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martedì 30 giugno 2015

BATTISTA GUARINI

IL PASTOR FIDO - 1587

Jacob Van Loo, Amarilli incorona Mirtillo, 1650

La favola pastorale ‘tragicomica’ è un genere letterario, dalla vita breve ma di successo, che si afferma nel secondo Cinquecento. In quegli anni, proprio la tragicommedia contribuisce ad alimentare un confronto che vede schierarsi i letterati pro o contro quel nuovo genere, nel più ampio contesto del dibattito sulle teorie poetiche di Aristotele. 

Battista Guarini, diplomatico attivo in varie città dell’Italia settentrionale, partecipando al dibattito, si schiera contro il canone aristotelico, in aperta polemica con il Castelvetro. Dopo gli scritti dottrinali, Guarini mette in pratica le sue teorie letterarie con Il Pastor fido, tragicommedia in cinque atti, pubblicata a Venezia nel 1590. 

Opera interessante, scritta in una lingua ‘italiana’ piana e scorrevole, in cui si alternano endecasillabi e settenari. Ricca di artifici retorici (soprattutto figure etimologiche, polisemie, ripetizioni e chiasmi) che però non ostacolano la lettura, la quale procede secondo una musicalità che anticipa il melodramma.

Ma l’interesse del Pasor fido, più che linguistico o storico-letterario, si trova nell’arditezza di certi contenuti. Innanzi tutto, a detta dello stesso Guarini, l’opera deve andare incontro alle aspettative del pubblico. Il Pastor fido  ha come scopo principale l’intrattenimento e, per farlo, deve avvincere, sorprendere e non deludere.

Da una parte si offre al pubblico ciò che esso si aspetta, dall’altro l’autore deve introdurre delle varianti capaci di sorprenderlo. In questo calcolato gioco con il lettore/spettatore, rivestono una efficace utilità le allusioni erotiche, in certi passaggi particolarmente spregiudicate.

Mi ha colpito, per esempio, l’esposizione di una teoria dongiovannesca dell’amore fatta da uno dei caratteri principali della favola, Corisca, personaggio già settecentesco, quando afferma, atto I, scena terza:

La gloria e lo splendor di bella donna
l’aver molti amanti.
Rifiutare un amante […]
è peccato e sciocchezza;

Far degli amanti quel che delle vesti:
molti averne, un goderne e cangiar spesso.
Che ‘l lungo conversar genera noia,
e la noia disprezzo e odio alfine.

Sempre a proposito degli amanti, la libertina Corisca ribadisce:

Amo d’averne
gran copia, e li trattengo, e honne sempre
uno per mano, un per occhio, ma di tutti
il migliore e il più comodo nel seno;
e quanto posso più, nel cor nessuno.

Capolavoro di ambigua sensualità la prima scena del secondo atto. I due pastori, uno giovane, il pastor fido  Mirtillo, l’altro anziano, Ergasto, parlano di come Amore abbia colpito Mirtillo, il quale racconta l’esperienza del suo primo bacio. Un gruppo di giovani ninfe, tra le quali l’amata Amarilli, si dilettano in uno strano gioco amoroso. Amarilli viene così introdotta:

Tra queste ella si stava
sì come suol tra le violette umili
nobilissima rosa;
e poi che in quella guisa
state furono alquanto,
levossi una donzella…

Forse il Leopardi apprezzò questo passaggio.

Dunque le donzellette, nella fresca radura, decidono di fare una gara: “si contenda tra noi di baci”. E le giovani cominciano a scambiarsi baci. L’imberbe Mirtillo, nascosto ed eccitato, pensa di introdursi nel gioco, “cambiato in ninfa”. Accolto come vergine, partecipa al gioco erotico. Segue una sensuale descrizione della bocca di Amarilli, dei baci e della proclamazione della vincitrice, tra sospiri, rossori e sguardi in fiamme.

Altro episodio ‘tragicomico’ molto divertente è un tentativo di stupro da parte di un satiro sdentato nei confronti di Corisca, la quale riesce a liberarsi dalla ferina presa lasciandogli tra le mani la parrucca.

Alla fine, la favola pastorale celebrerà l’amore fedele, in linea con i dettami della Controriforma, ma per tutti i cinque atti la celebrazione voluttuosa dell’amore non si è certo mostrata aderente alla morale tridentina.

 
Antoon Van Dyke, Amarilli e Mirtillo, 1631


martedì 19 maggio 2015

TORQUATO TASSO

LA GERUSALEMME LIBERATA






Rileggendo la Gerusalemme Liberata sono rimasto colpito dall’atmosfera cruenta e sanguinaria del canto nono. Alcuni passaggi anticipano eccessi che diverranno comuni nella produzione letteraria dal Settecento in poi, fino alle recenti trasgressioni trash e gore, che per certi critici costituiscono la cifra più significativa della letteratura contemporanea.

Il canto si apre con la presenza di un infido mostro infernale che istiga 
l’eroe Solimano ad assalire, nottetempo, l’esercito cristiano addormentato. Ecco come Tasso descrive il momento che precede la battaglia:

Ma già distendon l’ombre orrido velo
che di rossi vapor si sparge e tigne;
la terra in vece del notturno gelo
bagnan rugiade tepide e sanguigne;
s’empie di mostri e di prodigi il cielo,
s’odon fremendo errar larve maligne    IX 15

Bello il contrasto tra le tinte cupe, nere di ombre e i tocchi rossi dei vapori e della rugiada, addirittura sanguigna. Inoltre, il cielo notturno si riempie di spaventose creature. Tale scorcio inquietante tanto lungi dal cantare chiaro dell’Ariosto! All’opposizione coloristica si affianca il motivo sonoro prodotto dalle larve maligne che da insinuante si fa fragoroso con l’inizio dell’assalto:

Dan fiato allora a i barbari metalli
gli Arabi, certi omai d’essere sentiti.
Van gridi orrendi al cielo, e de’ cavalli
co ’l suon del calpestio misti i nitriti.
Gli alti monti muggír, muggír le valli,
e risposer gli abissi a i lor muggiti,   IX 21

Ma è con lo svolgersi della campagna che il Tasso si lascia andare ad un crescendo macabro e sanguinario. Molte, infatti, le descrizioni di amputazioni sulle quali il poeta indugia quasi voluttuosamente. Tra queste, il massacro di Latino e dei suoi cinque figli, che vengono infilzati uno ad uno davanti agli occhi del padre. Il primo “tra i cigli parte il capo e tra le gote”, poi “Caggiono entrambi, e l’un su l’altro langue / mescolando i sospiri ultimi e ’l sangue.” Ancora, ad un altro figlio, Solimano “gli urta il cavallo addosso e ’l coglie in guisa / che giù tremante il batte, indi il calpesta.” Restano i due gemelli e “a l’un divide / dal busto il collo, a l’altro il petto incide.”

Infine, il feroce Solimano non può risparmiare il padre:

e ’l ferro ne le viscere gli immerse.
Il misero Latin singhiozza e spira,
e con vomito alterno or gli trabocca
il sangue per la piaga, or per la bocca.  IX  38

Il canto prosegue con altre descrizioni di mutilazioni e traumi. Tra le quali questa, inferta dalla bella Clorinda al cristiano Gerniero, in cui una mano mozzata continua ad agitar le dita come moncon di coda di serpente:

La destra di Gerniero, onde ferita
ella fu già, manda recisa al piano:
tratta anco il ferro, e con tremanti dita
semiviva nel suol guizza la mano.
Coda di serpe è tal, ch’indi partita
cerca d’unirsi al suo principio invano.  IX  69

Clorinda e gli altri guerrieri continuano a fare stragi e decapitano, trapassano, conficcano, il tutto tra sangue che sgorga a fiumi e scintillar di lame, finché “L’aurora intanto il bel purpureo volto / già dimostrava dal sovran balcone” e, sul finire del canto, appare un drappello di cavalieri:

nova nube di polve ecco vicina
che folgori di guerra in grembo tiene,
   ecco d’arme improvise uscirne un lampo
che sbigottí de gli infedeli il campo.
 Son cinquanta guerrier che ’n puro argento
spiegan la trionfal purpurea Croce.  IX  91 – 92

Che divertimento leggere la Liberata!






Immagini: Matteo Stom, Venezia XVII secolo, due Battaglie notturne
Vittore Carpaccio, San Giorgio e il drago, 1502 

martedì 12 maggio 2015

MICHEL HOUELLEBECQ

LE PARTICELLE ELEMENTARI - 1998



Le particelle elementari finisce quando avrebbe dovuto cominciare. Il romanzo parte da un’idea interessante. Il genere umano, come lo conosciamo oggi, non esiste più. È stato sostituito da una nuova specie di immortali a cui si è pervenuti grazie alle ricerche di biologia molecolare sviluppate da Michel Djerzinski. Houellebecq descrive, in parallelo, le vite del biologo e di suo fratello, per parte di madre, Bruno.

Tramite Michel e Bruno viene attraversata la seconda metà del Novecento, con particolare riferimento ai decenni Settanta e Ottanta, quelli che evidentemente lo scrittore conosce direttamente.

Delle vicende biografiche dei due protagonisti, Houellebecq ci squaderna nei minimi dettagli la vita sessuale. Iperattiva per Bruno, quasi astinente quella di Michel. Lo scopo è di testimoniare non la decadenza, ma la fine della civiltà occidentale. Simboli di un tale sfacelo e conseguente inizio di una nuova era sono il sesso e il vitalismo che si trasfigurano nel narcisismo e nella morte. Non a caso tutti i personaggi del romanzo sono segnati da una brutta fine. Tre suicidi e un internamento in un ospedale psichiatrico.

Tracciando il percorso esistenziale dei due fratelli, Houellebecq ha modo di ricapitolare quanto accaduto sulla scena intellettuale francese. Con “perfida destrutturazione” vengono  passati in rassegna tutti i suoi miti culturali. ”La risibilità globale in cui erano improvvisamente precipitati, dopo decenni di insensata sopravvalutazione i lavori di Foucault, Lacan, Deridda, Deleuze…aveva gettato discredito sull’insieme degli intellettuali che si definivano di scienze umane”, commenta il Narratore. Il quale fa dire a Philippe Sollers: “Tutti i grandi scrittori sono dei reazionari. Balzac, Flaubert, Baudelaire, Dostoevskij: reazionari”. In un simile sfascio culturale non poteva mancare il recupero di Nietzsche. “Ho una visione nicciana della vita. Nicciana sullo scadente”, blatera Bruno.

Houellebecq fa di tutto per rendersi antipatico, sfidando il lettore con pugni tirati a destra e a manca, da buon snob decadente. Ma il romanzo deve essere giudicato di per sé, indipendentemente dall’autore. In questo caso, contrariamente a Sottomissione, Le particelle elementari è, a voler essere indulgenti, un mezzo fallimento.


domenica 26 aprile 2015

TOMMASO LANDOLFI / OSVALDO LICINI

LA PIETRA LUNARE - 1939
AMALASSUNTE - 1945-1950


“Questo è il cantare uterino di una folle” ebbe a dire Montale del romanzo, ancora inedito, che l’amico Tom gli aveva chiesto di leggere. Effettivamente siamo di fronte ad una follia visionaria, ed anche uterina, costruita con la solita ricercata perfezione linguistica di Landolfi, molto vicina alla prosa leopardiana.

Se per la tematica trattata La pietra lunare turbava Montale, figuriamoci l’accoglienza ricevuta presso la comunità letteraria di quei tardi anni Trenta. Landolfi si spinge ben oltre il limite dell’oscenità consentito e la forza del romanzo è ancora oggi stupefacente quanto poco riconosciuta. (non si capisce perché non vengano proposti nelle scuole superiori brani dell’autore di Pico; un racconto come La moglie di Gogol farebbe innamorare gli studenti…).

Il romanzo ha come protagonista Giovancarlo, “studente ormai del second’anno”, che torna al paese di origine per trascorrervi le vacanze estive. Il suo ingresso a casa dello zio è giocato tutto sul registro di un realismo ironico. Vengono messi in evidenza, come attraverso una lente d’ingrandimento, i parenti seduti attorno al tavolo, le loro espressioni, i comportamenti. Landolfi assegna ad ognuno un tic, un’espressione, un atteggiamento che si reiterano nel corso dell’incontro. Emerge così il vuoto della quotidianità ripetitiva che degenera poi, su maliziosa sollecitazione di Giovancarlo, in una ridda feroce fatta di maldicenze e cattiverie.

Giovancarlo, studente e soprattutto poeta, timido e impacciato, non può che sentirsi estraneo all’ambiente paesano, ma proprio quando la serata volge al termine, ecco l’apparizione di Gurù. Ragazza dagli occhi “accesi di riflessi violacei e profondi” che all’istante ammalia lo studente e d’un subito capovolge la situazione stantia, dominata da un “odore pesante d’avanzi di lavatura di piatti e d’insetti domestici”, per aprire ad un nuovo scenario erotico-fantastico nel quale il naufragar sarà dolce.



Dolci e lunari e inquietanti come Gurù le Amalassunte di Osvaldo Licini, il quale così le descrive: “L’Amalassunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco, perdutamente inabissata tra un seno a l’altro come ogni donna “







domenica 5 aprile 2015

GEORGES SIMENON

L'UOMO DI LONDRA, 1933





Louis Maloin è addetto agli scambi alla stazione marittima di Dieppe, dove

attraccano i traghetti che provengono dall’Inghilterra. Fa il turno di notte

e la sua vita segue, al minuto, lo stesso ritmo da anni.

“Avevano cenato alle sette, come al solito”. 
 
“La sera quando usciva, sempre alla stessa ora, esattamente alle otto meno sei…”.
“Alle otto meno due minuti passava davanti alla stazione. Alle otto meno un minuto saliva la scala che lo portava al suo gabbiotto. Era un posto davvero piacevole, il miglior punto di osservazione di tutta la città”.

“Di solito andava a letto subito dopo mangiato, si alzava verso le due”.
“Di solito, quando rientrava, mangiava un piatto di carne e un po’ di patate riscaldate, ma stavolta…”.
“Cercò di dormire come gli altri giorni, ma dopo neppure un’ora si alzò”.
“Di solito Maloin non si vestiva per il pranzo. Ma questa volta comparve sulla soglia della cucina con l’abito della domenica”.

Con questi semplici mezzi espressivi, Simenon manifesta l’essenza del romanzo. La ripetitività esistenziale (“al solito”, l’ora esatta) e l’evento che interrompe il corso scandito della quotidianità (“ma stavolta”). Ai quali si aggiunge il “punto di osservazione”, vero stilema del romanzo, che viene raccontato ‘visivamente’.

Gli accadimenti, specie nella prima metà del libro, la migliore, sono visti. Simenon conduce la narrazione secondo un procedimento che è filmico. Dalla cabina di Maloin lo sguardo spazia sulle banchine del porto, sulla stazione, sulla città. Ma la genialità dello scrittore belga sta nel fatto che le scene più importanti avvengono di notte e con la nebbia. Quindi si vedono e non si vedono. E quando non si riescono a vedere, si odono, attraverso i rumori, le voci, le sirene. C’è, inoltre, un momento importante del racconto, in cui non volendo far vedere, si crea uno schermo di vapore che appanna i vetri “del miglior punto di osservazione della città”, rendendo impossibile la visione.

La seconda parte del romanzo è forse meno coinvolgente, ma ha il pregio di anticipare certe situazioni che Camus avrebbe narrato ne Lo straniero qualche anno più tardi. Come Meursault anche Maloin si fa trascinare dagli eventi e dal caso. “Quel che più lo irritava era che le cose sarebbero potute andare diversamente. Tutto era dipeso da una serie di circostanze.”
Anche ne L’uomo di Londra c’è un avvocato assegnato d’ufficio che afferma: “Mi permetto di dirle che non ne ha imbroccata una”. E anche per Maloin come per Meursault: “Tutti sono d’accordo nel giudicare rivoltante il suo cinismo”.

Ovviamente, non si tratta di cinismo, ma questo lo sappiamo noi, Maloin e Simenon.







sabato 28 marzo 2015

SOTTOMISSIONE

A PROPOSITO DI UN ROMANZO



Molto interessante la polemica intercorsa recentemente sul Corriere tra Ernesto Galli della Loggia e Elisabetta Sgarbi a proposito di una certa pavidità mostrata dagli editori francesi e italiani del romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq. Secondo l’opinionista del Corriere, Flammarion e Bompiani – e lo stesso Houellebecq – hanno rivelato paura di apparire islamofobi nel non dichiarare apertamente, connotandolo negativamente, il termine Islam nella presentazione del romanzo al pubblico. Termine che, citando della Loggia  “è rigorosamente bandito sia dalla quarta di copertina dell’edizione originale di Flammarion sia dalla bandella della traduzione italiana di Bompiani. Ci sono state repliche e controrepliche da parte degli interessati (Sgarbi e della Loggia, Corriere della Sera 13, 14, 15 marzo…). 

Innanzi tutto Bompiani ha avuto il merito di pubblicare quello che rimane, polemiche e successo a parte, uno dei più importanti romanzi usciti negli ultimi anni. Penso che a Galli della Loggia sia sfuggito questo. Si tratta di un’opera letteraria, dalla struttura poetica molto complessa, che sviluppa una tesi che va oltre l’ambito ‘artistico’, come ogni opera degna di questo nome di solito fa. Un romanzo ben scritto e di sostanza che riesce ad illuminare aspetti riguardanti la società di cui è frutto.


Sottomissione è un esercizio di stile. Un ottimo esercizio di stile, che si muove prima di tutto all’interno del genere romanzo, all’interno, quindi, della letteratura. Poi c’è dell’altro. Molto altro. Come altro c’è nel Candide, in Justine, in  À rebours.  Molti critici hanno parlato di Sottomissione come se fosse un saggio, mettendone in rilievo aspetti non supportati da rigorosità scientifica e risultanti, di conseguenza, approssimativi.  Non è questa la lente con cui dovrebbe essere letto e valutato Sottomissione.  C’è da dire, però, che ogni lettore di un testo ha tutta la libertà di interpretare il testo come vuole ma certe prese di posizione appaiono pretestuose. Comunque, il fatto che un romanzo susciti reazioni è una testimonianza della sua importanza.

sabato 14 febbraio 2015

MICHEL HOUELLEBECQ

SOTTOMISSIONE - 2015



Tesi socio-politica up-to-date e molto ruffiana; autore decisamente antipatico; grandeur francese che fa rabbia; fortuna smaccata che farà vendere milioni di copie. Eppure il romanzo c’è, ed è anche scritto maledettamente bene, tanto che sarebbe diventato comunque un caso, indipendentemente dalle circostanze nelle quali si è trovato ad uscire.

Houellebecq sposta le traiettorie del presente in avanti di sette anni, tanto da permettergli di utilizzare le ‘figure’ reali del panorama politico-mediatico attuale, così da dare verosimiglianza alla storia, alle quali affianca sorprendenti new entries di finzione. Entro questa cornice futuribile si muove il protagonista che vuole essere il palinsesto dell’uomo nichilista occidentale, non sull’orlo, ma già irrimediabilmente sprofondato in una crisi ‘millenarista’. François è docente universitario, scapolo, che vive una vita la cui uniche preoccupazioni sono rappresentate dalle scadenze amministrative. Per il resto tutto si sussegue senza sussulti: lezioni sull’unico argomento che conosce, Huysmans; scopate con studentesse o escort scelte da cataloghi in rete; chiacchierate svogliate con colleghi altrettanto demotivati.

Messo in scena il protagonista, il romanzo assume il tono di un conte philosophique. Houellebecq ci spiega come la dinamica demografica è destinata a seppellire la società francese/occidentale nata dall’Illuminismo. Ma il romanzo diventa anche un testo di critica letteraria, nel quale si ricostruisce la vicenda esistenziale di Huysmans attraverso la sua produzione letteraria, quasi un universo parallelo a quello di François che infatti si troverà a far tappa negli stessi luoghi biografici dello scrittore tardo-romantico. Ci sono anche altri livelli di racconto, quasi un excursus tra generi diversi: romantico-sessuale, esistenziale, apocalittico. Houellebecq riesce a gestire e a tenere insieme questi sub romanzi, dando a Sottomissione il ritmo giusto, in cui tutto è funzionale alla tesi che costituisce la struttura del testo.


Leggendo qualche recensione ho notato che molti critici hanno cercato di isolare, nel romanzo, alcuni temi giudicandoli ridicoli o fuori luogo (in particolare, sembra che abbiano suscitato interesse le scene di sesso) oppure hanno bocciato la visione complessiva di Huellebecq stimandola irrealistica. Ripeto, credo che Sottomissione proponga la visione coerente di un romanziere in cui ogni particolare trova giustificazione nello sviluppo del testo stesso, dimostrando la maturità creativa dell’autore.

martedì 27 gennaio 2015

HOLOCAUST MEMORIAL DAY

GENNAIO, 27
GIORNO DELLA MEMORIA




Cadono nella notte sinistra i tonfi plumbei di quattro stivali Nazisti che passano nella strada sotto a noi. Mostruosa regolarità del passo teutonico. Cosi nella notte astrologica cammina 1 Golem. Di fronte alla meccanicità di questo passo, di fronte al suo automatismo, il passo degli altri popoli, di tutti gli altri popoli, è un passo «fatto a mano». Voi li credete uomini costoro, e sono in verità casse di esplosivo montate su un paio di gambe automatiche, che si muovono per impulso di un maligno e inesorabile congegno.

Siamo in cinque, chini sulla radio, a frugare nel groviglio delle lingue ostiche, che si accavallano nel minimo volume di voce. Passa attraverso la cassetta sonora un nastro di favelle irte di consonanti, come un ramo di spine. D'un tratto all'apparire di una voce francese, si apre una radura in mezzo alla foresta delle lingue. La voce: «Abbiamo notizia che in Francia, in un campo di concentramento, è morto lo scrittore Max Jacob...».


Per gli altri quattro questa notizia non ha senso; non ha senso «individuale». Per me, sì: per me soltanto.  Ed è una notizia tremenda. Una notizia nella quale convergono più notizie: più significati: tutti i significati di questa non solamente guerra, ma « ira di Dio» che i Gòlem hanno scatenato sul mondo. Guerra, e assieme deportazione e sterminio di popoli; guerra e assieme crudeltà e tortura; guerra e assieme strozzamento di quanto è umano quaggiù e ha forma, sentimento, dignità di «uomo»

La notizia che l'uomo più libero del mondo, lo scrittore di mano più leggera, il poeta più pratico di gioco - la notizia che Max Jacob è morto in un campo di concentramento (era di razza ebraica e doveva essere vicino ai settant' anni) mi apre tutta la spaventevole cavità di questa negra bocca che si è spalancata e va ingoiando alla rinfusa il bene e l’onesto, la vita e il ricordo, la realtà e la finzione, la poesia e la prosa, e la stessa facoltà che aveva l'uomo di morire «secondo natura». Anche la morte - nostro estremo rifugio: anche la morte il tedesco l'ha deformata e l'ha uccisa.

ALBERTO SAVINIO, Roma, inverno 1944










Le opere fanno parte del ciclo 'L'arte della guerra' di Bruno Canova (1970 - 1980)

domenica 25 gennaio 2015

UMBERTO ECO

NUMERO ZERO - 2015


L’ultima ‘fatica’ di Eco è puro divertissement. Un romanzetto televisivo che si consuma in un lampo come la lettura ”di una rivista per coiffeuse pour dames e sale d’aspetto dei dentisti”, per citare lo stesso Eco. O meglio, come lo script di una trasmissione di approfondimento tipo Rai Storia oggi, Rai Tre nel ’92, per dare un senso all’aggettivo televisivo. E nelle ultime pagine si verrà a sapere che tutte le colpe – o i meriti – sono, guarda caso, di Corrado Augias e del suo Telefono Giallo. 

A tal proposito, ricordo una puntata di quella trasmissione targata Guglielmi in cui si affrontava un fatto di cronaca, avvenuto la notte di San Giovanni nella necropoli etrusca di Veio. Un ospite in studio metteva in evidenza che “proprio nella stessa notte inizia l’ultimo romanzo di Umberto Eco”, e Augias ammetteva candidamente di non saperlo.

La lettura di Numero Zero è spassosa. Le riunioni di redazione che vogliono attuare campagne diffamatorie, strumentalizzazioni, allusioni surrettizie sono quelle già descritte, per non andare troppo lontano, da Bellocchio in Sbatti il mostro in prima pagina. Anche se il regista usava una chiave politico-psicologica, mentre Eco usa il registro semiologico-enigmistico, molto più adatto ad una graphic novel.

Altro tema è quello del complotto, chiodo fisso di Eco, che se la cava da maestro nel condensare in poche pagine tutti i misteri d’Italia, dalla morte di Mussolini alla strage di Capaci. È questa la parte migliore del romanzetto, che viene narrata dal giornalista Braggadocio. 

Interessante sarebbe fare l’indice dei nomi citati, tra i quali salterebbe agli occhi un’assenza. Quella di Mino Pecorelli, ma forse proprio il giornalista di OP potrebbe celarsi dietro al vero Tusitala di Numero zero, Braggadocio, appunto. Il quale, tra l’altro, ripesca, genialmente, la storia di Antonio Boggia.

Se questa è la parte riuscita, debole, debolissima è la vicenda ‘rosa’ che lega il narratore principale a Maia. Nelle battute finali assistiamo ad un dialogo che annovera battute quali: “Il mondo è un incubo amaro. Io vorrei scendere, ma mi hanno detto che non si può, siamo su un rapido senza fermate intermedie”.

La lettura di Numero Zero è divertente, gustosa, intelligente, vera letteratura di consumo ma non definiamolo un capolavoro. Sciascia, per fare un esempio, è ben altra cosa.


mercoledì 17 dicembre 2014

ANDREJ BELYJ

PIETROBURGO
ANDREJ BELYJ - 1913



Già l’oggetto-libro, di per sé, vale l’acquisto, anche solo per guardarlo e tenerlo tra le mani. La casa editrice Adelphi compie un’opera meritoria, di quelle che fanno cultura, ripubblicando il romanzo Pietroburgo di Andrej Belyj, uscito nel 1961 da Einaudi, curato da Angelo Maria Ripellino.

Non solo il romanzo è un capolavoro ma anche la traduzione del grande slavista è un esercizio di tale bravura da costituire a sua volta un magistrale uso della lingua italiana, vicino a quella lingua che negli stessi anni scrittori come Gadda, Landolfi, Savinio e Longhi si divertivano a reinventare. Ripellino dedica anche un saggio-introduzione al romanzo qui riproposto. Perfetta la scelta di Rodčenko, un Rodčenko molto prossimo a Malevič. 

Personalmente mi sono avvicinato a Pietroburgo attirato proprio dall’oggetto-libro ed ho cominciato a leggerlo senza avere alcun ragguaglio né sull’argomento né sull’autore che non fossero le informazioni ricavate dagli amati Nabokov e Mandel'štamoltre all’esiguo carteggio tra Florenskij e lo stesso Belyj.
  
La lettura è stata una magnetica sorpresa. Pietroburgo è un vortice, una sinfonia in cui il testo si trasforma in spartito. Giunto alla fine, stordito da tanta potenza, ho letto il saggio di Ripellino che subito mi ha spinto ad iniziare di nuovo il romanzo. A seconda lettura il piacere è stato immenso. Non essendoci più la componente sorpresa, ne ho gustato ogni riga, ogni sfumatura.

Devo dire che nella mia esperienza di lettore non era mai accaduto di divorare un ‘romanzo in prosa’ una volta di seguito all’altra. Proprio come per le opere musicali, per comprendere le quali sono necessari vari ascolti per apprezzare al meglio i segreti della partitura o come per le opere di poesia per cui bisogna ripetere molte volte e ad alta voce il testo, Pietroburgo si assapora per assaggi successivi. E come per una partitura si succedono ed intrecciano leitmotiv, frasi, moduli espressivi che tornano e ritornano, uguali o variati a seconda dei punti di vista.


Si può parlare di scrittura simbolista, futurista, cubista. Si può parlare di realismo ottocentesco contaminato dal suprematismo, di nichilismo mistico, di reinvenzione della grande tradizione russa. Le etichette non servono. Serve la lettura, per lasciarsi scivolare dentro al gorgo, per farsi “agglutinare come uova di pesce” nell’alone magico dei personaggi, della topografia pietroburghese, delle invenzioni linguistiche.


lunedì 27 ottobre 2014

ROBERTO BOLAÑO

2666
ROBERTO BOLAÑO - 2004
 

Ansky pensa e universi paralleli.
Solo nel disordine siamo concepibili
2666




Il protagonista invisibile, di cui conosciamo il nome, Benno von Arcimboldi, è uno scrittore tedesco. Si mettono sulle sue tracce quattro critici: un’inglese, un italiano, un francese e uno spagnolo. Le strade portano al Messico, come quelle di un sicario che braccava un presunto traditore. Il deserto e la frontiera inghiottono i destini e qualcuno, ripetutamente, affonda un pugnale in un ventre. Bastone contro mani nude, imprecazione contro oscenità. Tonante, corrotta, strafatta, la polizia messicana interviene e arresta un supposto serial killer, un tedesco con radici in riva al Baltico, un bambino che assomiglia a un’alga. Le vicende delle centinaia di pagine è impossibile riassumerle. Vi è un vertiginoso pullulare di dramatis personae ed una vasta peregrinazione che abbraccia tre continenti. Dalle capitali culturali dell’Europa al deserto del Sonora; dalle periferie afroamericane di Detroit elle maquilladoras della Frontiera ; dalla Pomerania alle Alpi Transilvaniche; dall’Ucraina al Mar di Okhotsk.

Già s’intravede l’argomento generale: l’insaziabile ricerca di un’anima attraverso le tracce esigue che ha lasciato nelle altre. A misura che i personaggi intervenuti hanno conosciuto più da presso von Arcimboldi, è maggiore in essi la consapevolezza della verità ma si comprende che non sono altro che semplici specchi. La tecnica matematica è qui applicabile: il labirintico romanzo di Bolaño è una progressione ascendente il cui termine finale è il presentito «uomo che si chiama Benno von Arcimboldi».

L’antecedente immediato di Arcimboldi è un professore di filosofia cileno in esilio; predecessore di questo professore è un ebreo askenazita fucilato dai nazisti in Ucraina; predecessore dell’ebreo è un giornalista che scrive su una rivista afroamericana di New York…


Scrittore enciclopedico di un romanzo enciclopedico, Roberto Bolaño espande Borges e lo congiunge ad Eco. 2666 è una vertigine che si protrae per un migliaio di pagine. 2666 è un gorgo letterario che inghiotte e il naufragare è dolce in questo gorgo.

Gustave Courbet, Le retour de la conférence - 1863 - originale distrutto
Gustave Courbet, L'atelier du peintre - 1855 - Parigi, Museo d'Orsay

martedì 14 ottobre 2014

LA VOCE DEL PADRONE

STANISLAW LEM
GLOS PANA - 1968


La fantascienza sta stretta a Stanislaw Lem, che addirittura la sbeffeggia con parole al vetriolo, anche se, erroneamente, viene classificato come autore di SF. Nato a Leopoli quando la città rientrava entro i confini polacchi, Lem ha sempre incarnato l’altra SF, quella di oltre cortina. Il clima da Guerra Fredda trasuda dalle pagine di questo La Voce del Padrone  del 1968 che un americano non avrebbe mai potuto scrivere. Fedele alla linea e quasi un eroe in patria, sorprendentemente, in questo corposissimo romanzo Lem si avvicina ad un altro slavo che dovrebbe collocarsi agli antipodi dello scrittore polacco. Parlo di Nabokov. Nella Voce del Padrone si respira l’aria di Fuoco pallido. 

Il narratore, presunto genio cinico e un po’ viscido, racconta in prima persona la sua esperienza di scienziato chiamato a far parte di un ristretto Consiglio che deve presiedere il progetto Voce del Padrone al quale lavorano centinaia di esperti dei più svariati settori della scienza. La finalità del progetto è quella di decifrare un messaggio proveniente dallo spazio costituito da un flusso di neutrini.

Nel romanzo non c’è praticamente azione. L’interesse e anche una certa tensione è tutta creata grazie all’abilità con cui Lem utilizza competenze tecnico-scientifiche che abbagliano il lettore. Attraverso questo mimetismo argomentativo e lessicale che approda a veri e propri mirabolanti tecnicismi verbali, lo scrittore polacco imbroglia le carte e crea false piste. Oltre ai commenti e ai giudizi che il protagonista, il matematico Peter Hogarth,, esprime sui colleghi, dei quali vengono sottolineate le debolezze con perfidia comaresca, il romanzo si fa sempre più complesso e compaiono progetti paralleli e antagonisti alla Voce del Padrone a complicare il quadro.

Si giunge ad un punto in cui la cosmopolita comunità scientifica, isolata in una vecchia base nucleare nel deserto del Nevada, si sfilaccia in rivalità e personalismi che mettono in dubbio la stessa esistenza della «lettera» dallo spazio. Il protagonista si prende molto sul serio e Lem, nascosto dietro le righe si diverte a ridicolizzare, se non a demolire, non solo i vari personaggi ma l’intero sistema americano del quale pur proponendone l’efficiente e abbagliante immagine, in realtà ne mette a nudo pochezza e vanità. Soprattutto feroce Lem si dimostra contro certi elementi della cultura americana quali la psicoanalisi, il consumismo, le comunità accademiche, la casta dei politici democraticamente eletti e dei militari. “Una civiltà divaricata sul piano tecno-economico come la nostra, con un’avanguardia che sguazza nel benessere e una retroguardia che muore di fame ha già, proprio per questa sua divaricazione, una linea di sviluppo chiaramente tracciata”, riflette Hogarth

Il finale è tutto da leggere – e da sottolineare per ampi tratti! –. Qui Lem supera se stesso e se la parte centrale del romanzo incorre nel rischio di essere ripetitiva e faticosa, l’ultima parte si legge d’un fiato e lascia appagati.


La Voce del Padrone  è uscito nel 2010 presso Bollati Boringhieri con bella traduzione dal polacco di Vera Verdiani.

martedì 16 settembre 2014

FRIEDRICH DÜRRENMATT

DER VERDACHT - 1953
IL SOSPETTO




L’arrivo della cavalleria giunge in tempo per salvare i viaggiatori assaliti da Geronimo e le truppe francesi del generale Lasalle espugnano le segrete dell’Inquisizione un attimo prima che il pendolo compia l’ultima oscillazione.

Forse Bärlach avrebbe dovuto prendere tempo e non cacciarsi a capo fitto tra le zampe del ragno ma il tempo è proprio ciò che mancava al Vecchio commissario bernese. Come impietosamente viene ricordato dall’orologio che scandisce il passare delle ore e dei minuti.

La guerra è finita da pochi anni. L’orrore dei campi di sterminio, nati e cresciuti nel cuore evoluto della cristianità, toglie il respiro e la voce anche nel paradiso elvetico, simbolicamente rappresentato dal paradiso/inferno della clinica Sonnenstein.

La guerra è finita da un numero di anni sufficiente a garantire la stabile ripresa del progresso, del capitalismo, della modernità ma il nuovo Occidente è una carogna in putrefazione. Sadici, morfinomani, nani e giganti, alcolizzati e malati terminali popolano il romanzo di Dürrenmatt che, come sempre, si pone domande sul senso della vita, sulla giustizia, sulla tirannia, sulla libertà.

Nei primi anni Cinquanta, con disincantata eleganza, in un breve romanzo giallo, Friedrich Dürrenmatt condanna il comunismo, condanna il capitalismo e la religione istituzionalizzata e mette a fuoco il rapporto sado-masochistico tra vittima e carnefice, tra cacciatore e preda dove preda e cacciatore si scambiano ripetutamente i ruoli.

Si dice che la giovinezza finisce quando si tornano a leggere libri già letti. È quello che da qualche anno mi capita con sempre maggiore frequenza. Dostoevskij, Sciascia, Nabokov, Montale. E Dürrenmatt.  


domenica 13 aprile 2014

JIM THOMPSON / JAMES FOLEY

AFTER DARK, MY SWEET - 1955
PIU' TARDI AL BUIO - 1990



Gli stilemi dell’hard boiled ci sono tutti: racconto in prima persona da parte del protagonista che si rivolge ad un non meglio specificato gruppo di ascoltatori; la presenza di una femme fatale che innesca il plot; l’impresa criminale da compiere con i rallentamenti delle complicazioni e le accelerazioni delle incoscienti improvvisazioni; scazzottate e morti violente; momento erotico-sentimentale come tregua prima del concitato svolgersi degli eventi nel finale. Questo è il canovaccio del romanzo dello specialista Jim Thompson che James Foley segue alla lettera.  Ma è nell’atmosfera che il regista tradisce lo scrittore.

After Dark, My Sweet è un notevole romanzo, con gli spigoli vivi e la disperazione propria di Thompson, a cui piace fare descrizioni sommarie di personaggi, ambienti e fatti. La materia trattata resta grezza e ciò rende ambigue le situazioni. Il protagonista-narratore, magistralmente presentato nel romanzo attraverso la scheda personale compilata nell’istituto da cui è fuggito, pur essendo il tradizionale beautiful loser, nello svolgersi della storia  si mette progressivamente a fuoco. Ma la messa a fuoco aumenta le sfaccettature e quindi, paradossalmente, questo rende Kid Collins sempre più ambiguo e inafferrabile.

James Foley lucida il materiale sporco di Thompson e lo fa grazie al direttore della fotografia, Mark Plummer, il quale aumenta la saturazione della luce, come si trattasse di un videoclip anni novanta. Non a caso Plummer, proprio nello stesso periodo del film, stava lavorando con Madonna. L’effetto è uno studiatissimo ‘trasandato da copertina’ che vale sia per i luoghi che per i personaggi,  in maniera eccessiva per Kid Collins. L’ambiguità non si crea lasciando il giardino incolto e la piscina piena di foglie marce o facendo indossare t-shirt sporche e sudate.


Il destino è segnato, Kid lo sa, ma se nel libro il bel finale è costruito passo passo da un consapevole protagonista, nel film l’atto decisivo è lasciato al caso, producendo uno scarto non in linea con lo spirito del romanzo. Sicuramente vince il testo ma va riconosciuto che Foley ha meditato a lungo su come trasporre in film il romanzo e pur con qualche limite il risultato è apprezzabile.


martedì 21 gennaio 2014

VLADIMIR NABOKOV

SPEAK, MEMORY / PARLA, MEMORIA
VLADIMIR NABOKOV - 1951


Nabokov e le farfalle


“Se mi guardo indietro, le immagini appaiono nel disco luminoso della 

memoria come altrettante proiezioni di una lanterna magica”


Di fronte al suo tempo perduto Nabokov sceglie di osservarlo attraverso la lente della Recherche. È questa l’aria che si respira tra le righe del bellissimo Speak, memory, il libro di memorie che, pur prendendo come modello il capolavoro proustiano, da esso se ne allontana grazie a scarti ironici, nostalgici, colti ma mai inclini all’estetismo tardo decadente che impregna le pagine della Recherche.

Nabokov depone sui propri ricordi una velatura trasparente di doratura rosata che sembra trasportare il mondo evocato in un eden sfumato. Ma è solo un’impressione perché in realtà, in questo ritorno al passato egli procede con la chiara perfezione di un chirurgo. O meglio, con la decisa esattezza di un entomologo intento a dissezionare un qualche esemplare di esperia.

Diradata la prima nebbiolina la memoria mette a fuoco e inizia a parlare. La parola, scelta con lucida cura, come sempre in Nabokov, è docile ed utilizzata con proprietà scientifica. Tutto si impressiona sulla retina e gli ambienti prendono vita come in una wunderkammer. Il lettore, lasciandosi condurre dalla mano dello scrittore rivive, nella profondità della camera oscura, il momento del “passato attuale” così come ciò che vi è dietro e il punto di vista futuro del narratore.

Questo continuo elastico temporale è tenuto sotto stretto controllo con una levità e una gamma coloristica proprie delle farfalle più belle.

Plebejus samuelis Nabokovi, classificata da Vladimir nel 1944

“I see the awakening of consciousness as a series of spaced flashes, with the intervals between them gradually diminishing until bright blocks of perception are formed, affording memory and a slippery hold.”

“I have rewritten — often several times — every word I have ever published. My pencils outlast their erasers.” 

“I see again my schoolroom in Vyra, the blue roses of the wallpaper, the open window.… Everything is as it should be, nothing will ever change, nobody will ever die.” 

“a person hoping to become a poet must have the capacity of thinking of several things at a time.” 

“One is always at home in one's past...”