MARIO MARTONE - 2010
I centocinquant’anni dall’Unità offrono l’occasione per tornare a riflettere sulle vicende risorgimentali, oscurate per un periodo molto lungo. La cultura del Sessantotto aveva reso infatti improponibile la parola patria e tutto quanto ad essa era associato. Poi, dalla fine degli anni Ottanta, con l’affermazione della Lega, Risorgimento, Unità e Italia, per la prima volta nella storia nazionale non venivano ignorate, come era accaduto da parte della cultura di sinistra, ma venivano addirittura messe in discussione ed apertamente rinnegate, trovando seguito popolare in una parte consistente dell’area più ricca e produttiva del Paese. Con la presidenza Ciampi si ha infine l’offensiva patriottica, proprio in funzione anti leghista, con culto del tricolore e dell’inno di Mameli supportato dagli ex-missini ammessi nelle stanze del potere.
Il dibattito è aperto e Martone ha pensato bene di cogliere l’opportunità che avrebbe portato finanziamenti sicuri. I soldi comunque sono stati spesi bene. Il film dà un efficace contributo, in particolare visivo, al dibattito sull’unificazione nazionale, facendosi portavoce di un punto di vista ‘meridionalista’.
C’è il Sud in Noi credevamo, anche se il film è tratto da un libro della toscana Anna Banti.
Quattro capitoli tra Cilento, Parigi, Londra, Torino, l’Aspromonte, ma la luce del Mezzogiorno non è molto presente, in compenso non manca uno scheletro non finito in cemento armato che disintegra la logica temporale con funzione di fin troppo facile emblema. Quella struttura incompleta e abbandonata allegorizza appunto centocinquanta anni di storia e di speranze tradite.
Altre intrusioni contemporanee, come le rampe in metallo quasi hi-tech che conducono al patibolo. Gli strumenti di morte erano e sono tecnicamente perfetti. Teste mozzate, teste impalate, corpi decapitati dati in pasto agli spettatori, monito e spettacolo per la plebaglia.
Il film, troppo lungo, ha un’impostazione teatrale e anche gli spazi aperti sono in realtà luoghi scenici chiusi, delimitati da quinte, come i suggestivi bivacchi garibaldini attorno al fuoco, il battesimo sul sagrato, le esecuzioni nei cortili o l’inquadratura impressionistica dei parigini lungo la Senna. L’estetica teatrale tocca il suo acme nel secondo capitolo, quasi interamente ambientato nelle oppressive prigioni borboniche a lume di candela.
Il messaggio di Martone culturalmente e politicamente parlando non si discosta molto da quanto affermato, più di cinquanta anni fa, da un altro uomo del Sud, Tomasi di Lampedusa. Più interessante l’esito figurativo, con la prevalenza di toni scuri, i neri e i bruni su fondi grigi ed ocra à la Géricault. Particolarmente riuscita la scena del canto garibaldino con i rossi in chiaro-scuro accentuato che rimandano a Goya.
Infine gli attori. I principali personaggi storici, Mazzini e Crispi, risultano un po’ troppo da tv fiction e neanche sua maestà Servillo riesce a sollevare dall’anonimato il suo Mazzini, che invece dovrebbe essere il polo attorno al quale ruotano tutte le vicende, il vero e solo gigante politico ed ideologico che ispira le esistenze dei tre patrioti dei quali Martone segue le gesta. Sono infatti del tutto inesistenti nel film le altre figure storiche quali Garibaldi, Cavour o il Re sabaudo. Meglio gli altri personaggi, in particolare Domenico-Lo Cascio e Andrea-Binasco. Bellissime le bombe per l’attentato a Napoleone III.
Théodore Géricault, Teste di ghigliottinati. XIX secolo |
Un contributo importante, comunque!
RispondiEliminaIl film nel complesso è interessante, ma indubbiamente non è facile rappresentare in maniera certosina simili eccelsi personaggi storici.
RispondiElimina@ adriano
RispondiEliminasono d'accordo, contributo importante
@ tizyana, benvenuta negli orti
RispondiEliminadici bene, eccelsi, eccelsi, anche se crispi nel film non fa una bella figura