Bruce Smith e Mark Stewart |
Un paio di
album tra 1979 e 1980, giusto per segnare una svolta nel tracciato della contromusica
giovanile. Quei ventenni “vestiti di grigio prima di Ian Curtis, che veniva ai
nostri concerti con Julian Cope”, sul palco incarnavano il puro nichilismo più
degli stessi Pistols, ormai canonizzati. Sarebbe seguita altra musica,
incasellata sotto varie etichette, attribuita a molteplici nomi. E si diventa
presto reduci, della serie “noi eravamo tutto prima”. Si coltiva il proprio
culto di cult-band e si vive di esso. Mark Stewart ha continuato ad essere il
giovane Mark Stewart per una vita intera.
Dopo trentacinque
anni il Gruppo torna con una ‘nuova’ raccolta di inediti. Un nuovo album del
Pop Group, con la stessa lineup del 1980. Per chi li ascoltava allora si tratta
di un evento, da prendere con le molle. Perché operazioni come questa, in
genere, sono patetiche e, di conseguenza, tristi. I quattro vanno per i
sessanta e dalle varie interviste rilasciate da Stewart negli ultimi anni, tra
le quali una molto bella a The Quietus, sembra proprio che nulla sia cambiato
rispetto al ventenne iconoclasta. Anche le foto ‘promozionali’ del Pop Group
fanno stringere il cuore. Si prova una certa soggezione di fronte al nuovo
prodotto ed anche la paura di una delusione. Sarebbe quasi meglio lasciar
perdere. Invece la tentazione è troppo forte, l’album va ascoltato.
C’è forse
dell’ironia nel titolo Citizen Zombie, e sarebbe la cifra giusta per una
reunion come questa, ma immediatamente, dalle prime note, non c’è alcun dubbio:
è il Pop Group e gli zombie della title-track d’apertura sono gli altri, le
masse stordite dal consumismo. Concetto non proprio originale! Stewart si
prende molto sul serio. È, come sempre, convinto di essere il più grande situazionista
in circolazione. Gareth Sager non tradisce il suo amore per la musica nera, in
particolare per il funk, il marchio che caratterizza il Group da We Are All Prostitutes
e She’s Beyond Good and Evil.
Superato lo
‘shock temporale’ di essere ripiombati a trentacinque anni fa, il disco si ascolta
volentieri. Ci si diverte, si sta allegri. Il meglio dell’album si trova nelle
tracce ‘ballabili’, da “haunted dance hall”, dove il Bowie del periodo Nile
Rodgers si coniuga con quello abrasivo della trilogia berlinese.
Dopo ripetuti
ascolti, ci si sente sollevati, Citizen Zombie regge. La paura di un penoso ritorno
svanisce di fronte all’entusiasmo dei quattro, che ci danno dentro con lo
stesso spirito di Y.
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