cinema

mercoledì 2 giugno 2010

THE CLASH

SANDINISTA! 1980

THE CLASH
Con Sandinista nasce il global rock. Eccitatissimi i Clash assorbono come spugne stimoli musicali e narrativi dai più diversi contesti della realtà mondiale, specie se ‘combat’. La raggiunta e consapevole abilità di composizione consente loro di snocciolare canzoni come se stessero giocando ad un mistery game di cui si è scoperto il segreto e ora il gioco si può svolgere con disinvoltura ad occhi chiusi.
Sandinista è un divertimento impegnato e molto serio, i Clash ci credono e immergono pienamente le mani nel fangoso magma della realtà, del mondo, e lo fanno con l’entusiasmo, l’ingenuità e la forza di chi insegue un sogno pur sapendo che il presupposto rimane comunque il no future.
L’impressione iniziale è di essere ‘lost in the supermarket’. Si tratta di un’impressione bellissima quella di avere una così ampia scelta a disposizione, assaggiare qua e là passando tra i generi più diversi, vagare senza meta, curiosi di scoprire la prossima sorpresa, perché senz’altro sarà una sorpresa. Questo è Sandinista, un disco tutto per l’ascoltatore dove il cuore dei Clash pulsa dall’inizio alla fine innamorato della musica, della gente, del trasmettere musica alla gente. In quegli stessi anni si stava affermando un altro grande compositore di canzoni, Sting, con una differenza rispetto a Strummer: per i Police ogni canzone è costruita per essere una hit potenziale; per i Clash, almeno fino a Sandinista incluso, questo non avviene mai, anche se in Sandinista di hit tra le 36 traks se ne potrebbero trovare molte. Alcune segnalazioni seguendo la suddivisione del vinile.
Lato 1: ecco proprio il mondo delle classifiche, dei singoli e della felicità adolescenziale concentrata nei 2’e 39” di un successo qualsiasi, Hitville in UK, una motown sound ballad cantata dalle ‘voci bianche’ che torneranno in Career opportunity. Ma ecco anche il funky rap dei magnifici sette col quale per la prima volta un gruppo post-punk inglese apre alla scena nera newyorkese. Il lato si chiude con Something about england, bel testo sulla memoria storica del Novecento, canto punk, inserimenti orchestrali, tastiere pop, coro finale.
Lato 2: nostalgia del 1977 in Somedody got murdered; ancora, i vari ritmi neri, siano essi genericamente jazz o reggae, assumono timbri di acidità elettrica o si dilatano: la musica si polverizza, i suoni si moltiplicano e si amplia l’organico strumentale: percussioni, fiati su fiati, voci alterate, sovrapposte, il dub.
Lato 3: grande apertura col punk melodico di denuncia anticapitalistica di Up in heaven e poi arriva il Terzo mondo ormai occidentalizzato o forse l’occidente terzomondizzato di Let’s go creazy. If music could talk: una lunga linea melodica di sax e una doppia narrazione sovrapposta di storie quotidiane ed esotiche con il gruppo al massimo della forma. Un’altra sorpresa, lo spiritual nero di Sound of the sinners e siamo solo a metà albun
Lato 4:chitarre sparate, batteria secca, testo urlato, proprio di chi corre avendo la polizia alle calcagna e subito dopo radicale cambiamento di situazione con the equaliser, quasi un folk-reggae che dimostra le possibilità infinite di sperimentazione applicabili a forme musicali abbastanza rigide come la musica giamaicana. Washington bullets è una pop song latina dolce e melodica il cui testo tocca gli orrori del mondo: Cile, Nicaragua, URSS, Tibet. Semplicemente geniale nella struttura: orecchiabile, fresche percussioni da foresta tropicale, coretti femminili, voci da combattimento di galli, chiusura con note di hammond. Infine Broadway e siamo all’intrattenimento confidenziale swingeggiante che cresce con percussioni da reggamuffin
Lato 5: Charlie don’t surf, canzone da spiaggia anni ’60, solo di tastiere che tracciano tre giri di melodia, ingresso di chitarra e percussioni dal ritmo spezzato con testo tragico di guerra al Napalm. Il sottosviluppo di fame e ribellione di Kingston advice e la sommessa Street parade con la disperazione dell’inciso e le chitarre che ostinate si incrociano come spade nel refrain.
Lato 6: tra frammenti di studio e campionature, l’armonica americana di Version city, e una chiusura ironica, struggente,uno sberleffo geniale con il ritmo da reggae lento, i pizzicati acustici delle chitarre a ricamare dolci trame e poi pernacchie, rumori, un aereo che s’invola.

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