cinema

martedì 5 febbraio 2013

RADIOHEAD - parte 2

KID A - 2000
ANALISI DEL TESTO (2)




Entriamo nello specifico dei testi di Kid A. A detta di Thom Yorke, per comporre alcune delle liriche ha fatto ricorso alla tecnica dadaista dell’ “out-of-hat”, come se si estraessero dal cilindro parole e frasi che casualmente creano componimenti poetici. Modalità seguita, per restare nel mondo del rock, da John Cale e Brian Eno per esempio nella celebre Cordoba o dallo stesso Eno nelle sue collaborazioni con David Byrne. Ma in Kid A questo procedimento può essere circoscritto a qualche ricorrenza delimitata anche perché le singole sezioni hanno una ben definita coerenza e pure una intelligibilità tutt’altro che opaca, come invece si tende a dire.

In apertura Everything in its right place ha la funzione di dichiarare che l’idea dadaista iniziale di frammenti casuali ha in realtà assunto un assetto compiuto. È il superamento della crisi. L’opera è composta, tutto è andato al suo giusto posto. Verbi al passato designano incomunicabilità (“what was that you tried to say?”) e malessere (“Yesterday I woke up sucking a lemon”). I verbi al presente asseriscono invece che ora tutto è a posto e i colori nella mente hanno trovato il modo di esprimersi. Il risultato di questa guarigione è lo stesso album.

Le sezioni liriche seguenti sono le tappe della crisi, a cominciare da Kid A, che secondo Thom ha immagini terribili. Per questo, ha dichiarato, il cantato è fortemente distorto, proprio per evitare che l’ascoltatore focalizzi l’attenzione sui versi. La mente è annebbiata, oppressa da visioni che ingannano e minacciano: piccole bugie (“white lie”), ventriloqui, teste infilzate sui pali. Emblematica in tal senso la figura del pifferaio di Hamelin che porta via topi e bambini (“The rats and children will follow me out of town”).

Il senso di panico continua nei radi versi di The National Anthem. L’altro (ognuno, chiunque, tutti, everyone) è fonte di opprimente angoscia fisica ma è a sua volta minacciato così la paura si trasmette a tutti: “Everyone has got the fear”.

Per fuggire da questa angoscia bisogna sparire, annullarsi completamente, magari sprofondando nel sogno (“I walk through walls”), nell’acqua (“I float down the Liffey”, il fiume di Dublino di Joyciana memoria), nella musica e nel tour (“Strobe lights and blown speakers”). L’evitamento come prassi per non affrontare il reale e autoconvincersi che la realtà, apportatrice di ansia, non esiste: “I'm not here / This isn't happening”, secondo un consiglio ricevuto da Michael Stipe.

Dopo le evanescenze eteree con Optimistic la trama dei versi, così come la musica, costruisce immagini più concrete e al tempo stesso plurivalenti. Sono diversi infatti i campi semantici ed espressivi utilizzati. Ci sono situazioni da fiaba tenebrosa: il verso “Picking up every last crumb” allude a Pollicino ma è pure metafora del capitalismo, così come i riferimenti ad animali fastidiosi e minacciosi. Alla stessa area dell’universo infantile e regressivo, vero leit-motif dell’intero macrotesto, appartiene la citazione di una filastrocca per bambini “This one went to market” dove è un maialino ad essere andato al mercato. Maialino che porta dritto alla Fattoria degli animali di Orwell (“Living on animal farm”), con mutazione di campo semantico. Ecco che società ed economia opprimono l’individuo (“The big fish eat the little ones”) e l’apparente ottimismo del tre volte ripetuto refrain “You can try the best you can” è ironicamente ribaltato dal contesto negativo delle immagini conclusive: marionette, galere, dinosauri.

La successiva In Limbo riporta al tema della fuga / rifugio in un mondo di fantasia, con altri momenti di insicurezza e di impotenza: nessun posto dove nascondersi; perdersi nel mare; perdere la strada e, ripetuto ad inizio e fine canzone, messaggi che non si è in grado di leggere: “I got a message I can't read”.

Lo stato di estrema prostrazione e minaccia si concretizza nella danza scheletrica di Idioteque dove appaiono bunker e gente in pericolo da mettere in salvo. L’io lirico ha visto troppo, ma non ancora abbastanza (“I have seen too much / I haven't seen enough”), mentre l’interlocutore non ha visto affatto (“You haven't seen it”). Questa è la distanza tra chi ha vissuto un’esperienza atroce e chi invece non l’ha vissuta e il testimone ha il compito di raccontarla anche se corre il rischio di essere uno scaremonger, un profeta di sventure. E questa volta si afferma che ciò che sta accadendo è reale (“This is really happening”), contrariamente al consolatorio “This isn’t happening” di How to disappear.

Morning bell è un risveglio, è la realtà che sta affiorando con tutti i suoi frammenti sconclusionati, con gli oggetti di uso quotidiano, con rapporti consumati dai quali si implora di essere liberati: mobili, auto, vestiti, relazioni, fino a lacerare gli affetti più cari: tremendo il riferimento biblico del verso “Cut the kids in half”.

Si giunge all’ultima sezione lirica dove si fanno i conti con la dura verità, che va comunque accettata, magari ricorrendo a aiuti diversi come “Red wine and sleeping pills”; “Cheap sex and sad films”. Tutto può servire per una ricomposizione di ciò che si era lacerato, basta illusioni (“It’s not like the movies” anche se si tratta di una colonna sonora - Motion Picture Soundtrack) o bugie (tornano le white lies incontrate nella seconda sezione). Il testo si chiude con una certezza, “I will see you un the next life” e tutto torna al posto giusto.

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