la romantica Thunder Road e  soprattutto Nebraska. Per questo disco acustico del 1982, l’etichetta di album rock è riduttiva, è infatti più appropriato   parlare di opera tout court, da porla accanto ai migliori dischi di Dylan, alle poesie di  Ginsberg e ai film di Cassavetes.

Nebraska è diverse cose insieme. Dopo il grande successo commerciale di The River che aveva consacrato Springsteen star assoluta della musica popolare americana, uscire con un album acustico, praticamente chitarra e voce, privo di potenziali hit da lanciare sul mercato, era marcare con un colpo di genio la strategia di definizione del proprio profilo artistico. Ci vuole coraggio a proporre ai milioni di fans in attesa del nuovo disco queste dieci canzoni low-fi, tristi, cupe e spoglie come l’immagine di copertina. Non potava esserci concept-cover più adatta di quella di Nebraska: foto in bianco e nero scattata da un interno di auto, oltre il parabrezza un desolato paesaggio invernale, con una strada che si perde verso il grigio orizzonte. Foto in campo nero con lettere scarlatte ad annunciare titolo e autore.

Nebraska è un album narrativo. I testi dei dieci brani possono benissimo essere letti come una raccolta lirica. Siamo nella tradizione americana  dello storytelling. Si possono scomodare il Far West dei pionieri, il Dust West di Steinbeck, lo spirito della terra che va da Whitman a Guthrie ed altro ancora ma il concetto non cambia. Springsteen ci sta raccontando storie e lo fa scegliendo una tecnica narrativa dove chi racconta lo fa quasi sempre in prima persona. C’è un interlocutore (esempio il ‘sir’ di Nebraska, il ‘judge’ di Johnny 99, il ‘mister’ di State Trooper) ma l’effetto, dovuto anche all’interpretazione di Springsteen, è quello di un dialogo interiore. Bruce racconta a noi storie di personaggi (veri e propri caratteri) che parlano a se stessi. Questi monologhi  esondano dalle singole interiorità e compongono vividi frammenti narrativi.

Chi sono questi caratteri e quali storie rivelano? Coppie di giovani killers, rissosi avventori di bar, gente disposta a fare il lavoro sporco. È l’altra faccia del sogno americano, quello degli sconfitti, degli underdog.  Gli scenari sono geograficamente ben definiti. Si va dal New Jersey ai Grandi Laghi fino alle ‘Badlands’ del Wyoming. Dai paesaggi urbani fatti di ciminiere e ponti-radio alle stazioni di carburante lungo le pianure del Midwest. Le ore sono quelle notturne o poco prima dell’alba, le ‘wee wee hours’ che ricorrono in Open All Night e in State Trooper, le quali canzoni contengono anche il bel verso ‘deliver me from nowhere’. E, sempre a proposito di intrecci, un verso in cui si parla di onestà, (‘I got debts that no honest man can pay) torna in tre canzoni con minime variazioni.

Strumentazione ridotta all’essenziale, tematica dei testi, interpretazione sommessa rendono Nebraska un album unitario ma, e qui sta la forza del capolavoro, le dieci parti che lo compongono si succedono secondo una intelligente alternanza ritmica che evita il rischio della monotonia. Ad un brano lento e disteso segue un brano più mosso generando un movimento sinusoidale che attraversa tutto il disco che peraltro si chiude con un’apertura di orizzonte. Infatti l’ultima traccia, Reason To Believe, non contiene la storia di un unico carattere che narra in prima persona ma si compone di una serie di situazioni diverse in terza persona, delle quali l’ultima è la celebrazione di un matrimonio in riva al fiume. E Bruce Springsteen ci saluta con queste parole: ‘Still at the end of every hard earned day people find some reason to believe’.



 
Luoghi e strade di Nebraska

















lunedì 24 marzo 2014

DYLAN THOMAS / JOHN HELIKER / JOHN CALE


DYLAN THOMAS, NOVEMBRE 1953
JOHN HELIKER, 1909 - 2000
JOHN CALE, LIVE BRUXELLES 1992

John Heliker, Tarquinia, 1947

Do not go gentle into the good night, recita il refrain di una celebre poesia di Dylan Thomas, musicata da John Cale. Parla della morte o meglio, del fine vita. Per Thomas le circostanze dell’entrata nella bella notte sono diventate un mito e non si è certi se siano state gentle or not.

È il 3 novembre del 1953. Dylan è a New York, al Chelsea Hotel e ha da poco compiuto trentanove anni ma non sta bene. Ha problemi di respirazione, beve molto, non riesce a dormire, assume barbiturici. In quei giorni a New York non si respira, una cappa di smog avvolge Manhattan e crea grossi problemi a chi soffre di asma. Dopo essere stato tutto il giorno a letto, la sera esce e inizia un tour alcolico in vari bar. Rientra al Chelsea dichiarando ad Elizabeth Reitell, con cui divideva la camera, di essersi scolato 18 whiskies di fila:  “I’ve had eighteen straight whiskies. I think it’s a record. I love you”.

Il 4 novembre Thomas sta male ma continua a bere. Riceve almeno tre volte in camera il dottor Milton Feltenstein che gli somministra steroidi e morfina. Dopo la mezzanotte Dylan è semiparalizzato. Elizabeth Reitell chiama l’ amico John Heliker , buon pittore, e insieme lo portano con un’ambulanza al St. Vincent’s Hospital. È in questi minuti che Dylan avrebbe pronunciato a Heliker le sue ultime parole prima di entrare in coma: “After thirty-nine years, this is all I’ve done”.

Viene avvisata la moglie Caitlin che prenderà un volo per New York. In ospedale pare che le prime parole da lei dette siano state “Non è ancora crepato quello stronzo?”, poi ubriaca e incontrollabile verrà portata in una clinica di Long Island per un rehab.


Dylan Thomas muore il 9 novembre.


Corinth, 1957

The Howard House, 1965

West Dover

Autoritratto, 1970



giovedì 16 gennaio 2014

THE POP GROUP

INTORNO A MARK STEWART 




1976 – 1979, periodo d’oro per la musica popolare. I Pistols danno lo scossone dall’interno del sistema, utilizzando i veicoli della TV di massa e dell’antifashion che diventerà immediatamente trendfashion. Il dado ormai è tratto, e va considerato che nei Pistols oltre a Sid c’era anche Johnny e quindi Pil.

Più credibili i Clash che dopo l’urto frontale di 1977 si metteranno a studiare  (“I  practised daily in my room…”) e si impongono quale secondo vertice di quello si sta configurando come un poligono musicale.  
Intanto la colonie caraibiche contaminano con le loro radici musicali l’incazzatura bianca inglese post-industriale ed ecco gli Specials.

Dall’altra parte dell’Atlantico ai Ramones si affiancano il funky intellettuale dei Talking Heads e la no-wave di James White. La scena newyorkese disegna il quarto vertice.

Mancano ancora alcuni elementi. Il post-punk dei Joy Division è uno di questi. Gli altri sono l’industrial noise dei Throbbing Gristle e delle band di Sheffield infine, last but not least, ecco le perfette simmetrie pop di Gang of Four e, soprattutto, di Partridge e Moulding.

Bene, la cornice è questa. Ma chi assembla tutto per dare origine al vero manifesto – incompreso – di quegli anni è un gruppo di Bristol. Nel 1979 esce Y, la summa della musica contemporanea popolare. Loro sono The Pop Group, chi altri? Ora possono iniziare gli anni Ottanta.

Aprile 1977 The Clash

Ottobre 1977 Never Mind The Bollocks

Aprile 1979  No New York

Aprile 1979 Y

Giugno 1979 Unknown Pleasure

Agosto 1979 Drums & Wire

Ottobre 1979 The Specials

Dicembre 1979 20 Jazz Funk Greats

Dicembre 1979 London Calling

Ottobre 1980 Remain In Lights



Colin Moulding e Andy Partridge, XTC
  

Throbbing Gristle
Brian Eno e James White Chance - No New York