cinema

sabato 5 aprile 2014

BRUCE SPRINGSTEEN

NEBRASKA - 1982



Springsteen non mette tutti d’accordo. Molti lo amano incondizionatamente, altri non lo sopportano a priori. Personalmente non mi ha mai interessato, con alcune eccezioni:  parte di The River, la romantica Thunder Road e  soprattutto Nebraska. Per questo disco acustico del 1982, l’etichetta di album rock è riduttiva, è infatti più appropriato   parlare di opera tout court, da porla accanto ai migliori dischi di Dylan, alle poesie di  Ginsberg e ai film di Cassavetes.

Nebraska è diverse cose insieme. Dopo il grande successo commerciale di The River che aveva consacrato Springsteen star assoluta della musica popolare americana, uscire con un album acustico, praticamente chitarra e voce, privo di potenziali hit da lanciare sul mercato, era marcare con un colpo di genio la strategia di definizione del proprio profilo artistico. Ci vuole coraggio a proporre ai milioni di fans in attesa del nuovo disco queste dieci canzoni low-fi, tristi, cupe e spoglie come l’immagine di copertina. Non potava esserci concept-cover più adatta di quella di Nebraska: foto in bianco e nero scattata da un interno di auto, oltre il parabrezza un desolato paesaggio invernale, con una strada che si perde verso il grigio orizzonte. Foto in campo nero con lettere scarlatte ad annunciare titolo e autore.

Nebraska è un album narrativo. I testi dei dieci brani possono benissimo essere letti come una raccolta lirica. Siamo nella tradizione americana  dello storytelling. Si possono scomodare il Far West dei pionieri, il Dust West di Steinbeck, lo spirito della terra che va da Whitman a Guthrie ed altro ancora ma il concetto non cambia. Springsteen ci sta raccontando storie e lo fa scegliendo una tecnica narrativa dove chi racconta lo fa quasi sempre in prima persona. C’è un interlocutore (esempio il ‘sir’ di Nebraska, il ‘judge’ di Johnny 99, il ‘mister’ di State Trooper) ma l’effetto, dovuto anche all’interpretazione di Springsteen, è quello di un dialogo interiore. Bruce racconta a noi storie di personaggi (veri e propri caratteri) che parlano a se stessi. Questi monologhi  esondano dalle singole interiorità e compongono vividi frammenti narrativi.

Chi sono questi caratteri e quali storie rivelano? Coppie di giovani killers, rissosi avventori di bar, gente disposta a fare il lavoro sporco. È l’altra faccia del sogno americano, quello degli sconfitti, degli underdog.  Gli scenari sono geograficamente ben definiti. Si va dal New Jersey ai Grandi Laghi fino alle ‘Badlands’ del Wyoming. Dai paesaggi urbani fatti di ciminiere e ponti-radio alle stazioni di carburante lungo le pianure del Midwest. Le ore sono quelle notturne o poco prima dell’alba, le ‘wee wee hours’ che ricorrono in Open All Night e in State Trooper, le quali canzoni contengono anche il bel verso ‘deliver me from nowhere’. E, sempre a proposito di intrecci, un verso in cui si parla di onestà, (‘I got debts that no honest man can pay) torna in tre canzoni con minime variazioni.

Strumentazione ridotta all’essenziale, tematica dei testi, interpretazione sommessa rendono Nebraska un album unitario ma, e qui sta la forza del capolavoro, le dieci parti che lo compongono si succedono secondo una intelligente alternanza ritmica che evita il rischio della monotonia. Ad un brano lento e disteso segue un brano più mosso generando un movimento sinusoidale che attraversa tutto il disco che peraltro si chiude con un’apertura di orizzonte. Infatti l’ultima traccia, Reason To Believe, non contiene la storia di un unico carattere che narra in prima persona ma si compone di una serie di situazioni diverse in terza persona, delle quali l’ultima è la celebrazione di un matrimonio in riva al fiume. E Bruce Springsteen ci saluta con queste parole: ‘Still at the end of every hard earned day people find some reason to believe’.



 
Luoghi e strade di Nebraska

















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